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19 Aprile 2022

Il cavaliere poeta: la musica come strumento di guerra

cavaliere poeta taillefer

Dai bardi celti ai trovatori e trovieri medievali: il legame tra guerra e musica nella figura del cavaliere poeta, il cantore della battaglia

Di quelli che marciarono dopo l’eccesso di baldoria, solo tre sopravvissero al cozzare delle armi taglienti.” Recita così la canzone di Aneirin il bardo, cavaliere poeta celtico che nel VI-VII secolo si lanciò assieme ai suoi trecento compagni in un’ultima e disperata cavalcata, contro un nemico di gran lunga più potente e numeroso1.

La storia dei trecento celti è intrisa di sangue e leggenda, celebrata dallo stesso guerriero cantore che partecipò al massacro e sopravvisse per raccontarla: Aneirin, il cavaliere poeta. Se volete approfondire, non perdete l’articolo dedicato, qui, sul blog (Aneirin il bardo e l’ultima battaglia dei celti).

Oggi però andiamo oltre l’Antichità. Oggi parliamo dei poeti guerrieri che hanno fatto la storia medievale, fra canzoni di gesta e duelli di spada, a cominciare da Taillefer.

How Taillefer sang, and the battle began

“Allora Taillefer, che cantava assai bene, cavalcò un veloce destriero davanti al duca, cantando Charlemagne, e Rollant, Oliver e i vassalli che morirono a Roncesvalles. E quando si avvicinarono agli inglesi, “A boon, sire!” gridò Taillefer; “Ti ho servito a lungo, e tu mi devi qualcosa per tutto questo servizio. Oggi, quindi, per favore, lo ripagherai. Ti chiedo come mio guiderdone, e ti supplico ardentemente per questo, che tu mi permetta di sferrare il primo colpo in battaglia!”

The Chronicle of the Norman Conquest from the Roman de Rou, Master Wace, traduzione di Edgar Taylor 1837

Taillefer era un cavaliere poeta al seguito del re normanno Guglielmo il Conquistatore, che nel 1066, dopo esser sbarcato in Inghilterra, si apprestava ad affrontare l’armata anglosassone di Harold Godwinson. La battaglia stava per avere luogo nei pressi di Hastings, località che avrebbe dato il nome a uno degli scontri più celebri della storia medievale. E il nostro Taillefer, a quanto pare, voleva essere il primo ad aprire le danze.

Cantando le gesta di Carlo Magno, Rolando (o Rollone, secondo alcuni storici) e degli altri cavalieri che morirono a Roncisvalle, Taillefer si portò in prima linea, davanti a tutti, per chiedere al comandante dell’esercito normanno di poter sferrare il primo colpo in battaglia. Lo chiedeva in virtù del suo lungo e onorato servizio, come dovuto “guiderdone” (dal germanico widarlon2), ovvero la sua “ultima” ricompensa.

“E il duca rispose: “Lo concedo”. Quindi Taillefer lanciò al galoppo il suo destriero, caricando prima di tutti gli altri, e colpì a morte un inglese, conficcandogli la lancia sul petto e stendendolo a terra. Quindi sguainò la spada e ne colpì un altro, gridando: “Andiamo! andiamo! Che cosa fate, signori?” Al secondo colpo che sferrò, gli inglesi si spinsero in avanti e lo circondarono. Immediatamente si levò il fragore e il grido di guerra, e da una parte e dall’altra il popolo si mise in moto. I Normanni passarono all’assalto e gli Inglesi si difesero bene. Alcuni colpivano, altri spingevano avanti; tutti erano audaci e mettevano da parte la paura.”

Il duca assecondò il desiderio del cavaliere poeta permettendogli di caricare al galoppo, da solo, contro il nemico. Taillefer trafisse un inglese con la sua lancia e venne circondato dal nemico. La battaglia ebbe inizio e di lui non se ne seppe più nulla. Ma l’estremo atto, un sacrificio analogo alla devotio di Publio Decio Mure (puoi approfondire l’argomento nell’articolo su “i sacrifici rituali nella Roma Antica“), non fu dimenticato. Perché il suo gesto è rimasto impresso con l’inchiostro e mai potrà essere cancellato. La stessa cosa che è accaduta ad altri come lui: cavalieri con la vocazione per la spada e per il canto.

Guglielmo IX d’Aquitania

“Allora il duca di Poitiers … le miserie della sua prigionia… davanti a re, magnati e adunanze cristiane raccontava molte volte con stanze ritmiche e poesie briose”

Historia Ecclesiastica, Orderico Vitale, XII sec.

Guglielmo IX d’Aquitania fu un potente signore dei franchi, nonché primo trovatore della storia: ovvero un poeta che faceva uso della lingua volgare per comporre poemi di argomento profano, come ad esempio il racconto delle crociate. Racconto che suonerebbe epico, se non fosse che le imprese di Guglielmo non furono granché vittoriose.

Egli partì da Aquitania nell’anno 1101, durante la crociata subito successiva alla prima, quando ancora Gerusalemme era in mano cristiana e i saraceni non avevano mai messo a segno una vittoria. I franchi parevano invincibili, invasori pericolosi, che potevano conquistare tutti i regni d’Oltremare e perfino oltre… almeno fino all’arrivo di Guglielmo.

La sua armata, così come quella di altri duchi e conti francesi crocesignati, si arenò contro i turchi Selgiuchidi, indebolita dall’estenuante marcia e divisa dai dissidi interni. I nemici tesero loro un’imboscata nel deserto a sud di Eraclea, prima ancora di giungere in Terra Santa. E fu un massacro.

“Vedendo così l’esercito di Cristo disperso in fuga, e schiacciato dagli empi macellai, ai piedi del monte ove sorge il fiume Recleo, ed essi stessi si ritirarono, lasciando tutti i loro cavalli e tutti, e tuttavia pochi scapparono. Allo stesso modo anche il duca Guelfo, spogliato della corazza e di tutto, e fuggito per le montagne, fu appena salvato dalla mano del nemico. Ma moltissime migliaia de’ Alemanni, de’ Franchi e di Guasconi, che erano lontani dai monti, vi si sarebbero estinti. Ma se la contessa Ida fu catturata e portata via, o fu fatta a pezzi dalle membra di tante migliaia di cavalli, fino ad oggi non si sa; ma, come si dice, era tra tante migliaia di donne sposate da deportare in eterno esilio nella terra di Khorasan.”

LIBRO VIII. 39 – Alla fuga del vescovo di Arvernus, e del duca Guglielmo, e della morte della contessa Ida.

Guglielmo fu costretto a fuggire senza neppure il cavallo, lasciando i soldati al loro destino. E rimase solo col suo scudiero, vagando per “monti e sentieri ignoti”. Finché non trovò riparo a Tarso.

Il Conte (Guglielmo), però, col solo suo scudiero, fuggendo per monti e sentieri ignoti, in armi de’ suoi nemici, giunse infine in una città chiamata Longinach, presso Tursolt, che lo straniero, di nome Bernardo, governava. Pochi giorni dopo, Tankradus, principe di Antiochia, udendo ciò che un principe così distinto, avendo perso le sue spoglie e tutti i suoi affari, conduceva una vita povera e molto umile, ebbe compassione di suo fratello e delle preziose informazioni del principe. Prese le vesti pregiate, le fece rinnovare mentre stava con lui per parecchi giorni, e rinnovò i beni del paese mentre pranzava.

Libro VIII. 40 – Come Tankradus, il principe di Antiochia, recuperò Guglielmo mentre fuggiva attraverso le montagne.

L’esperienza, stando alle parole di Orderico Vitale, dovrebbe aver ispirato Guglielmo nella composizione di canzoni a tema “crociate”, che purtroppo però sono andate perdute. Quella del 1101, infatti, assieme alla precedente, è una campagna militare di Terra Santa di cui non conosciamo le opere dei cavalieri poeti. Ma la sconfitta non ha niente a che vedere con l’assenza di canzoni. Perché, da quel momento in poi, le sconfitte cristiane si sarebbero succedute senza soluzione di continuità fino alla totale perdita dei regni d’Oltremare, nel 1291 (per approfondire, leggi “Così muore il maestro dei templari“).

Alberico da Romano: un maledetto cavaliere poeta

Alberico da Romano, detto il maledetto, fu un cavaliere poeta particolare, che al contrario di quel che si potrebbe pensare degli artisti cantori, fu oggetto di un odio popolare smisurato. Stando alle cronache, era così odiato da divenire oggetto di una crociata vera e propria, autorizzata dalla Chiesa, con l’obiettivo di sterminare lui e la sua intera famiglia.

Potete leggere la sua storia nell’articolo dedicato (Alberico il maledetto), perché adesso ci concentreremo sull’aspetto artistico della vicenda, che riguarda le doti poetiche di questo personaggio controverso: agguerrito cavaliere e cantore dilettante.

Alberico strinse un rapporto di amicizia con Uc de Saint-Circ, celebre trovatore provenzale che percorse l’Italia per circa quarant’anni, accolto dalle varie corti del Bel Paese. Fu Uc a insegnare l’arte del trobar ad Alberico. Il componimento d’amore che viene da alcuni attribuito al cavaliere maledetto sarebbe infatti molto simile a un componimento del maestro francese, dedicato a una certa Maria de Mons: dando luogo, quindi, a una sorta di “imitazione letteraria” (per scopi didattici?).

Ma tutto questo ardore artistico venne presto cancellato dalla guerra. Alberico fece davvero una brutta fine e, forse, con lui scomparvero molte sue opere.

“Morte, morte a quel maledetto; bruci vivo colla sua consorte; e tutta la sua progenie sia estirpata!”

Salimbene de Adam (fra’ Salimbene da Parma) Cronica, XIII sec.

Alberto Malaspina vs Raimbaut di Vaqueiras

Alberto Malaspina fu un signore feudale nonché primo trovatore italiano di cui si conserva almeno un testo, ovvero una tenzone letteraria con un altro trovatore ben più famoso: il francese Raimbaut di Vaqueiras. I due disputarono un duello senza metter mano alla spada, attraverso una violenta tenzone poetica senza esclusione di colpi (nel senso che ci si offendeva pesantemente, più o meno come nelle moderne battaglie fra rapper: le diss song o diss track, che hanno dato origine al termine “dissing”, usato oggi soprattutto in ambito web).

La tenzone si svolse alla corte dei marchesi del Monferrato, dove il signore Bonifacio aveva accolto il francese Raimbaut da ormai molti anni, considerandolo uno dei poeti migliori in circolazione. Non si trattava però di un semplice menestrello di corte. Il francese era infatti un uomo d’armi, nato nel castello di Vaqueiras, e insignito cavaliere dal principe d’Orange3: “primeggiava per l’ingegno, le armi e la poesia”, recita la biografia, rendendolo uomo ideale per seguire il suo nuovo signore italiano in quell’assurda campagna militare detta Quarta crociata.

La Quarta crociata non fu combattuta contro il nemico saraceno per riconquistare Gerusalemme (caduta nelle mani del Saladino, sul finire del XII secolo), ma contro gli stessi cristiani. Poiché, per una serie di circostanze e interessi commerciali (fra cui spiccavano quelli di Venezia), l’armata dei crocesignati venne dirottata dapprima a Zara, una città balcanica d’interesse coloniale per la Serenissima e, infine, a Costantinopoli: la capitale dell’Impero romano sopravvissuto alle invasioni barbariche. Papa Innocenzo III, venendolo a sapere, decise di scomunicare tutti i partecipanti della crociata, poi però cambiò idea e scomunicò solo i veneziani, colpevoli d’aver condotto una campagna militare seguendo i soli interessi economici. I veneziani, però, non se ne curarono più di tanto. Perché avevano in mente un piano per aggiudicarsi ricchezze a non finire: la presa di Costantinopoli.

Era giunto da loro, tempo addietro, Alessio IV, detronizzato e accecato dal fratello che in quel momento portava la corona bizantina. L’imperatore detronizzato aveva promesso importanti accordi politico-militari, e soprattutto economici, a Venezia, per farsi aiutare a riconquistare quel che gli spettava di diritto. I veneziani colsero l’occasione per togliersi di dosso la scomunica dal papa, il quale era rimasto incantato dalla prospettiva di piazzare un nuovo imperatore a Costantinopoli e riunire così la cristianità dopo il Grande Scisma. In tutto questo caos politico cavalcava Raimbaut, il cavaliere poeta, ritrovatosi col suo signore del Monferrato a combattere contro dei ribelli bulgari, in seguito alla presa di Costantinopoli e il tragico saccheggio che ne seguì. Fu l’ultima loro impresa, perché vennero entrambi uccisi, il 4 settembre del 1207.

Ma torniamo indietro di qualche anno, alla corte tortonese, dove Raimbaut e il cavaliere poeta dei Malaspina si stavano sfidando a una tenzone poetica. Il primo a cominciare fu l’italiano, assestando un colpo dritto all’onore dell’avversario.

“I. Ora ditemi, Raimbaut, se non vi dispiace, se vi è capitato, come sento dire, che si è comportata male nei vostri confronti la vostra donna, di qui, del tortonese, per la quale avete composto invano diverse canzoni. Ella ha fatto su di voi un sirventese (a causa del quale voi siete umiliato, mentre lei è ricoperta di vergogna) [in cui si afferma] che il vostro amore non le conferisce onore né bene, motivo per cui ella si è allontanata da voi.

Alberto di Malaspina chiamò in causa la donna dell’avversario, che si era “comportata male” per via di un componimento, dove lei stessa aveva ammesso di essersi allontanata da Rimbaut perché quell’amore non le conferiva “né onore né bene”. L’aspetto interessante della vicenda è che, a quanto pare, pure l’amata del trovatore francese si dilettava di poesie. Dopo la stoccata dell’italiano, però, toccava a Rimbaut rispondere.

II. Marchese Alberto, è vero che ho amato l’ingannatrice sulla quale mi avete sfidato, che ha rinunciato a me e al buon pregio; ma non posso [fare nulla di] più, perché non l’ho offesa in nulla, anzi l’ho servita e onorata a lungo. Ma la vostra fede persegua lei e voi, che avete cento volte spergiurato per il denaro e perciò si lamentano di voi i genovesi: perché impedite loro il passaggio, contro la loro volontà.

Rimbaut giustificò il comportamento tenuto con l’amata e lanciò il primo insulto personale contro Alberto, accusandolo di essersi venduto per denaro. Si riferiva ail difficile rapporto coi genovesi, e ai pedaggi imposti per il transito dei cittadini liguri sulle strade del territorio malaspiniano.

III. Per Dio, Raimbaut, ciò vi garantisco: che è solo per desiderio di essere generoso che spesso ho sperperato tutto, e non per arricchirmi, né per accumulare tesori. Ma vi ho visto cento volte in Lombardia vagabondare a piedi come un misero giullare, povero e sfortunato in amore, e vi sarebbe stato utile chi vi avesse dato da mangiare. E ricordatevi di come vi trovai a Pavia!

Alberto Malaspina colpì l’onore del cavaliere poeta francese, deridendo il suo errare per le corti e la sua povertà di artista simile a “un misero giullare, povero e sfortunato in amore”.

IV. Marchese Alberto, cattiverie e insulti sapete ben dire e meglio li sapete fare e tutti gli inganni e tutta la fellonia e la malvagità si possono trovare in voi, e poco valore e poca cavalleria. Perciò vi hanno tolto senza nemmeno chiedervelo la Val di Taro, avete perso Pietracorva per la vostra follia e Niccolò e Lanfranco da Mar vi possono ben accusare di tradimento.

Raimbaut ribatté sottilineando la mediocrità di Alberto riguardo il mestiere delle armi: “poco valore e poca cavalleria”.

V. Per Dio, Raimbaut, secondo me avete fatto una follia quando avete rinunciato al mestiere per cui avevate onore e agio; e quello che vi ha trasformato da giullare in cavaliere vi ha dato sofferenza, dolore, preoccupazione e angoscia, collera e fastidio e vi ha levato gioia, merito e allegria: perché, da quando montate sul destriero e non più sul ronzino, non avete dato un sol colpo di spada o di lancia.

A questo punto Alberto Malaspina rispose sulla stessa linea, mettendo in dubbio le qualità cavalleresche dell’avversario “trasformato da giullare in cavaliere”, che non aveva mai usato per davvero le armi (e aveva ragione, se non fosse che di lì a qualche anno Rimbaut sarebbe partito per la crociata senza più far ritorno). Il dettaglio del ronzino abbandonato in virtù del destriero (ovvero del cavallo da guerra, ben più costoso di un cavallo normale) riguarda l’umile passato del francese, cresciuto nel piccolo castello di Vaqueiras.

VI. Marchese Alberto, tutta la vostra speranza risiede nel tradire e nell’ingannare tutti quelli che si fidano di voi e che vi servono di buon grado e volentieri: non rispettate alcun giuramento o fede. E se io non valgo nelle armi quanto Oliviero, voi non valete quanto Orlando, a mio parere, perché Piacenza non vi concede Castagneto, vi prende la terra e voi non vi vendicate.

Raimbaut ribatté con un paragone letterario: se lui non era valoroso quanto Oliviero del ciclo carolingio, Alberto non era di certo Orlando. Senza contare che il cavaliere poeta dei Malaspina era stato più volte sconfitto sul campo, come quando perdette la località di Castagneto.

VII. Raimbaut, che Dio preservi il Mio Scudiero, in cui ho messo il mio cuore e la mia speranza. Ho in spregio di vedere voi e don Peire, castratore acciaccato, panzone!

VIII. Marchese Alberto, tutti i vostri masnadieri hanno tale paura e timore di voi che vi chiamano il marchese puttaniere, diseredato, sleale e indegno della fiducia!”

E, infine, messe da parte le velleità letterarie, si arrivò alle maniere forti. Alberto di Malaspina diede del “castratore acciaccato e del panzone” al francese; e il francese del “puttaniere, diseredato e sleale” all’italiano. La tenzone letteraria finisce con questo violento scambio di insulti, ma chissà che non abbia dato seguito a un duello vero e proprio, vista l’escalation drammatica.

Di cavalieri poeti che hanno fatto la storia della letteratura (e della guerra) ce ne sono ancora moltissimi, fra cui proprio lui, il Sommo, Dante Alighieri: cavaliere, nonché feditore tra i più agguerriti, di quelli che davano inizio alla battaglia con una prima carica al galoppo.

“Dieci anni erano già passati dalla battaglia di Campaldino, nella quale la parte Ghibellina fu quasi al tutto morta e disfatta; dove mi trovai non fanciullo nell’armi, e dove ebbi temenza molta, e nella fine grandissima allegrezza per li varii casi di quella battaglia”

Epistola perduta di Dante Alighieri, riportata da Leonardo Bruni “Della vita, studi e costumi di Dante”, XV secolo

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  1. Y Gododdin, Aneirin (600 ca.)
  2. Treccani, guiderdóne (ant. guidardóne) s. m. (dal provenz. guizardon, che è dal germ. widarlon «retribuzione», ravvicinato al lat. donum «dono»)
  3. Vidas di Raimbaut di Vaquerais
Lorenzo Manara
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