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14 Settembre 2021

L’insubordinazione nella guerra medievale

insubordinazione nella guerra medievale

Non obbedire agli ordini oggigiorno è considerato un grave reato militare, ma come veniva trattata l’insubordinazione nelle guerre medievali?

Per fare la guerra sono necessarie un mucchio di persone, sia da un lato che dall’altro. Ed è risaputo che le persone, specialmente se in gruppo, sono in grado di tirar fuori comportamenti da perfetti imbecilli. Di esempi per dimostrare la stupidità umana ce ne sono da riempire un libro…

Ecco, immaginate una gran massa di persone vestite di ferro, con le armi in pugno, pronte a scagliarsi in guerra. Immaginate quanto sia facile che anche solo uno di loro esca dai ranghi per combinare un casino le cui conseguenze potrebbero portare alla morte di molti. Per ottenere un qualsiasi risultato è necessario che gli ordini vengano rispettati. Nonostante gli sforzi disciplinari, però, per i motivi sopra spiegati, è quasi inevitabile che qualcuno si rifiuti di obbedire, scatenando un’insubordinazione.

L’insubordinazione è un comportamento più frequente di quanto ci si potrebbe aspettare. L’uomo disobbedisce agli ordini da quando esistono gli ordini stessi. Talvolta per valide ragioni, talvolta per mancanza di disciplina o semplice ignoranza. E’ un tema particolarmente utilizzato anche in narrativa, per le sue potenzialità drammatiche dovute allo scontro fra valori e i conseguenti dilemmi morali.

Nel mio romanzo di prossima uscita, “La Stirpe delle Ossa”, ambientato nelle terre di Malarocca, fra battaglie in sella al destriero e strani accadimenti nei dintorni di una palude, gli episodi d’insubordinazione sono all’ordine del giorno. Perché la vita è dura e il piatto in tavola spesso vuoto: di obbedire a uno stupido signorotto pieno di privilegi non ne ha voglia nessuno. Anche perché in gioco non c’è solo la sopravvivenza. Sui campi di battaglia colmi di fango e sterco di cavalli si scommette il futuro degli uomini che vi prendono parte e una fetta importante della loro reputazione. Riusciranno a farsi valere? O perderanno il proprio onore?

Per capire meglio di cosa stiamo parlando basterà curiosare tra le cronache medievali, in questo caso fra quelle legate alle guerre di Terra Santa e alla settima crociata. Nei tre episodi che sto per raccontarvi c’è tutto quello che vi ho introdotto finora e anche di più riguardo l’insubordinazione. Le cronache delle campagne militari contro il “nemico saraceno” sono una miniera d’oro di aneddoti che mi hanno fatto davvero comodo in fase di progettazione del romanzo. Non tanto per le storielle in sé, quanto per le conclusioni che se ne può trarre, per comprendere meglio come pensavano e come agivano quegli uomini del XIII secolo.

La crociata in questione è quella svoltasi nella metà del Duecento e guidata dal re santo in persona, Luigi IX. Si trattò di una spedizione sgangherata, iniziata in maniera mediocre e finita peggio. Molto peggio. Perché il re santo venne catturato dopo una disastrosa sconfitta per poi essere rilasciato dietro pagamento della fantascientifica somma di 800.000 bisanti d’oro (che i templari anticiparono di tasca loro).

I crociati salparono dalla Francia con poche migliaia di uomini e veleggiarono verso l’Egitto, dove erano di stanza le forze musulmane più ingenti. La vera potenza musulmana non risiedeva infatti nelle lande desolate della Siria, ma nell’antico Egitto, dove i mamelucchi alimentavano una minaccia che qualche decina di anni più tardi avrebbe spazzato via per sempre il Regno Crociato (l’assedio di San Giovanni d’Acri del 1291 fu la pietra tombale del progetto di riconquista di Gerusalemme, di cui vi racconto gli esiti nell’articolo Così muore il maestro dei templari).

I crociati conquistarono il porto di Damietta, ai piedi della grande città di Al-Mansura. Eressero un accampamento e si prepararono all’assedio. Ma le cose finirono in tragedia molto presto. A raccontarcelo è il cavaliere Jean de Joinville, che nella sua cronaca sulla vita del re santo non si risparmia neppure i particolari più crudi. E di questo noi appassionati ne siamo più che felici (sulla battaglia di Mansura non perdere il video dedicato nel mio canale YouTube!).

“Poco dopo ch’ebbimo preso Damietta, giunse davanti a noi la cavalleria del sultano per porre d’assedio il nostro accampamento dalla parte di terra. Il re santo e la cavalleria s’armarono. lo, tutto armato, andai a parlare al re, e armato lo trovai, seduto su uno sgabello, circondato dai suoi cavalieri. Gli chiesi di lasciarmi condurre una sortita per intercettare i Saraceni e impedir loro di attaccarci. Quando messer Giovanni di Beaumont udì la mia richiesta, assai mi sgridò, e mi ordinò, in nome del re, che non mi allontanassi dal campo fintantoché il re non me lo comandasse.

Il cavaliere chiese al re di lasciargli guidare una sortita per incontrare i saraceni a cavallo coi suoi e ingaggiare battaglia fuori dall’accampamento. Ma un altro dei cavalieri che stavano tenendo consiglio nella tenda s’intromise, comandandogli di non disubbidire agli ordini. Stavano infatti aspettando rinforzi dal mare e Luigi IX non aveva intenzione di muovere un solo uomo prima del loro arrivo. L’insubordinazione non era tollerata.

Or avvenne che messer Gualtiero d’Autrèche si fece armare di tutto punto nel suo padiglione, e, montato a cavallo, lo scudo al collo, l’elmo in testa, fece alzare la tenda del suo padiglione, e dié di sprone per muovere incontro ai Turchi; e all’uscir che fece, tutto solo dal padiglione, quei del suo seguito gridarono: «Chàtillon!» Ma prima che venisse ai Turchi, cadde, e il suo cavallo gli passò sul corpo e se ne andò coperto delle sue armi verso i nemici, ché il più dei Saraceni montava su giumente, e perciò si diresse il cavallo verso di loro. E ci raccontarono quanti lo videro, che quattro Turchi passarono innanzi al sire Gualtiero che giaceva a terra; e, nel passare, gli davano gran colpi di mazza là dove giaceva.”

L’ordine di restare chiusi nell’accampamento con i saraceni fuori che tiravano frecce non era condiviso da tutti i crociati. Lo stesso autore della cronaca aveva manifestato i suoi dubbi col sovrano senza essere ascoltato. Nel clima di incertezza che avviluppava l’accampamento cristiano, un cavaliere decise di prendere l’iniziativa e si lanciò alla carica contro il nemico, da solo, scatenando un episodio d’insubordinazione le cui conseguenze si rivelarono presto disastrose.

Il cavaliere di nome Gualtiero d’Autrèche cadde da cavallo prima ancora di raggiungere il nemico e i saraceni lo riempirono di mazzate. I crociati uscirono dall’accampamento per soccorrerlo, purtroppo però era conciato davvero male.

Ivi lo soccorsero il conestabile di Francia e molte guardie del re, che lo portarono in braccio al suo padiglione. Dove giunto, non poteva parlare; molti chirurghi e medici del campo lo visitarono; e avvisando che non correva pericolo di morte, gli fecero un salasso alle due braccia. La sera, assai tardi, mi disse messer Alberto di Narcy che andassimo a trovarlo, poiché non c’eravamo ancora stati, ed uomo di gran nome e di gran valore era. Entrammo nel padiglione, e il suo ciambellano ci venne incontro, raccomandandoci di far piano per non svegliare il suo padrone. Ci appressammo in silenzio, e lo trovammo morto. Quando lo si disse al re, rispose che non vorrebbe averne mille di tali uomini, che non ascoltano i suoi ordini come aveva fatto colui.”

Gualtiero morì la sera stessa per colpa della sua insubordinazione. E il re santo disse che di uomini così non ne ne avrebbe voluti neppure se fossero stati mille in più: meglio pochi soldati che eseguono gli ordini, piuttosto che una masnada di teste calde.

I crociati rimasero accampati ancora per molto tempo, bloccati in quella brutta situazione sotto il tiro dei saraceni. Finché non giunse dicembre e il re ordinò finalmente di muoversi con tutto l’esercito.

Quando s’entrò nell’Avvento, il re mosse con l’esercito verso Babilonia (Cairo), secondo che il conte d’Artois aveva consigliato. Assai vicino a Damietta trovammo un corso d’acqua che usciva dal fiume grande; e fu così stabilito, che il campo rimanesse un giorno per sbarrare il detto braccio, acciocché si potesse passare. La cosa fu fatta assai facilmente; lo si sbarrò rasente il fiume grande, di modo che l’acqua rifluì subito al fiume. A questo corso d’acqua mandò il sultano cinquecento suoi cavalieri, fra i meglio equipaggiati che poté trovare per disturbare l’esercito del re e ostacolare il nostro cammino. Il giorno di San Nicola1 ordinò il re di riprendere a cavalcare, e che nessuno fosse si ardito da spronare contro i Saraceni sopravvenuti. Or accadde che quando l’esercito mosse, e i Turchi videro che non si cavalcava contro di loro, e seppero dalle loro spie che il re l’aveva proibito, presero ardire, e assalirono i Templari ch’erano in prima fila; e un Turco gettò a terra un cavaliere del Tempio, proprio ai piedi del cavallo di frate Rinaldo di Vichiers, maresciallo del Tempio. A tal vista, gridò ai fratelli: «Addosso, per Dio, ché non si può più sopportare.» Diede di sprone, e tutto l’esercito pure: i cavalli dei nostri erano freschi, e quelli dei Turchi già stanchi; per cui ho inteso dire che nessuno di essi sfuggì alla morte; e molti ve ne furono che, entrati nel fiume, annegarono.

I crociati s’incamminarono lungo il corso del Nilo e si trovarono davanti un affluente che si distaccava dal fiume e sbarrava loro la strada. Costruirono una diga per attraversarlo, ma i saraceni arrivarono con cinquecento cavalieri “fra i meglio equipaggiati in tutto l’esercito“. Il re santo ordinò di ignorare il nemico e di proseguire la marcia, probabilmente per non perdere tempo dietro a scaramucce che avrebbero rallentato ulteriormente l’intera campagna militare. E ancora una volta i suoi ordini non vennero rispettati.

Furono i templari stessi i protagonisti della seconda insubordinazione. Poiché dopo aver attraversato l’affluente, i saraceni si fecero tanto vicini da uccidere un fratello del Tempio in prima fila, proprio di fianco al maresciallo dell’ordine. Fu a quel punto che i templari si lanciarono alla carica in barba agli ordini del re, punti nell’orgoglio e smaniosi di menar le mani: “Addosso, per Dio, ché non si può più sopportare!

I crociati cacciarono il nemico e lo inseguirono fino a un altro ramo del Nilo, che alla foce si divideva in una ragnatela di corsi d’acqua. L’esercito del re santo rimase bloccato sulla sponda, con i saraceni dall’altra parte che si erano accampati e tiravano loro addosso ogni genere di arma da tiro: dalle frecce ai massi delle macchine d’assedio. Attraversare era impossibile. La riconquista sembrava finita prima ancora di cominciare. Finché un giorno, un beduino si propose di indicare ai crociati un buon guado a poca distanza da lì, dietro pagamento.

“Il conestabile messer Umberto di Beaujeu disse al re, che un Beduino era venuto, e gli aveva detto che gli insegnerebbe un buon guado, ma gli dessero cinquecento bisanti. Il re accettò di pagarglieli purché colui mantenesse quanto prometteva. Il conestabile ne parlò al Beduino, il quale disse che non parlerebbe se non gli si versassero prima i denari. Si dispose che gli si versassero, e fu fatto. Il re stabili che il duca di Borgogna e i signori d’oltremare che erano
nell’esercito, sorvegliassero il campo acciocché non fosse danneggiato; e che il re e i suoi tre fratelli andrebbero là dove il Beduino doveva indicare il guado. La cosa fu ordinata per il giorno di martedì grasso2, il qual giorno noi venimmo al guado del Beduino. Come l’alba appariva, ci apparecchiammo di tutto punto, e ci dirigemmo al fiume, e ci gettammo coi cavalli a nuoto3. Giunti a metà del fiume, toccammo terra, dove i nostri cavalli presero piede; e sulla riva del fiume trovammo ben trecento Saraceni a cavallo. Allora dissi ai miei uomini: «Signori, tenete sempre a sinistra, poiché la corrente vi trascina; le rive son ripide, e i cavalli vi cadono, e affogano.» Ed era ben vero che molti annegavano, e tra gli altri messer Giovanni d’Orléans, che portava il vessillo con la biscia. Noi convenimmo di andar contro il corso del fiume, e trovammo il letto asciutto, e passammo così, la Dio mercé.”

A febbraio, nel giorno di martedì grasso, il re santo mosse una parte dell’esercito in direzione del guado indicatogli dal beduino. Si gettarono con i cavalli nell’acqua e dopo un breve tratto a nuoto arrivarono nel mezzo del fiume dove l’acqua era bassa e si toccava terra. Il beduino diceva il giusto, finalmente sembrava che le cose cominciassero a volgere a favore dei cristiani nonostante i vari episodi d’insubordinazione. Non restava altro da fare che proseguire con l’attraversamento del fiume. Ma ancora una volta i saraceni giunsero sulla riva per impedir loro di passare: 300 mamelucchi a cavallo, fra i migliori dell’esercito nemico.

S’era disposto che i Templari stessero all’avanguardia, e il conte d’Artois in seconda fila dietro i Templari. Or avvenne che come il conte d’Artois ebbe passato il fiume, lui e tutta la sua gente si diedero a inseguire i Turchi fuggenti. I Templari gli mandarono a dire che faceva grave offesa, poiché doveva stare indietro, e andava avanti; e lo pregavano che lasciasse precedere loro, come era stato ordinato dal re. Or avvenne che il conte d’Artois non osò rispondere, per via di messer Foucaud du Merle, che lo teneva per il morso del cavallo; e questo Foucaud du Merle, che assai buon cavaliere era, non udiva cosa che i Templari dicessero al conte, poiché era sordo, e gridava: «Addosso, addosso!»

L’insubordinazione questa volta avvenne da parte del conte d’Artois, gran signore francese nonché fratello del re santo. Egli avrebbe dovuto tenere la seconda fila, dietro i templari, e guadare il fiume in maniera ordinata. Tuttavia il conte, appena toccato terra, superò i templari e si lanciò in prima linea a ingaggiare i cavalieri saraceni. Questo per i cavalieri del Tempio era un motivo di grande offesa. Non tanto per l’insubordinazione in sé, ma proprio per il fatto d’esser stati superati.

Può sembrar strano, ma l’ordine di marcia e di attacco era un qualcosa per cui i cavalieri dell’epoca tenevano molto in considerazione. Sono numerosi gli episodi in cui i templari, ma anche i cavalieri degli altri ordini come ad esempio gli ospitalieri, s’infuriano per non esser stati mandati per primi alla carica in quella o quell’altra battaglia. E qui avviene la stessa cosa.

I templari mandarono un messaggero al conte, dicendogli di tornare in seconda fila. Ma a quanto pare un cavaliere di nome du Merle continuò a gridare sopra alle parole del messaggero: “Addosso, addosso!”. I templari, ascoltando le grida di du Merle, credettero si trattasse della risposta del conte stesso, chiaro segno d’insubordinazione. E quindi diedero sfogo alla loro rabbia.

Quando ciò videro i Templari, pensarono che sarebbero disonorati se si lasciassero precedere dal conte d’Artois; perciò diedero di sprone a gara, e cacciarono i Turchi, che fuggirono dinanzi a loro attraverso la città di Mansurah fino ai campi verso Babilonia. Quando pensarono a tornare indietro, i Turchi gli scagliarono addosso travi e legna per le vie, che erano strette. Là fu ucciso il conte d’Artois, il sire di Coucy, che si chiamava Raoul, e tanti altri cavalieri, fino a trecento. Il Tempio, secondoché il maestro mi disse in seguito, vi perdette duecento ottanta armati, e tutti a cavallo.

I cavalieri del Tempio si lanciarono all’inseguimento dei saraceni assieme al fratello del re e tutte le loro schiere. Si spinsero entro le mura della città di Mansura (lasciate aperte appositamente dal nemico) e fra le strette vie, completamente accerchiati, vennero massacrati. Il fratello del re santo morì, e come lui tanti altri gran signori e cavalieri franchi. Il Tempio da solo perdette 280 cavalieri. Un’insubordinazione che portò alla sconfitta della battaglia e dell’intera guerra.

Nelle terre di Malarocca, l’ambientazione del mio prossimo romanzo, scorrono molti fiumi; non così ampi e profondi come quelli alla foce del Nilo, ma pur sempre difficoltosi da attraversare. E quando le armate si trovano sulle sponde, vulnerabili agli attacchi nemici, basta che un solo cavaliere dia di matto per mandare a monte l’intera cavalcata. Mettici pure la vicinanza con una palude al cui interno si dice che abitino streghe e malefici, e la posta in gioco si fa ancora più pesante.

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  1. il 6 dicembre 1249
  2. 8 febbraio 1250
  3. Di cavalieri che si gettano a nuoto per guadare fiumi in sella al proprio destriero ne parla anche Tacito, nei riguardi dei Batavi, cavalieri ausiliari che accompagnarono Roma nella sua spedizione punitiva contro i druidi (La magia dei druidi nella società celtica)
Lorenzo Manara
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