Il mito dei cavalieri fantasma
Quando le schiere dei morti marciavano tra i vivi in un eterno e spaventoso tormento: la leggenda dei cavalieri fantasma nel folclore medievale.
La paura del ritorno dei morti era ben radicata nel folclore europeo, tanto da dar luogo a svariate leggende su negromanti, guerrieri scheletri e cacciatori dall’Oltretomba. Di non morti ne abbiamo già discusso ampiamente da queste parti, ma le fonti storiche sull’argomento sono tantissime e durante le ricerche per i miei romanzi m’imbatto sempre in qualcosa di sconosciuto, direi quasi inedito in Italia, come le storie sui cavalieri fantasma che sto per raccontarvi.
Tra le varie opere letterarie sui guerrieri redivivi ne ho trovata una in particolare che narra di un avvistamento nei pressi della città di Worms, in Germania, nel XII secolo1. La comunità locale si fece spettatrice di un evento straordinario: una lunghissima colonna di cavalieri emerse all’improvviso da una montagna e si mise in marcia verso una destinazione sconosciuta. L’esercito era enorme e la sua natura soprannaturale chiara a tutti: erano apparsi dal nulla come degli spiriti.
Un coraggioso abitante della zona, armato di fede cristiana e ripetuti segni di croce, si avvicinò all’armata di cavalieri fantasma per chiedere loro cosa volessero. Lo fece in nome del Dio Onnipotente da cui sperava di ottenere tutta la protezione necessaria a fronteggiare quella possibile minaccia dell’Aldilà. E i cavalieri, molto cordialmente, risposero.
“Noi non siamo, come pensi, delle illusioni. Piuttosto, siamo le ombre dei cavalieri che di recente sono stati uccisi. Le armi, le armature e i cavalli che prima erano i nostri strumenti per il peccato sono ora gli strumenti del nostro tormento. In verità, stiamo bruciando, anche se non puoi vederlo con i tuoi occhi corporei.”
Eccheardo d’Aura, Chronicon Uraugiensis
L’idea alla base di questa schiera di guerrieri morti condivide le sue origini con un altro grande mito europeo, soprattutto nordico, che è quello della Caccia Selvaggia: l’orda furiosa che nelle notti più buie dell’anno si lancia al galoppo in un’eterna e tormentata caccia infernale. Molti associano questo motivo folcloristico alla mitologia norrena e alla leggenda degli einherjar di Odino: gli spiriti dei guerrieri caduti valorosamente in battaglia.
Le opere da cui abbiamo attinto gran parte delle informazioni riguardo la mitologia norrena sono l’Edda in Prosa e l’Edda Poetica, entrambe scritte nel XIII secolo. Grazie a questi due testi sappiamo che gli einherjar al termine di ogni battaglia venivano scelti dalle valchirie per essere scortati fino al Valhalla, dove avrebbero combattuto di giorno e festeggiato di notte in un ciclo infinito di vita, morte e rinascita. Tuttavia si tratta di fonti appartenenti al Basso Medioevo, quando l’epoca delle scorrerie vichinghe era terminata già da secoli e il Cristianesimo si era diffuso fra le popolazione germaniche, in Britannia e perfino in Scandinavia.
Le tradizioni norrene in uso prima dell’Anno Mille, tramandate oralmente, è probabile che abbiano subito un’importante rivisitazione, ed è altrettanto probabile che il mondo che noi attribuiamo a quei vichinghi con i capelli e le barbe da hipster, tutti dipinti, vestiti di pelli e con le asce in pugno, sia perlopiù fittizio.
Sui cavalieri fantasma però esistono delle fonti antiche legate alla cultura germanica, di cui Tacito, nel I secolo, era grande esperto.
“Quanto agli Arii, a parte la forza che li fa emergere fra i popoli or ora enumerati, con artifici e scelta di tempo esaltano la ferocia, già insita nel loro aspetto truce: hanno scudi neri e il corpo tinto di scuro; per combattere scelgono notti tenebrose, e la sola raccapricciante comparsa di questo esercito di fantasmi semina panico, poiché nessun nemico sa reggere a quella stupefacente e quasi infernale visione; infatti in ogni battaglia i primi a essere vinti sono appunto gli occhi.“
Tacito, De origine et situ germanorum (98 d.c.)
Alcuni associano questo breve passaggio in latino all’origine del berserker, il furioso guerriero preda di attacchi d’ira particolarmente devastanti. Io invece ci vedo più un’assonanza col mito dell’armata delle tenebre e della minaccia dall’Oltretomba. La stessa di cui narra Rodolfo il Glabro attorno all’XI secolo.
Il prete di un piccolo villaggio francese della Borgogna si ritrovò spettatore di una scena terrificante: al calare del crepuscolo, appena le tenebre della notte ammantarono le campagne, una colonna di cavalieri apparve da nord, al galoppo, armati di ferro. Cavalcavano a spron battuto verso ovest e non appena il prete spaventato chiamò i servi per mostrar loro l’accadimento, l’armata scomparve nel nulla2. L’autore della cronaca commenta così:
“Questo fatto dovrebbe essere ricordato con la massima attenzione: ogni volta che prodigi così evidenti vengono mostrati a persone che sono ancora vive e nel corpo … non rimangono in vita a lungo.”
La minaccia delle schiere dei morti non era dunque solo immediata. I redivivi incutevano terrore ed erano di certo pericolosi con quelle vecchie armi arrugginite, tuttavia la loro apparizione era considerata anche un cattivo presagio. Coloro che s’imbattono nella caccia selvaggia “non rimangono in vita a lungo”. Questa interpretazione prese piede a partire dalla diffusione del Cristianesimo, quando la dottrina s’impose sui vecchi miti e perfino il leader dei cavalieri fantasma si tramutò in un demone cristiano: Hellequin o Harlequin.
“Li guidava un grande gigante
Roman de Fauvel, 1310-14
Che arrivò con un grande tumulto
Era vestito del suo sudario.
Credo fosse Hellequin
E tutto il resto dell’esercito
che lo segue, completamente infuriato.”
Colui che guidava la caccia, in principio lo stesso Odino, col tempo assunse caratteristiche completamente differenti, consone alla nuova dottrina biblica (che di giganti come il filisteo Golia ne aveva da raccontare). Hellequin conduce le schiere dei morti infuriati non più vestito di ferro, ma coperto da un sudario per rimarcare la sua appartenenza all’Oltretomba. Le rivisitazioni del mito però non si limitarono alla sola sfera religiosa, ma anche a quella dell’intrattenimento, in particolar modo quello umoristico.
La novella di Nastagio degli Onesti contenuta nel Decamerone affronta l’argomento del cavaliere fantasma, condannato a una caccia eterna nella Selva oscura. Il tema corre sul filo dell’ironia drammatica, tuttavia vi è un altro racconto dello stesso periodo che fa leva sulla sola ironia beffarda. Si tratta di un fabliaux, una breve storia in versi tipica della Francia medievale3.
La storia inizia con un cavaliere che vuol far l’amore con una donzella. Così, di botto. La donzella è maritata a un altro cavaliere, ma non è questo il problema. Considerata la frequenza con cui si tradivano i legami famigliari, proprio come oggi, il vincolo del matrimonio costituiva un ostacolo facilmente aggirabile. Il vero problema del cavaliere era di non aver mai provato il suo amore in battaglia, vestito di ferro, con la spada in pugno.
Per dimostrarle di essere degno del suo amore organizzò quindi un torneo. Chiamò tutti i cavalieri che conosceva e per tutto il giorno si presero a mazzate in capo. Il nostro eroe si ritrovò perfino a combattere contro l’ignaro marito della donzella, sconfiggendolo alla giostra.
La donzella aveva ottenuto quello che voleva: l’amante era uscito vittorioso e dunque meritava il suo amore. Gli diede appuntamento quella sera stessa, in una camera vuota del palazzo, per sfogare gli istinti in un accoppiamento extra-coniugale come nei migliori cinepanettoni natalizi. Inutile dire che il cavaliere era al settimo cielo. Finalmente avrebbe potuto sfoderare la spada (l’altra) e unirsi all’amata che da troppo tempo desiderava ardentemente.
Al calar della sera, il cavaliere raggiunse la camera e si mise ad aspettarla, sdraiato sul letto, stremato dopo la lunga giornata trascorsa a combattere. La donzella era un po’ in ritardo e lui era davvero stanco, troppo: chiuse gli occhi per un istante, ma il sonno prese il sopravvento. Si addormentò.
La donzella quando entrò in camera e lo trovò russare andò su tutte le furie. A quanto pare non gli importava niente di lei visto che non riusciva nemmeno a restar sveglio ad aspettarla. Se ne tornò dal marito e mandò una serva a cacciar via il dormiglione.
Svegliato dalla serva il cavaliere cadde nella disperazione più nera: aveva rovinato tutto. Era riuscito a mandare a monte ogni cosa. Dopo tutti quegli sforzi però non aveva intenzione di mollare. Doveva escogitare qualcosa.
Indossò l’armatura del torneo, sguainò la spada e si precipitò nella camera della donzella che giaceva assieme al marito, nel letto. I due si rizzarono a sedere terrorizzati e il nostro eroe annunciò con voce grave di essere un cavaliere fantasma, morto in torneo, che aveva estremo bisogno del perdono di lei per riposare in pace.
La donzella riconobbe la sua voce e rifiutò: non intendeva stare al gioco di quel buffone. Il marito invece se la faceva sotto. Vuoi per l’ora tarda, vuoi per lo spavento, ci credeva eccome alla storia del fantasma. E si arrabbiò molto. Perché quella stupida di sua moglie negava il perdono a un cavaliere venuto dall’Oltretomba? Il dannato avrebbe potuto tormentarli per sempre, come il cavaliere nero di Nastagio degli Onesti, o come lo stesso Re Herla della caccia selvaggia.
Il marito pregò la donzella di perdonare il dannato redivivo e lei finì per acconsentire. Fu così che il cavaliere ritrovò l’amore della sua dama. La storia si conclude così. Non sapremo mai se alla fine i due hanno ficcato per davvero, ma sono propenso per il sì.
Di guerrieri non morti, cavalieri fantasma e strane storie medievali continueremo a parlarne già dal prossimo articolo: “La storia di Walchelin e l’armata fantasma“. Non perdetela!
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