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18 Gennaio 2022

L’ultima difesa dei cavalieri del santo

cavalieri del santo di al mansura

Il massacro dei cavalieri del santo (re Luigi IX di Francia) durante la battaglia di al Mansura: l’estrema difesa di un pugno di crociati

La settima crociata è una fra le più affascinanti campagne militari del Duecento per via di numerosi elementi dal sapore fortemente drammaturgico, a cominciare dall’aura gloriosa che circondava il leader d’armata: re Luigi IX di Francia1. Egli era riconosciuto da tutti come un santo (in seguito perfino canonizzato dalla Chiesa) e si comportava come tale nei limiti del paradigma mentale dell’epoca. Già, perché per quanto possa sembrar strano ai nostri occhi, era perfettamente normale che un uomo investito dalla grazia divina impugnasse la spada contro gli infedeli. Esattamente come i suoi sanguinari vestiti di ferro, ovvero i cavalieri del santo: uniti da virtù marziali e da una fede incrollabile.

Perfino io, nel mio romanzo di prossima uscita, ho narrato di un guerriero sacro. Egli si fa strada nelle terre paludose di un’Italia oscura e misteriosa, schiacciate dalla miseria e dalla guerra. E lo fa con la sua spada, ovviamente, senza dubitare per un solo istante che si tratti della via sbagliata (quella del ferro).

Perché la religione è un forte motore sociale, lo sappiamo benissimo, e fu la vera motivazione alla base delle campagne militari di Terra Santa. Qualcuno potrebbe pensare che fosse il denaro a muovere gli eserciti e in parte è vero. Tonnellate d’oro erano necessarie per arruolare milizie, armare navi, erigere castelli, accampamenti, fortificazioni a leghe di distanza dalla Madrepatria: spese esorbitanti che il più delle volte lasciavano a secco interi regni, indebitati fino all’ultimo fiorino, e che non garantivano alcun ritorno economico. Molti infatti si rifiutavano di rispondere alle sacre chiamate, come nel caso emblematico di Federico II, che si ritrovò pure scomunicato.

C’era ovviamente una minoranza che riusciva a trarre vantaggio dalla situazione, come in ogni storia del mondo, ma la moltitudine di schiere che partivano con le proprie armi (e a volte nemmeno quelle) lo facevano perché ci credevano. Così come i cavalieri del santo credevano nella propria missione di salvatori del mondo cristiano. E finirono quasi tutti massacrati.

L’esercito crociato nell’anno 1250 si trovava sulle coste egiziane, appena approdato in una nuova campagna di conquista. Destinazione: Gerusalemme. Avevano scelto come punto di inizio l’antica terra dei faraoni perché era lì che si trovava la più grande minaccia musulmana, l’inarrestabile forza che di lì a poche decine di anni avrebbe posto fine alle guerre sante medievali (dell’ultima battaglia crociata ne parlo nell’articolo “Così muore il maestro dei templari“): l’armata dei mamelucchi.

I mamelucchi erano guerrieri scelti fra gli schiavi (da mamlùk, posseduto), nati quindi al di fuori della sfera religiosa musulmana. Il motivo di una simile particolarità è da ricercare nel sistema di addestramento che portava a una forte coesione militare e un’infrangibile fedeltà.

“Ed è vero che il più della loro cavalleria era formata di gente di fuori, che mercanti traevano da terre straniere per vendere; ed essi li acquistavano volentieri, e a caro prezzo. E questi che menavano in Egitto, li prendevano in Oriente; poiché quando uno dei re d’Oriente aveva sconfitto l’altro, catturava la povera gente sconfitta, e la vendeva ai mercanti, e i mercanti tornavano a venderli in Egitto.”

Vita si San Luigi, LVI

I mamelucchi, istruiti all’arte della guerra fin dall’infanzia, potevano riscattare la propria libertà in battaglia, arrivando a guadagnarsi posizioni di prestigio e ottenere perfino incarichi politici: una scalata gerarchica che rendeva possibile la formazione di corpi d’armata professionisti, motivati e difficilmente corruttibili.

“Era disposto in modo che l fanciulli fino alla pubertà, li allevava il sultano nella sua casa; e si fabbricavano archi proporzionati alla loro statura; e tosto che rafforzavano, tiravano d’arco nell’artiglieria del sultano, e il maestro degli artiglieri assegnava loro archi forti quanto valevano a tenderli. Le armi del sultano erano d’oro; e tali quali il sultano, portavano questi ragazzi; ed erano chiamati baharisti2. Appena incominciavano a mettere barba, il sultano li faceva cavalieri. E portavano le armi del sultano, e c’erano distintivi, cioè insegne vermiglie o rosa, o bende vermiglie, od uccelli, o altre insegne che applicavano alle armi d’oro, come loro piaceva. E costoro che vi ho detto si chiamavano quelli della Halca3, ché i baharisti abitavano nella tenda del sultano. Quando il sultano era nel campo, quei della Halca stavano intorno agli alberghi del sultano per far la guardia alla sua persona. Alla porta della dimora del sultano erano alloggiati in una piccola tenda i portieri del sultano e i suoi menestrelli, che avevano corni saraceni e tamburi e timballi. (…) accadendo così, che quando il sultano voleva attaccare, mandava a chiamare il maestro della Halca, e dava gli ordini; e allora il maestro faceva sonare gli strumenti del sultano, e l’esercito tutto veniva ad ascoltare l’ordine del sultano. Il maestro della Halca lo comunicava, e tutti l’eseguivano.
Nelle battaglie, quando i cavalieri della Halca si battevano bene, il sultano li faceva emiri, e affidava loro una compagnia di duecento o trecento cavalieri; e quanto meglio facevano, tanto più concedeva il sultano. Il premio che vige nella loro cavalleria è questo: quando sono prodi e ricchi oltremodo, e il sultano teme lo uccidano e lo spodestino, li fa arrestare e morire in prigione, e alle donne toglie tutti gli averi.”

Ma nonostante gli accorgimenti del sultano, i mamelucchi accrebbero il loro potere fino ad arrivare ai vertici delle autorità islamiche, soppiantando la dinastia degli Ayyubidi fondata un secolo prima da Saladino e diventando i padroni di un sultanato (quello del Cairo).

I cavalieri del santo di Francia si trovarono dunque ad affrontare il meglio del meglio del Vicino Oriente, lontani mesi di viaggio da casa e, come se non bastasse, afflitti da un sintomatico spezzettamento della linea di comando. Perché nonostante il condottiero cristiano fosse investito dalla grazia del Signore Iddio, vi erano una moltitudine di signorotti, cavalieri e potenti ordini monastico-cavallereschi che occupavano una rilevanza fondamentale nell’esercito crociato, e che portarono a una serie d’insubordinazioni fatali per l’intera guerra.

La peggiore di queste fu messa in atto dallo stesso fratello del re santo, il conte d’Artois, grande signore francese che si ritrovò al comando di metà dell’esercito crociato durante l’avanzata verso l’entroterra egiziano. La ragnatela di corsi d’acqua che si dipanano a partire dal Nilo nei pressi della foce (il cosiddetto delta del Nilo), si dimostrò un vero problema strategico e costrinse i franchi a dividersi in due. La prima metà dell’armata guidata dal re santo tentò l’attraversamento di un affluente nei pressi di una diga, mentre l’altra metà si portò più avanti, dove prendeva forma un guado. Il conte d’Artois si spinse oltre il corso d’acqua e si lanciò in un’epica carica al galoppo, facendo a gara con i cavalieri templari per chi di loro arrivasse per primo alle porte di al Mansura. Ma una volta raggiunta al città, vennero trucidati dai difensori nelle strette strade, sotto una pioggia di dardi e pietre. Morirono centinaia di uomini, e il solo Tempio ne perdette 2804. Potete scoprire la loro storia nell’articolo dedicato alle insubordinazioni medievali.

Nel frattempo, mentre il fratello del re con i templari morivano nella città di Mansura (sulla battaglia di Mansura non perdere il video dedicato nel mio canale YouTube!), i cavalieri del santo attraversarono il fiume per cercare di ricongiungersi alla metà dell’esercito in difficoltà. Ed è in questo frangente che l’autore della cronaca scese in campo, in sella al destriero, per menare le mani.

I mamelucchi uscirono dalla città in massa, forti della vittoria appena ottenuta, e si disposero in schieramento per sbarrare la strada ai crociati, i quali avevano tutta l’intenzione di avanzare nella piana per guadagnare quanto più terreno possibile. E così la battaglia ebbe inizio.

Come ci videro, ci piombarono addosso, e uccisero messer Ugo di Trichàtel, signor di Conflans, che era alfiere con me. lo e i miei cavalieri demmo di sprone, e corremmo in soccorso di messer Raoul di Wanon, che era con me, ed essi avevano gettato a terra. Mentre tornavo, i Turchi mi colpirono di lancia, così che il mio cavallo cadde sui ginocchi, e io balzai avanti attraverso le orecchie del cavallo e mi raddrizzai più presto che potei, lo scudo al collo e la spada in mano”

XLVI

Il protagonista della cronaca si gettò nella mischia che presto divenne caotica e sanguinosa. I cavalieri del santo venivano sbalzati giù di sella a mangiare la polvere e perfino a lui toccò un destino simile: il nemico gli ammazzò il destriero con un colpo di lancia e lo sbalzò avanti, sopra “le orecchie del cavallo” per poi crollare a terra. Il cavaliere si raddrizzò più in fretta che poté, “con lo scudo al collo e la spada in mano”, ma era chiaro che le sue speranze di sopravvivenza si erano drasticamente ridotte. Difficile combinare qualcosa in una mischia di spada senza più un cavallo. Senza contare che la battaglia volgeva al peggio.

“Messer Erardo di Siverey (Dio l’assolva), che m’era vicino, venne a me, e ci disse che riparassimo accanto a una casa diroccata, e ivi attendessimo l’arrivo del re. E mentre noi andavamo, a piedi e a cavallo, c’imbattemmo in una schiera di Turchi, e mi gettarono a terra e mi camminarono sopra e mi fecero volar via lo scudo dal collo; e quando furono passati oltre, messer Erardo di Siverey ritornò a me, e mi condusse seco, e raggiungemmo le mura della casa rovinata;”

I cavalieri del santo ancora in vita decisero di ritirarsi, a piedi e a cavallo, per riparare fra le mura di una casa diroccata. Il re con il grosso dell’esercito si era già allontanato per radunarsi nei pressi del fiume e riorganizzarsi: presto avrebbe lanciato una nuova carica, c’era ancora speranza di vittoria!

Il protagonista nella sua fuga verso la casa in rovina venne travolto dai mamelucchi che l’inseguivano senza tregua. Cadde nuovamente a terra, finì calpestato dagli zoccoli e percosso dai colpi di spada. Gli si strappò perfino lo scudo dal collo e sarebbe di certo morto se non fosse per le protezioni di ferro della sua armatura e, soprattutto, per l’aiuto dei compagni, che lo condussero in salvo fra le mura di pietra diroccate.

Si riunirono a noi messer Ugo d’Ecot, messer Federico di Loupey, messer Rinaldo di Menoncourt. Ivi i Turchi ci assediarono d’ogni parte; alcuni entrarono nella casa, e ci colpirono con le lance dall’alto. Allora i miei cavalieri mi dissero che li tenessi per il morso, e così feci, acciocché i cavalli non fuggissero; e si difendevano dai Turchi con tanto vigore, che furono lodati da tutti i valentuomini dell’esercito, e da quelli che videro il fatto e da quelli che ne sentirono parlare. Là fu ferito messer Ugo d’Ecot da tre colpi di lancia al viso, e messer Raoul, e messer Federico di Loupey alle spalle; e fu tale la ferita, che il sangue ne sprizzava come tappo sbalzando da una botte. Messer Erardo di Siverey fu ferito da un fendente in mezzo al viso, si che il naso gli cadeva sulle labbra.

All’interno delle rovine, i cavalieri rimasti si arroccarono per imbastire un’estrema difesa contro il nemico mamelucco, ben più numeroso e pronto a prendere d’assedio la casa. Il cavaliere di Joinville, assieme a Ugo d’ecot, Federico di Loupey, Rinaldo di Menoncourt, Erardo di Siverey e Raoul di Wanon si difesero con tanto vigore “che furono lodati da tutti i valentuomini dell’esercito”.

Nella cronaca vengono menzionati dunque sei cavalieri, gli unici sopravvissuti fino a quel momento, tuttavia non sappiamo se con loro vi fossero eventuali scudieri, valletti d’armi e magari semplici pedoni. Il dettaglio che porterebbe a credere che si trattasse effettivamente di solo loro sei è il compito assegnato al sire di Joinville, ferito e stremato dalle varie cadute da cavallo, il quale si occupò di tenere i cavalli per non farli fuggire mentre gli altri si occupavano della difesa.

Ed è per via di questo incarico che il protagonista poté assistere ai fatti per poi descriverli con una precisione degna di un romanzo. Il nemico assaltò la casa da tutte le parti e alcuni mamelucchi s’arrampicarono sul tetto. Messer Ugo d’Ecot venne ferito da tre colpi di lancia al viso, Raoul e Federico invece alle spalle, quest’ultimo così gravemente che il sangue sprizzava dallo squarcio “come tappo sbalzando da una botte”. Pure Erardo di Siverey, il cavaliere che soccorse in primo luogo l’autore della cronaca dopo la caduta da cavallo, subì una brutta ferita: un fendente di spada in mezzo al viso “si che il naso gli cadeva sulle labbra”.

A questo punto, nella più completa disperazione, il nostro protagonista si affida a San Giacomo con un’accorata preghiera: “Bel sire San Giacomo, aiutatemi e soccorretemi in questa bisogna.” E San Giacomo, stando alla cronaca, si manifestò sotto forma del valente compagno, Messer Erardo, che ancora una volta era pronto a trarre d’impaccio i suoi amici.

Messer Erardo di Siverey mi disse: «Sire, se voi provvedete che né io né il mio erede abbiamo disonore, andrò a chiedervi soccorso al conte d’Angiò, che vedo là in mezzo ai campi.» E io gli dissi: «Messer Erardo, parmi che vi farete grande onore se andate a cercare aiuto per le nostre vite, essendo ben incerta la vostra». E dicevo vero, ché egli morì di quella ferita. Chiese consiglio a tutti i nostri cavalieri che stavano là, e tutti l’approvarono, d’accordo con me; ciò udito, mi pregò gli lasciassi andare il cavallo, che tenevo per il morso come gli altri, e casi feci.

Messer Erardo di Siverey, col naso spaccato che gli penzolava sul volto, chiese al sire de Joinville di allontanarsi dalla casa per chiedere soccorso “se voi provvedete che né io né il mio erede abbiamo disonore”. Si trattava di una richiesta che poteva esser presa per codardia, ma il protagonista della cronaca era sì un gran signore onorevole, ma anche un uomo molto pratico: se fossero rimasti lì sarebbero morti, tutti quanti.

Diede il permesso al valoroso Erardo di allontanarsi a chiedere aiuto e costui lo fece, in sella al cavallo, col naso tranciato in due. Riuscì a raggiungere i crociati e a mandare uno squadrone di cavalieri verso la casa in rovina e i mamelucchi vedendo arrivare i rinforzi si ritirarono. Erardo aveva salvato i cavalieri del santo, peccato che non visse a lungo per raccontarlo, poiché morì di quella ferita poco dopo.

Là dov’ero a piedi coi miei cavalieri, ferito come è di sopra detto, venne il re con la sua schiera, in gran clangore di trombe e timballi, e si fermò su un’altura; e giammai vidi un si bel guerriero, ché soprastava delle spalle tutti i suoi uomini, un elmo dorato in testa, una spada alemanna in pugno. Quando si fu fermato, i buoni cavalieri della sua schiera, che vi ho nominati, si lanciarono sui Turchi, e molti altri valenti cavalieri. E vi dico che fu un gran bel fatto d’armi…”

Il re santo giunse finalmente sul campo con i suoi uomini, per dare man forte a coloro che si erano battuti per lui e per tutta la cristianità. Un sì bel guerriero, “elmo dorato in testa e spada alemanna in pugno”. Con squillo di trombe i crociati si lanciarono in un’ultima carica, quella decisiva, che li avrebbe dovuti condurre alla vittoria.

Cosa che, per amore della drammaturgia, non avvenne…

Il racconto della vicenda prosegue con il prossimo articolo “L’ultima carica del re santo“.

  1. Di cui sappiamo molto anche grazie alla biografia redatta dal cavaliere Jean de Joinville in “Vita di San Luigi”, fonte bibiliografica per la stesura di questo articolo
  2. Cioè marittimi, da bahr, mare o fiume. Occupavano una caserma sulle rive del Nilo, nell’isola di Randa
  3. Cioè cerchio e, per estensione, guardia
  4. Vita di San Luigi IX, Jean de Joinville, XLV
Lorenzo Manara
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