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7 Dicembre 2021

Le pozioni magiche: fra dei, streghe e mitologia

pozioni magiche

Filtri d’amore, elisir di lunga vita, pozioni magiche, farmaci, veleni: dalla leggenda di maga Circe alla stregoneria delle opere classiche

Incantare liquidi per dar vita a pozioni magiche è una prassi che appartiene alla cultura fantastico-letteraria ormai da millenni. Nell’Odissea di Omero la specialista di questa arte arcana è Circe, la cosiddetta “maga”, anche se il termine risulta improprio data la sua appartenenza al mondo divino. Costei è infatti una dea, esperta di filtri, rituali e metamorfosi (ne parlo anche nel video sul mio canale YouTube, corri a vederlo!).

Il concetto di magia si sviluppa nel mondo greco antico a partire da Erodoto in riferimento ai magi persiani, i magi (màgoi), sacerdoti che si occupavano di sacrifici, riti funebri, divinazioni e interpretazione dei sogni1. L’episodio che potremmo considerare all’origine della storia della magia (almeno in senso etimologico) avvenne sotto il dominio di Serse, nel corso delle guerre persiane, e più precisamente nel 480 a.C. quando i magi persiani sacrificarono i cavalli bianchi del loro sovrano per favorire l’attraversamento del fiume Strimone. Erodoto utilizza il termine pharmakeuein nella descrizione dell’atto rituale, richiamando l’uso del pharmakon, ovvero un “rimedio” e, al tempo stesso, “veleno”2.

Con il termine greco da cui deriva il nostro farmaco gli antichi designavano le piante medicinali, le droghe, le tinture e perfino quei procedimenti analoghi alla preparazione di pozioni magiche e filtri incantati, gli stessi utilizzati dalla dea Circe che, come abbiamo visto, risulta anacronistico definirla maga considerato che al tempo di Omero non esisteva nemmeno tale concetto.

Una dea crudele, che trasforma i viaggiatori capitati nella sua isola in bestie. Anche i marinai di Ulisse cadono nella trappola: accettano la finta ospitalità della strega ante-litteram e si dissetano con il ciceone, bevanda a base di formaggio, farina d’orzo, miele, vino di Pramno. Dopo aver somministrato il ciceone corretto con un po’ di pozione magica la dea fa uso del suo rhabdos per completare la bestiale trasformazione. Solo dopo aver toccato i malcapitati con la sua verga magica (un vero e proprio bastone del potere come nella tradizione fantasy contemporanea) Circe è in grado di compiere il prodigio, cosa che non avviene con Ulisse, protetto dai consigli di Ermes e dall’utilizzo di un farmaco buono, la pianta moli.

«Ecco, va’ nelle case di Circe con questo benefico farmaco, che il giorno mortale può allontanare dal tuo capo. Ti svelerò tutte le astuzie funeste di Circe. Farà per te una bevanda, getterà nel cibo veleni, ma neppure così ti potrà stregare: lo impedirà il benefico farmaco che ti darò, e ti svelerò ogni cosa» (…) «Mi porse il farmaco, dalla terra strappandolo e me ne mostrò la natura. Nero era nella radice e il fiore simile al latte. Gli dei lo chiamano moli e per gli uomini mortali è duro strapparlo: gli dei però possono tutto.»

Odissea, Omero

Per trovare la figura della pharmakis vera e propria, ovvero la preparatrice di pozioni magiche, bisogna però aspettare il IV secolo a.C. con il poeta Teocrito. In una sua opera3 veniamo a conoscenza di una donna di nome Simeta che, tradita dall’amante Delfi, decide assieme alla schiava Testili di compiere un oscuro rituale magico. Lo scopo? Vendicarsi, ovviamente.

Dove sono i rami di alloro? Portali, Testili. Dove sono i filtri?
Con la benda di lana purpurea inghirlanda la coppa,
ch’io possa avvincere il mio amato che mi dà pena.
Sono dodici giorni, ahimè, che non viene,
e neanche se siamo vive o morte,
né bussa alla mia porta, l’indegno. Di certo Amore
e Afrodite hanno portato altrove il suo volubile cuore.
Domani andrò alla palestra di Timageto,
per vederlo, e gli rinfaccerò come mi tratta.
Ma ora con sacrifici voglio avvincerlo. Luna,
rifulgi bellamente: a te, o dea, volgerò il mio sommesso canto,
e a Ecate sotterranea, che atterrisce anche i cani,
quando avanza fra le tombe dei morti e il nero sangue.
Salve, tremenda Ecate; fino alla fine siimi compagna
nel preparare questi filtri, degni dei filtri di Circe,
o di Medea o della bionda Perimeda.

Idillio II – Le Incantatrici (o il filtro magico)

Simeta nella preparazione del suo filtro si rivolge a Ecate, l’oscura dea che dal V secolo a.C. in poi assume il dominio delle ombre, dei fantasmi notturni e del nuovo concetto di magia che andava diffondendosi4. Con la rivoluzione iniziata da Erodoto, gli scultori cominciano a raffigurare Ecate nella sua triplice forma per rispecchiare le influenze terrestri, lunari e ctonie (ovvero del mondo sotterraneo); tre corpi e tre teste, ciascuna appartenente a uno dei tre mondi.

Secondo alcuni autori Ecate fu madre di Medea e della stessa Circe5, le quali vengono citate da Simeta per la buona riuscita del filtro magico. La maga Perimeda invece è sconosciuta. Qualcuno la associa ad Agamede, personaggio dell’Iliade che conosceva “quanti farmachi l’ampia terra alimenta6, e quindi un altro modello di strega esistita prima ancora del termine stesso.

Torquilla, attira tu alla mia casa quell’uomo.
Farina d’orzo anzitutto è consumata nel fuoco; su, spargila,
Testili. Sciagurata, dove te ne sei volata con la mente?
Dunque anche per te, maledetta, sono oggetto di spasso?
Spargila, e insieme di’: “Io spargo le ossa di Delfi”.
Torquilla, attira tu alla mia casa quell’uomo.
Delfi mi ha dato tormento: io per Delfi brucio
l’alloro. E come l’alloro crepita forte, bruciando,
e subitamente divampa, e non se ne vede neanche la cenere,
così anche Delfi nella fiamma le sue carni distrugga.
Torquilla, attira tu alla mai casa quell’uomo.
Ora offro la crusca. Tu, Artemide, anche l’adamante
dell’Ade smuoveresti, e se altro c’è di più saldo.
Testili, le cagne latrano per la città;
la dea è nei trivi; presto, fa’ risuonare il bronzo.
Torquilla, attira tu alla mia casa quell’uomo.
Ecco tace il mare, tacciono i venti,
ma non tace la mia pena dentro il mio cuore;
tutta ardo per lui, che di me misera
ha fatto una donna perduta, non più vergine, invece che sposa.
Torquilla, attira tu alla mia casa quell’uomo.
Come questa cera io struggo con il favore della dea,
così si strugga d’amore all’istante Delfi di Mindo.
E come gira vorticosamente questo rombo di bronzo a opera di Afrodite,
così quello si aggiri presso la mia porta.
Torquilla, attira tu alla mia casa quell’uomo.
Tre volte io libo, e tre volte, o veneranda, pronuncio queste parole:
che sia una donna a giacere al suo fianco, o sia anche un uomo,
egli tanto ne abbia di oblio, quanto dicono ne abbia avuto Teseo
un giorno a Dia per Arianna dai riccioli belli.
Torquilla, attira tu alla mia casa quell’uomo.
Ippomane è una pianta di Arcadia; per essa tutte
le puledre sui monti infuriano, e le veloci cavalle.
Così possa vedere anche Delfi, ed entri egli in questa casa
Simile a un folle, fuori dalla nititda palestra.
Torquilla, attira tu alla mia casa quell’uomo.
Delfi ha perduto questa frangia del suo mantello,
ed io ora la sfilaccio e la getto nel fuoco selvaggio.
Ahimè, Amore tormentoso, perché nero sangue dal mio corpo
hai tutto bevuto, attaccandoti come palustre sanguisuga?
Torquilla, attira tu alla mia casa quell’uomo.
Pesterò una salamandra e domani gli porterò un beveraggio funesto.
Ma ora, Testili, prendi queste erbe magiche e impastale
sopra la soglia, fintanto che è ancora notte,
e di’ bisbigliando: “impasto le ossa di Delfi”.

Il rituale si apre con un Jinx Torquilla (torcicollo), uccellino dalla lingua lunghissima in grado di muovere rapidamente la testolina per trovare un partner durante la stagione degli amori. Il torcicollo veniva legato con le ali e le zampe ai raggi di una ruota, per farla poi ruotare in direzione dell’amato al fine di attirarlo7. Venivano poi sparsi sul fuoco la farina d’orzo e l’alloro al pronunciare della formula “Io spargo le ossa di Delfi”. L’adamante di cui si parla è il metallo più duro, di cui solo gli dei ne sono in possesso8, ripreso poi da Dungeons and Dragons sotto il nome di adamantio, e divenuto elemento fantastico ricorrente nella narrativa fantasy. I metalli sono elementi apotropaici fin dall’Antichità, come testimoniato da questa opera, utilizzati per il loro suono che scaccia via il male e le forze infernali.

Non manca l’utilizzo di oggetti personali della vittima, come la “frangia del suo mantello”, da sfilacciare e gettare nel fuoco, assieme all’impasto di generiche “erbe magiche” da preparare bisbigliando la formula ormai divenuta cantilena “impasto le ossa di Delfi”. Ci troviamo di fronte a quello che è a tutti gli effetti il procedimento per la creazione di pozioni magiche come lo s’intende ancora oggi, associato a maghi e, soprattutto, alle streghe.

Se l’impiego del povero uccellino non vi ha ancora sconvolti, non resta che viaggiare più avanti nel tempo, pochi anni prima della nascita di Cristo, per trovare un’altra dettagliata testimonianza di rito legato alle pozioni magiche che reca però una differenza sostanziale rispetto alle precedenti: la vittima sacrificale è un infante.

“Per tutti gli dei che in cielo governano
il genere umano e la terra,
cos’è questo fermento? perché tutte
mi guardate con occhi truci?
Per i tuoi figli, se a presenziare un tuo parto
hai mai invocato Lucina,
per questo vano ornamento di porpora,
per Giove che questo condanna,
dimmi, perché mi guardi come una matrigna
o una belva ferita?

Orazio, Epodo V, I sec. a.C.

La maga Canidia, che ricade perfettamente nell’archetipo della strega, deve sacrificare un bambino per creare un filtro d’amore, una delle pozioni magiche più frequenti della storia letteraria. L’opera di cui è protagonista si apre con la supplica del bambino stesso, che capisce d’essere caduto fra gli artigli di una donna malvagia. Ma Canidia non si fa intenerire nell’ascoltare quella richiesta disperata che pure “l’empio cuore dei traci” (i barbari) avrebbe accolto.

Assieme alle sue colleghe streghe Sagana Veia e Folia, rappresentate con i capelli irti di serpi come le Erinni della tradizione mitologica, personificazioni femminili della vendetta, le quattro donne imbastiscono il rituale oscuro. Proprio come nel brano sulle Incantatrici di Teocrito, la preparazione delle pozioni magiche si apre con un fuoco che arde e gli ingredienti che uno a uno vengono gettati tra le fiamme: cipressi funebri, caprifichi divelti dai sepolcri, uova di rospo viscido sporche di sangue, penne di civetta, erbe che vengono da Iolco (in Tessaglia, patria delle temibili streghe dell’antichità) e infine ossa strappate ai denti di una cagna.

Le streghe si dividono i compiti, ciascuna che si occupa di svolgere una specifica azione magica. Sagana sparge per il pavimento le acque dell’Averno, il lago nei pressi di Cuma, colonia greca italiana vicino all’odierna Napoli che si pensava celasse l’ingresso per l’Oltretomba. Veia invece scava nel terreno a colpi di zappa, dove sarà seppellito il fanciullo.

“Con solo il capo che affiora, come chi nuota
fuori dell’acqua ha solo il mento,
perché davanti ai cibi sempre nuovi e freschi
abbia a morire lentamente:
col midollo estratto e il fegato inaridito
si farà cosí un filtro d’amore,
quando le sue pupille sbarrate sul cibo
vietato si saranno spente.”

Il crudele rituale di magia nera prevede che il fanciullo muoia di fame, seppellito nel terreno, dinnanzi al cibo che le streghe gli mostrano; solo così il fegato inaridito e il midollo del fanciullo potranno essere usati per il filtro d’amore, materializzando quella fame mortale che ha caratterizzato i suoi ultimi istanti di vita.

Prima di morire il fanciullo decide di lanciar loro una maledizione, giurando che una volta passato a miglior vita tornerà a perseguitarle nella notte, come un demone, rubandone il sonno.

“I filtri non possono mutare il destino
degli uomini, giusto o ingiusto che sia.
Vi maledirò; e questa maledizione
nessun sacrificio potrà espiarla.
Quando, messo a morte, sarò spirato, innanzi
vi comparirò nella notte come un demone,
larva che con gli artigli vi ghermirà il volto,
perché questo possono i morti,
e pesando sui vostri cuori inquieti,
nel terrore vi ruberò il sonno.
Nei villaggi da ogni parte la folla
vi lapiderà, streghe maledette,
e avvoltoi e lupi sull’Esquilino
dilanieranno le vostre membra insepolte:
questo dovranno vedere i miei genitori,
che, ahimè, mi sopravviveranno’.”

Nei villaggi da ogni parte la folla vi lapiderà, streghe maledette“. Con questa frase profetica, Orazio conclude l’epode più oscura della sua produzione, immaginando un futuro dove le streghe saranno oggetto di una caccia sistematica, così come vorrebbero farci credere alcune opere d’intrattenimento e, purtroppo, di presunta divulgazione. Per alcuni storici il riferimento apparso in questo brano del I secolo a.C. lascia trasparire che qualcosa di simile sia avvenuto durante la restaurazione augustea, ma mancano fonti e testimonianze che lo confermino.

In ogni caso, l’originale latino recita “vos turba vicatim hinc et hinc saxis petens contundet obscaenas anus”, che alcuni esperti traducono come “Per le vie peste a sassi dal popolo, vecchie oscene, sarete a furor”9; stanto attenti a non introdurre il termine “strega” forse ancora troppo prematuro per l’epoca.

Per quanto riguarda il vero fenomeno della caccia alle streghe che dal Rinascimento in poi ha cominciato a far parlare di sé vi rimando all’articolo dedicato (I processi di stregoneria in Europa). Restate nei paraggi e iscrivetevi alla newsletter per non perdere i nuovi articoli e le uscite dei miei romanzi. Alla prossima!

  1. Fritz Graf, La magia nel mondo antico, p. 21
  2. L’invenzione della magia in Grecia di Marcello Carastro – Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco (2014)
  3. Idillio II, delle Incantatrici, Teocrito
  4. Ecate nell’enciclopedia Treccani
  5. Diodoro Siculo, Biblioteca storica, IV 40-58
  6. Iliade, XI, 741
  7. Aristotele (Hist. an., II, 12, 504) e Plinio (Nat. Hist., XI, 47)
  8. Esiodo, Teogonia 161:239
  9. Delle Odi di Q. Orazio recate in versi italiani da Tommaso Gargallo, volume II
Lorenzo Manara
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