La selva oscura: il bosco nel medioevo
Da covo di briganti, streghe e bestie feroci a risorsa economica: il bosco nel medioevo, cuore magico e misterioso della natura selvaggia
“Quel mattino il cavaliere s’infilò in una foresta selvaggia, giù per il sentiero. Le querce crescevano centuplicate in una fitta macchia, noccioli e biancospini si aggrovigliavano coperti di muschio e molti uccelli sui rami gracchiavano pietosamente per il dolore del freddo pungente. Gawain, in sella al suo Gringolet, cavalcava solitario attraverso la selva col cuore ricolmo di timore, perché là dentro non avrebbe trovato alcun un riparo…”
Ser Gawain e il cavaliere verde, Ciclo bretone, XIV sec. (riadattamento, il bosco nel Medioevo)
Recentemente abbiamo parlato del cavaliere errante citando ser Gawain e la sua quest del Cavaliere Verde per introdurre l’argomento del matrimonio strategico. Nelle storie cui siamo stati abituati fin da piccoli però c’è un altro tema importantissimo, vero e proprio pilastro narrativo: sto parlando della selva oscura, luogo pericoloso e ignoto, ma anche motore economico fondamentale. Com’era davvero il bosco nel medioevo?
Partiamo subito col dire che era diverso da come ce lo immaginiamo oggi. Perché gli scienziati sono ormai concordi nel ritenere che alle soglie del XXI secolo non esiste più un solo pezzettino di pianeta che l’uomo, in un modo o nell’altro non abbia alterato1. Non viviamo più in ambienti ecologicamente intatti come quelli primitivi e lo sfruttamento agricolo è per sua stessa concezione contrario al mondo naturale: addomestichiamo piante e animali per ottenere prodotti che rimuoviamo dal sistema e che invece sono parte integrante dello stesso. La mela cade dall’albero e rimane a marcire sul terreno perché è così che deve essere. Togliendola di lì, nonostante i concimi e le moderne tecniche di fertilizzazione, andiamo a spostare inevitabilmente gli equilibri della bilancia terrestre. E le ripercussioni di questo semplice principio sono infinite.
Con la sua sola presenza l’umanità ha modificato il pianeta. E questo non è avvenuto solo in tempi recenti. La colpa non è delle macchine a vapore, della combustione del carbone fossile, dei computer, degli smartphone e dell’irresponsabilità contemporanea. Sì, sono cose che incidono molto. Ma la causa scatenante, il vero motivo per il quale il conflitto uomo-natura ha decretato la vittoria schiacciante del bipede è la pura e semplice sopravvivenza. L’uomo sopravvive e quindi altera il pianeta. Da migliaia di anni.
L’ambiente nel mondo antico
Ancor prima della rivoluzione industriale l’ambiente era già alterato dallo sfruttamento incessante degli uomini che, generazione dopo generazione, deterioravano il territorio. Fin dal Neolitico abbiamo agito come cavallette, rosicchiando tutto ciò che siamo riusciti a rosicchiare senza bisogno di aspettare l’invenzione dei trattori o chissà quali strumenti tecnologici complessi.
Gran parte delle civiltà più antiche del mondo, come quelle che abitavano la Mesopotamia, l’Egitto, l’Africa settentrionale e la Grecia, attraverso secoli di progresso e crescita demografica hanno consumato la terra fino a ridurre alcune regioni al deserto o semideserto2 3. Gli antichi romani si affidavano alle risorse d’Egitto per procurarsi il pane, i celebri “granai di Roma”, che da soli sopperivano a circa metà del fabbisogno di grano dell’intero impero4, ma l’efficienza delle tecniche di irrigazione finì per prelevare acqua dalle falde sotterranee più di quanto fosse sostenibile per l’ambiente. Conseguenza che, unita alla recente apertura del canale di Suez (vero e proprio macigno scagliato sulla delicata bilancia dell’equilibrio naturale), ha portato a una desertificazione probabilmente irreversibile di quelle zone del nord Africa.
Le lamentazioni sumere sono dei componimenti poetici scritti su tavolette d’argilla nel 2.000 avanti Cristo. Si tratta di un genere letterario che, come suggerisce il nome, tratta di disastri storici tra cui, per l’appunto, le desertificazioni. Secondo le descrizioni presenti in queste opere la città della Mesopotamia Ur cadde proprio a causa del cambiamento climatico e dell’aridimento territoriale scatenato, secondo gli storici, da numerosi fattori fra i quali spicca l’impiego intensivo di agricoltura e della deforestazione. Mettici anche guerre e carestie e il quadro è completo.
Insomma, il pianeta cambia, evolve, ma l’umanità ci ha messo del suo per accelerare determinati processi. Oppure per metterne in moto di nuovi. Quello dell’ecologia è un argomento che accende i dibattiti ormai da qualche decennio, ma l’impatto antropico non può essere ignorato, perché è impensabile parlare di cambiamenti climatici e rimuovere gli esseri umani dall’equazione.
La selva oscura dei poemi cavallereschi è quindi un luogo diverso da come lo fotografiamo oggi quando usciamo a far trekking, ma al tempo stesso decisamente lontano dalla natura selvaggia e incontaminata del Mesozoico. Perché anche all’epoca di dame e cavalieri svolgeva un’importante funzione economica e sociale ed era, in qualche modo, abitato.
Il bosco nel medioevo
Subito dopo la caduta di Roma, attraverso quelle che fin dalle scuole elementari c’insegnano a chiamare invasioni barbariche, la società del tempo cominciò a rinchiudersi nei propri insediamenti fortificati dando vita a un progressivo abbandono delle colture. I campi fino ad allora controllati dalla precisa macchina agricola romana finirono sepolti sotto la vegetazione e il paesaggio cominciò a puntellarsi di boschi, paludi e foreste. Nell’Alto Medioevo, al netto delle eccezioni, la natura sembrava davvero aver ripreso il suo ruolo predominante5. Ma era solo una parvenza.
Il bosco nel medioevo si trovava al limitare della civiltà. Confinava con gli insediamenti, i campi e più tardi con i parchi e i giardini delle ville suburbane. Era un luogo la cui pericolosità veniva decantata nei poemi e nelle canzoni, ma necessario: si trattava infatti di una meta insostituibile per la caccia, l’attività necessaria per il procacciamento della carne, il consolidamento sociale delle famiglie signorili e l’abbattimento delle fiere: le bestie feroci che danneggiavano l’economia agraria.
L’orso, il cinghiale e il lupo rappresentavano nemici temibili per l’uomo e lo avrebbero fatto ancora a lungo, fino all’avvento delle armi da fuoco. Attaccavano le greggi, i pastori e coloro che si avventavano fuori dai sentieri battuti. Per questo era necessario varcare la soglia della selva oscura armati di arco, frecce e lance uncinate, per liberarsi delle letali fiere. C’era perfino chi lo faceva dietro pagamento: 3 lire per ogni lupo catturato vivo, 30 soldi se morto6.
Oltre alla caccia, un’altra proficua attività da svolgersi sotto le buie fronde degli alberi era quella del pascolo delle greggi: capre, pecore, montoni e, soprattutto, maiali. I maiali erano animali perfetti per l’allevamento. Mangiano qualsiasi cosa, si riproducono facilmente e della loro ciccia non si butta via nulla. Letteralmente. Le mandrie di maiali venivano portate dove crescevano faggi, querce e tutti quegli alberi che producono frutti poveri in grande quantità. Li si lasciava pascolare, e ingozzarsi. Proprio come accade nel romanzo che ho appena terminato di scrivere, in cui porcari di Malarocca giocano un ruolo fondamentale nell’economia di un feudo impoverito, devastato dalle carestie e dall’avvicinarsi della palude, luogo oscuro, ricolmo di sofferenza.
Ho nominato più volte la selva oscura perché uno dei contributi che hanno inciso maggiormente sull’immaginario collettivo del bosco nel medioevo ci viene restituito proprio da Dante Alighieri. Nella Divina Commedia il bosco è selvaggio, aspro e forte, tanto amaro che la morte lo è poco di più: allegoria del peccato in cui può incorrere l’uomo durante il suo cammino di vita. Ma c’è un altro autore trecentesco che si cimentò nella descrizione di quei luoghi selvaggi dove albergano le fiere, aggiungendo pure un tocco narrativo leggermente horror: Boccaccio.
Nella novella di Nastagio degli Onesti, contenuta nel Decameron, il bosco è in realtà una pineta. Niente di selvaggio e oscuro al contrario di ciò che racconta Dante, ma un luogo luminoso, sfruttato dall’uomo addirittura per le scampagnate e i grandi pranzi all’aperto. Il giovane Nastagio sta passeggiando per quella selva addomesticata, turbato dai propri pensieri. Egli ama la figlia di un ricco signore la quale purtroppo non lo ricambia. Perché lui non è abbastanza nobile per lei.
Nastagio ci sta male, parecchio. Ha appena dilapidato una fortuna per tentare d’impressionarla e non è servito a niente. Ha pensato perfino al suicidio. Ma ciò che accade nella pineta scaccerà per sempre quei pensieri dalla sua mente, perché è una scena che non si dimentica tanto facilmente.
Una giovane donna corre trafelata fra gli alberi, inseguita da due mastini e da un cavaliere armato. Viene raggiunta dai morsi dei cani proprio davanti a Nastagio e il cavaliere smonta di sella per catturarla. La tiene ferma sul terreno, le pianta il pugnale in petto per strapparle il cuore e poi lo getta in pasto ai suoi mastini.
Nastagio rimane pietrificato davanti a quello che poterbbe essere definito un episodio di caccia selvaggia. Ma non fa in tempo a riprendersi che il corpo della giovane si ricompone lì, per terra, acceso da nuova vita. I mastini scattano a rincorrerla, la raggiungono di nuovo e il cavaliere compie l’orrendo omicidio una seconda volta: una punizione eterna che sembra uscire direttamente dalle malebolge infernali.
Il nostro innamorato si dispiace nel vedere la giovane soffrire così. Vorrebbe aiutarla. Il cavaliere però lo avverte di non avvicinarsi, poiché i due stanno scontando una pena per contrappasso che non può essere interrotta. Il cavaliere infatti è dannato per suicidio, giunto a tale atto estremo dopo essere stato respinto dalla giovane per anni. La colpa della giovane invece è quella di aver agito con crudeltà, gioendo della morte del pretendente rifiutato. La scena si ripete ogni venerdì, per tanti anni quanti erano stati i mesi di quel corteggiamento maledetto.
Nastagio fugge via, punto nel vivo da quella storia che lo riguarda così da vicino. Decide di chiamare a raccolta i parenti e di organizzare un banchetto nel bosco, il venerdì successivo, invitando anche la famiglia della ragazza di cui è perdutamente innamorato. Non bada a spese per quel pranzo sontuoso e, sotto le fronde dei pini, ancora una volta, prende vita la caccia selvaggia. Questa volta però davanti a tutti.
Il cavaliere insegue la giovane, la sbudella in mezzo ai tavoli addobbati a festa e getta il cuore in pasto ai mastini. E mentre il corpo si ricompone per dare inizio a una nuova caccia, il cavaliere intima i presenti di non intervenire, spiegando la storia del contrappasso e del rifiuto d’amore. Poi l’inseguimento ricomincia da capo.
Gli invitati sono sconvolti, ma più di tutti è sconvolta la ragazza di cui è innamorato Nastagio. Ella ripensa a tutte le volte che lo ha respinto crudelmente e al destino che la attende se non la smette di rifiutare le avances del suo pretendente. E in questa cornice macabra e del tutto spontanea la ragazza s’innamora di Nastagio. Ma non solo. Le altre ragazze presenti al banchetto sanguinario ripensano ai vari pretendenti che hanno rifiutato fino a quel momento e decidono di diventare più accondiscendenti per evitare il castigo divino. Una pacchia per i giovanotti della zona.
In questa novella emerge bene il dualismo del bosco nel medioevo, luogo abitato, fonte di reddito ma anche di piacere, e luogo oscuro dove si consumano i misteri più spaventosi, legati alla superstizione e alla magia. Non a caso, nei verbali dei processi inquisitoriali per stregoneria, la selva oscura era il luogo prediletto per l’incontro fra il diavolo e l’eccellentissima strega.
Il bosco gioca un ruolo predominante pure nel romanzo di cui vi sto parlando ormai da tempo e che è praticamente concluso. Devo soltanto infiocchettarlo un po’ e sarà pronto per il debutto in società. Se vi piacciono le storie fantastiche dovete restare da queste parti, perché ho intenzione di parlarvene nel dettaglio molto presto.
- Lucio Susmel, Principi di ecologia, fattori ecologici, ecosistemica, applicazioni ↩
- Lucio Susmel, Parte Terza, p 998 ↩
- Autori antichi come Solone, Platone, Cicerone, Plinio descrivono gli effetti del deterioramento della terra ed erano consapevoli che l’uomo ne è responsabile, come accaduto con la desertificazione dell’isola di Lesbo cominciata nel VI secolo avanti Cristo, Desertification in the Mediterranean Europe. A case in Greece Nicholas J. Yassoglou and C. Kosmas ↩
- Giuseppe Flavio, La guerra giudaica ↩
- Emilio Sereni, Storia del paesaggio agrario italiano ↩
- Statuti bonacolsiani di Mantova, 1303 ↩
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