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5 Luglio 2022

La battaglia di Tagliacozzo: tra schiaffi e ferro affilato

la battaglia di tagliacozzo

Uno scontro medievale denso di cariche di cavalleria, tattiche ingegnose e risse a mani nude: la spettacolare battaglia di Tagliacozzo

Il 23 agosto del 1268, in una vasta pianura della Marsica settentrionale abruzzese, si disputò una battaglia campale fra due agguerriti eserciti: i ghibellini di Corradino di Svevia e i guelfi di Carlo I d’Angiò. Fu uno scontro spettacolare, colmo di tattiche ingegnose, colpi di scena e gesta eroiche: un mix avventuroso che non ho potuto ignorare nella fase di documentazione del mio ultimo romanzo “La Stirpe delle Ossa”, dove il ferro affilato e le manate in faccia la fanno da padrone. Perciò, mettetevi comodi, perché sto per raccontarvi dell’affascinante battaglia di Tagliacozzo.

Corradino di Svevia era il nipote di Federico II, nonché ultimo degli Hohenstaufen regnanti. Un lignaggio importante quanto gravoso, soprattutto al livello politico, poiché il mantenimento del potere richiedeva azioni di forza contro valenti nemici, nel caso di questo episodio storico, ben rappresentati dai guelfi di Carlo I d’Angiò. La ragione che fece scontrare queste due casate reali riguardava la città di Lucera, allora chiamata anche Luceria Saracenorum,  località pugliese in cui dimorava una vera e propria colonia saracena.

I saraceni pugliesi furono una trovata del grande Federico II, che dalla Sicilia araba deportò i musulmani per organizzare un insediamento tutto per loro, lontano dai cristiani e dagli scontri religiosi, garantendo libertà sociali, culturali e, soprattutto, spirituali. Si dice che a Lucerna vi fossero pure animali esotici, fra cui i rapaci tanto cari allo Stupor Mundi, appassionatissimo falconiere (per approfondire, “La caccia nel Medioevo”). Tutto questo, però, al papa non piaceva affatto. Per questo comandò una crociata che lo stesso Carlo I d’Angiò si propose di guidare.

Ed ecco che arriviamo all’agosto dell’anno 1268 quando Corradino, erede di Federico II, organizzò un esercito per marciare verso la Puglia e fermare i crociati angioini che ponevano sotto assedio la perla saracena di Lucera.

“XXV, Come Curradino entrò in Roma, e poi con sua oste passò nel regno di Puglia. 
Soggiornato Curradino alquanto in Siena, sì n’andò a Roma, e da’ Romani e da don Arrigo senatore fu ricevuto a grande onore a guisa d’imperadore, e in Roma fece sua raunata di gente e di moneta, e spogliò il tesoro di San Piero e d’altre chiese di Roma per fare danari, e trovossi in Roma con più di Vm cavalieri tra Tedeschi e Italiani con quegli di don Arrigo senatore, fratello del re di Spagna, ch’avea seco bene VIIIc buoni cavalieri spagnuoli. E sentendo Curradino che ’l re Carlo era a oste in Puglia alla città di Nocera, e molte delle terre e baroni del Regno erano rubellati, e dell’altre in sospetto, sì gli parve tempo accettevole d’entrare nel Regno, e partissi da Roma a dì X d’agosto, gli anni di Cristo MCCLXVIII, col detto don Arrigo e con sua compagnia e baronia, e con molti Romani; e non fece la via di Campagna, però che seppe che ’l passo da Cepperano era guernito e guardato: sì non si volle mettere alla contesa, ma fece la via delle montagne tra l’Abruzzi e Campagna per Valle di Celle, ove non avea guardie né guernigione, e sanza niuno contasto passò e arrivò nel piano di San Valentino nella contrada detta Tagliacozzo.”

Corradino radunò un esercito mettendo su 5.000 cavalieri fra tedeschi e italiani, coadiuvati dagli 800 cavalieri di Enrico di Castiglia, celebre condottiero che portava con sé i corazzatissimi spagnoli, di cui ammireremo le gesta fra poco.

Giovanni Villani, nella sua Cronaca, rimarca il fatto che l’erede di Federico II spogliò Roma per finanziare l’esercito, nonostante gli stessi romani accolsero con grande felicità l’arrivo dello svevo ghibellino. Può sembrar strano, ma in quel frangente il papa dovette andar via da Roma per rifugiarsi a Viterbo, mentre il suo nemico veniva acclamato dai cittadini della Città Eterna.

L’esercito ghibellino si mise in marcia seguendo la via delle montagne “tra l’Abruzzi”, in direzione di Lucera. Ma il nemico guelfo non aveva intenzione di attenderlo in Puglia: levò l’assedio dalla città saracena e si diresse a nord, per intercettarlo tra le pianure marsicane e dare il via alla vera e propria battaglia di Tagliacozzo, nei pressi della località omonima.

“XXVI Come l’oste di Curradino e quella del re Carlo s’affrontarono per combattere a Tagliacozzo.
Lo re Carlo sentendo come Curradino era partito di Roma con sua gente per entrare nel Regno, si levò da oste da Nocera, e con tutta sua gente a grandi giornate venne incontro a Curradino, e alla città dell’Aquila in Abruzzi attese sua gente. E stando lui nell’Aquila, e tenendo consiglio cogli uomini della terra, amonendogli fossono fedeli e leali, e fornissono l’oste, uno savio villano e antico si levò, e disse: «Re Carlo, non tenere più consigli, e non schifare uno poco di fatica, acciò che tu ti possi riposare sempre; togli ogni dimoranza, e va’ contra il nimico, e nol lasciare prendere più campo, e noi ti saremo leali e fedeli». Lo re udendosi sì saviamente consigliare, sanza nullo indugio o più parole di là si partìo per la via traversa delle montagne, e acozzossi assai di presso all’oste di Curradino nel luogo e piano di San Valentino, e nonn-avea in mezzo se non il fiume del… Lo re Carlo avea di sua gente, tra Franceschi e Provenzali e Italiani, meno di IIIm cavalieri, e veggendo che Curradino avea troppa più gente di lui, per lo consiglio del buon messere Alardo di Valleri, cavaliere francesco di grande senno e prodezza, il quale di quegli tempi era arrivato in Puglia tornando d’oltremare dalla Terrasanta, sì disse al re Carlo se volesse essere vincitore gli convenia usare maestria di guerra più che forza.”

Carlo I d’Angiò, consigliato dai suoi fedelissimi, attraversò le montagne e cercò lo scontro campale col nemico ghibellino, nonostante fosse in inferiorità numerica. Perché, stando al Villani, gli angioini potevano contare solo su 3000 cavalieri tra francesi e italiani, circa la metà di quelli raccolti da Corradino. Tuttavia, avevano dalla loro parte messer Alardo di Valery, eroico cavaliere crociato di notevole esperienza, che seppe consigliare un ingegnoso stratagemma ispirato alle tattiche saracene di Terra Santa: stratagemma che si dimostrò letale per i ghibellini di Corradino.

“Il re Carlo confidandosi molto nel senno del detto messer Alardo, al tutto gli commise il reggimento dell’oste e della battaglia; il quale ordinò della gente del re tre schiere, e dell’una fece capitano messer Arrigo di Cosance, grande di persona e buono cavaliere d’arme: questi fu armato colle sopransegne reali in luogo della persona del re, e guidava Provenzali, e Toscani, e Lombardi, e Campagnini. L’altra schiera furono de’ Franceschi, onde furono capitani messer Gianni di Crarì e messer Guiglielmo lo Stendardo. E mise i Provenzali a la guardia del ponte del detto fiume, acciò che l’oste di Curradino non potesse passare sanza disavantaggio della battaglia. Il re Carlo col fiore della sua baronia, di quantità di VIIIc cavalieri, fece riporre in aguato dopo uno colletto in una vallea, e col re Carlo rimase il detto messer Alardo di Valleti con messer Guiglielmo di Villa, e Arduino prenze della Morea, cavaliere di grande valore.”

La tattica ordita da messer Alardo di Valery prevedeva la suddivisione dell’esercito guelfo in tre schiere. La prima, comandata dallo stesso Carlo I, con l’aiuto di Alardo, era formata da 800 cavalieri disposti in un avvallamento del terreno, nascosti al nemico e pronti a intervenire a battaglia inoltrata, come riserve. La seconda schiera era guidata da Gianni di Crarì e Guglielmo Stendardo, composta rispettivamente da cavalieri francesi e italiani. La terza e ultima schiera, composta da cavalieri toscani, lombardi, laziali e francesi, invece, era guidata da Arrigo di Cosance (Henry de Cousances), armato per l’occasione con le insegne reali per assomigliare in tutto e per tutto al re e, come avrete già indovinato, fare da esca.

“Curradino dall’altra parte fece di sua gente tre schiere: l’una de’ Tedeschi, ond’egli era capitano col dogi d’Osteric, e con più conti e baroni; l’altra degl’Italiani, onde fece capitano il conte Calvagno con alquanti Tedeschi; l’altra fu di Spagnuoli, ond’era capitano don Arrigo di Spagna loro signore. 

Anche Corradino divise il suo esercito in tre schiere: la prima coi cavalieri tedeschi comandata da egli stesso, la seconda coi cavalieri italiani capitanati da Calvagno (Galvano Lancia) e l’ultima con i cavalieri spagnoli comandati da Enrico di Castiglia. E così divisi, diedero inizio alla battaglia di Tagliacozzo.

“XXVII Come Curradino e sua gente furono sconfitti dal re Carlo.
Curradino e sua oste avendo vana speranza che l’Aquila fosse ribellata al re Carlo, con grande vigore e grida, fatte le sue schiere, si strinse a valicare il passo del fiume per combattere col re Carlo. Lo re Carlo, con tutto si posasse, come detto avemo, sentendo il romore de’nimici, e com’erano innarme per venire a la battaglia, incontanente fece armare e schierare sua gente per l’ordine e modo che dinanzi facemmo menzione. E stando la schiera de’ Provenzali, la quale guidava messer Arrigo di Consancia, alla guardia del ponte, contastando a don Arrigo di Spagna e a sua gente il passo, gli Spagnuoli si misono a passare il guado della riviera ch’era assai piccolo, e incominciarono a inchiudere la schiera de’ Provenzali, che difendeano il ponte. Curradino e l’altra sua oste veggendo passati gli Spagnuoli, si mise a passare il fiume, e con grande furore assaliro la gente del re Carlo, e in poca d’ora ebbono barattati e sconfitti la schiera de’ Provenzali; e ’l detto messer Arrigo di Consancia colle ’nsegne del re Carlo abattute, e egli morto e tagliato; credendosi don Arrigo e’ Tedeschi avere la persona del re Carlo, perché vestiva le sopransegne reali, tutti gli s’agreggiarono adosso. E rotta la detta schiera de’ Provenzali, simile feciono di quella de’ Franceschi e degl’Italiani, la quale guidava messer Gianni di Crarì, e messer Guiglielmo lo Stendardo, però che·lla gente di Curradino erano per uno due che quegli del re Carlo, e fiera gente e aspra in battaglia: e veggendosi la gente del re Carlo così malmenare, si misono in fugga e abandonarono il campo.”

Carlo I, nascosto coi sui 800 cavalieri dietro un avvallamento, schierò messer Henry a guardia di un ponte, unico punto di accesso e, di conseguenza, luogo in cui si sarebbe combattuto il grosso della battaglia. Henry, vestito come il sovrano di parte guelfa, si trovò quindi in primissima linea a fronteggiare le tre schiere dei ghibellini di Corradino, le quali, scorgendo il falso sovrano a guardia del ponte, non si lasciarono sfuggire l’occasione.

Corradino, con i suoi cavalieri tedeschi, assieme a Galvano Lancia alla testa degli italiani, caricò frontalmente, verso il ponte, mentre gli spagnoli di Enrico di Castiglia guadarono il fiume poco lontano, per aggirare messer Henry vestito da sovrano e prenderlo alle spalle. La carica fu devastante e la superiorità numerica fece il resto: Henry e i suoi cavalieri a guardia del ponte, tra cui gli italiani, furono schiacciati in una morsa: lo stesso Henry “colle ’nsegne del re Carlo abattute, e egli morto e tagliato”.

La morte del finto Carlo I d’Angiò sembrava aver posto fine allo scontro. Il massacro nei pressi del ponte avvenuto nelle primissime fasi della battaglia di Tagliacozzo non lasciava spazio a interpretazioni: colui che vestiva le insegne reali era morto sul campo, e l’intero esercito ghibellino vi si era avventato contro. Una delle tre schiere dei guelfi era stata annientata, e la seconda, comandata da Gianni di Crarì e Guglielmo Stendardo, dopo aver assistito al massacro si diede alla fuga.

Restava solo Carlo I, quello vero, nascosto dietro un avvallamento con gli ultimi ottocento cavalieri che gli erano rimasti, come da consiglio di Alardo di Valery. Cosa mai avrebbero potuto fare 800 cavalieri contro i 5000 dei ghibellini che banchettavano sui resti di Henry de Cousances, armato con le insegne reali? Apparentemente niente, ma questa è la battaglia di Tagliacozzo e le sorprese non sono ancora finite.

“I Tedeschi si credettero avere vinto, che non sapeano dell’aguato del re Carlo, si cominciarono a spandere per lo campo, e intendere a la preda e alle spoglie. Lo re Carlo era in sul colletto di sopra alla valle, dov’era la sua schiera, con messer Alardo di Valleri e col conte Guido di Monforte per riguardare la battaglia, e veggendo la sua gente così barattare, prima l’una schiera e poi l’altra, e venire in fugga, moria a dolore, e volea pure fare muovere la sua schiera per andare a soccorrere i suoi. Messer Alardo, maestro dell’oste e savio di guerra, con grande temperanza e con savie parole ritenne assai lo re, dicendo che per Dio sì sofferisse alquanto, se volesse l’onore della vittoria, però che conoscea la covidigia de’ Tedeschi, come sono vaghi delle prede, per lasciargli più spartire dalle schiere, e quando gli vide bene sparpagliati, disse al re: «Fa’ muovere le bandiere, ch’ora è tempo»; e così fu fatto.”

I 5000 ghibellini dello svevo Corradino credevano d’aver vinto una grande battaglia e, dunque, come al termine di ogni grande battaglia, si sparsero sul campo in lungo e in largo per saccheggiare, depredare e far prigionieri. Carlo I, ancora nascosto, aveva visto ogni cosa. Aveva visto il massacro dei cavalieri Toscani, Lombardi e francesi guidati dal fedele Henry, sul ponte, e più volte si era detto di partire alla carica in loro soccorso. Ma Alardo di Valery, lo spietato tattico crociato, che aveva combattuto in Terra Santa e ne aveva viste di tutti i colori, aveva fatto desistere il sovrano. Poiché quelle perdite erano necessarie per mettere in atto il diabolico stratagemma, lo stesso che aveva visto fare ai saraceni e che avrebbe concesso loro la vittoria.

Non appena i ghibellini furono così dispersi sul campo, smontati e impegnati in ogni genere di saccheggio post-battaglia, Alardo di Valery disse al re: “Fa’ muovere le bandiere, ch’ora è tempo.”

“E uscendo la detta schiera della valle, Curradino né’ suoi non credeano che fossono nimici, ma che fossono di sua gente, e non se ne prendeano guardia. E vegnendo lo re con sua gente stretti e serrati, al diritto se ne vennero ov’era la schiera di Curradino co’ maggiori di suoi baroni, e quivi si cominciò la battaglia aspra e dura.”

Carlo I scese in campo con i suoi 800 cavalieri ben schierati, stretti e serrati, dritti contro la schiera di Corradino, per dare inizio al momento centrale della battaglia di Tagliacozzo, dove tutto si sarebbe deciso. Potrebbe sembrare una carica folle, quasi suicida, ma non fu affatto così. Perché le schiere di Corradino erano sparse per tutto il campo, colte alla sprovvista, stanche per aver combattuto al ponte. Mentre i cavalieri guelfi, per quanto pochi, erano freschi e veementi.

“Con tutto che poco durasse, però che lla gente di Curradino erano lassi e stanchi per lo combattere, e non erano tanti cavalieri schierati ad assai quanti quegli del re, e sanza ordine di battaglia, però che lla maggiore parte di sua gente, chi era cacciando i nemici, e chi ispartito per lo campo per guadagnare preda e pregioni, e la schiera di Curradino per lo improviso assalto de’ nimici tuttora scemava, e quella del re Carlo tuttora cresceva per gli primi di sua gente ch’erano fuggiti della prima sconfitta, conoscendo le ’nsegne del re si metteano in sua schiera, sicché in poca d’ora Curradino e sua gente furono sconfitti.”

La mischia fu aspra, ma breve. Carlo I si scontrò contro le schiere sparse e confuse dei ghibellini, azione che gli permise di riguadagnare il comando di quei cavalieri francesi che si erano allontanati dal campo dopo la batosta del ponte: la seconda schiera che non aveva mai combattuto, infatti, vedendo che il loro sovrano si era lanciato in battaglia ed era in procinto di vincere, cambiò direzione e si aggiunse alla carica. L’azione suggerita da Araldo di Valery, ripresa dai saraceni durante le crociate, si rivelò un successo: l’esito della battaglia di Tagliacozzo si ribaltò completamente.

“E quando Curradino s’avide che lla fortuna della battaglia gli era incontro, e per consiglio de’ suoi maggiori baroni, si mise alla fugga egli, e ’l dogi d’Osteric, e il conte Calvagno, e il conte Gualferano, e ’l conte Gherardo da Pisa, e più altri. Messere Alardo di Valleri veggendo fuggire i nimici, con grandi grida dice e pregava lo re e’ capitani della schiera non si partissono né seguissono caccia de nimici né altra preda, temendo che lla gente di Curradino non si ranodasse, o niuno aguato uscisse fuori, ma stessono fermi e schierati in sul campo; e così fu fatto.”

Corradino, dietro consiglio dei suoi fedelissimi, lasciò il campo, in fuga con i suoi baroni e i dogi e i conti. A questo punto della battaglia avrebbe potuto prendere forma la delicatissima fase dell’inseguimento, aspetto della tattica militare che poteva concedere immensi onori e ricompense, poiché è proprio durante l’inseguimento che si ottengono i benefici più grandi (e gli stermini più ingenti). Lo abbiamo già visto per quanto riguarda la battaglia di Cascina del 1364, in cui i condottieri furono bene attenti a scegliere il momento migliore per lanciarsi nel grande inseguimento finale (per approfondire leggi l’articolo dedicato: la battaglia di Cascina).

In questo caso, Carlo I si sarebbe lanciato volentieri all’inseguimento di Corradino per farla finita una volta per tutte, ma ancora una volta l’esperienza di Araldo di Valery, lo spietato crociato di Terra Santa, si rivelò vincente. Egli, contro ogni aspettativa, pregò il re di restare fermo e di chiamare a raccolta le sue schiere: invece di lanciarsi all’inseguimento di Corradino e dei suoi cavalieri, ormai vinti, era necessario riorganizzarsi. Scelta più che mai azzeccata, poiché non tutti i nemici erano sconfitti.

“E venne bene a bisogno, che don Arrigo co’ suoi Spagnoli e altri Tedeschi i quali aveano seguita la caccia de’ Provenzali e Italiani, i quali aveano prima sconfitti per una valle, e non aveano veduta la battaglia del re Carlo e la sconfitta di Curradino, alla ricolta che fece di sua gente, e ritornando al campo, veggendo la schiera del re Carlo, credette che fosse Curradino e sua gente; sì scese il colle dov’era ricolto per venire a’ suoi, e quando si venne appressando conobbe le ’nsegne de’ nimici, e come ingannato si tenne confuso; ma com’era valente signore, si strinse a schiera, e serrò colla sua gente per tale modo che ’l re Carlo e’ suoi, i quali per l’afanno della battaglia erano travagliati, non s’ardirono di fedire alla schiera di don Arrigo, e per non recare in giuoco vinto a partito stavano aringati l’una schiera appetto a l’altra buona pezza.”

Enrico di Castiglia, il condottiero al comando degli 800 spagnoli bene armati e corazzati, tornò sul campo dopo aver dato la caccia ad alcuni francesi e italiani per le vallate marsicane. Trovando i cavalieri di Carlo I riorganizzati nei pressi del ponte, a prima vista, credette fossero le armate ghibelline di Corradino. Ma non appena si fece più vicino identificò le insegne reali degli angioini, quelle vere, e subito si schierò in formazione serrata, da battaglia, poiché, ci fa sapere il Villani, era un bravo condottiero e “valente signore”.

Carlo I e i suoi cavalieri, appena riorganizzati dopo la mischia sanguinosa, videro la nuova minaccia farsi largo fra i colli. Enrico di Castiglia, nonostante Corradino fosse fuggito, non aveva alcuna intenzione di mollare. Perciò Carlo I, per fronteggiarlo, schierò i suoi in formazione serrata, rivolta agli spagnoli, e si mise in attesa, senza lanciare una nuova carica. Rimasero così, uno davanti all’altro. Entrambe le formazioni, infatti, erano stanche e provate dalla lunga battaglia di Tagliacozzo, spettacolare scontro che, nonostante tutto, doveva regalare ancora delle sorprese. Perché il buon Alardo di Valery, ormai analogo all’Ulisse acheo in quanto astuzia, ne sapeva una più del diavolo.

“Il buono messer Alardo veggendo ciò, disse al re che bisognava di fargli dipartire da schiera per rompergli: lo re gli commise facesse a suo senno. Allora prese de’ migliori baroni della schiera del re da XXX in XL, e uscirono della schiera faccendo sembianti che per paura si fuggissono, siccome gli avea amaestrati. Gli Spagnuoli veggendogli con più delle bandiere di quegli signori si metteano in volta e in vista di fuggire, con vana speranza cominciarono a gridare: «E’ sono in fugga!», e cominciarono a dipartirsi da schiera e volergli seguire. Lo re Carlo veggendo schiarire e aprire la schiera degli Spagnuoli e altri Tedeschi, francamente si misono a fedire tralloro; e messer Alardo co’ suoi saviamente si raccolsono e tornarono alla schiera. Allora fu la battaglia aspra e dura.”

Alardo di Alery suggerì a Carlo I di scegliere 30-40 fra i suoi migliori cavalieri e farli uscire dalla schiera, al galoppo con le loro insegne, per far credere al nemico che stessero lasciando il campo. E così fu fatto. Gli spagnoli videro che molte insegne lasciavano le schiere di Carlo I e abboccarono all’amo: cominciarono una carica rompendo le linee, che in principio erano state ben serrate dal valente Enrico di Castiglia. Ed è probabile che molti di questi spagnoli si lanciarono di propria spontanea volontà, come accadeva spesso in guerra, senza attendere degli ordini precisi (vedi l’articolo: l’insubordinazione nella guerra medievale).

Una volta che le schiere spagnole si aprirono in una carica al galoppo, Carlo I lanciò il contrattacco richiamando anche quei 30-40 cavalieri che avevano fatto finta di andarsene, dando inizio a una manovra a tenaglia. Le due formazioni di cavalieri si scontrarono così nel grandioso atto finale della battaglia di Tagliacozzo, per decidere le sorti dell’epico scontro.

“Ma gli Spagnuoli erano bene armati, per colpi di spade non gli poteano aterrare, e spesso al loro modo si rannodavano insieme. Allora i Franceschi cominciarono con gridare ad ire, e a prendelli a braccia, e abattergli de’ cavagli a modo de’ torniamenti; e così fu fatto, per modo che in poca d’ora gli ebbono rotti, e sconfitti, e messi in fugga, e molti ve ne rimasono morti.”

I cavalieri spagnoli di Enrico di Castiglia, sebbene fossero pochi e circondati, erano forti e “bene armati”. Infatti, probabilmente per via di armature a piastre di ferro migliori di quelle di francesi e italiani, il cronista racconta che non potevano essere atterrati a colpi di spada. Fu a quel punto che tra i cavalieri di Carlo I, che non riuscivano ad avere la meglio sul nemico circondato, si levò un grido per “prendelli a braccia, e abattergli de’ cavagli a modo de’ torniamenti.”

Esattamente come accadeva nei grandi tornei, di cui abbiamo affascinanti resoconti grazie ai campioni come Guglielmo il Maresciallo, i francesi si trovarono a utilizzare le tecniche “sportive” di lotta e di presa: le stesse che servivano per abbattere i corazzatissimi avversari che partecipavano alla giostra e al duello cavalleresco.

Una mossa, questa, che suona ancora più spettacolare in un contesto di guerra, poiché la battuta attribuita ai cavalieri francesi fa riferimento al mondo torneistico, per rimarcare il fatto che si trattava di una specialità da festa d’armi, dei quali ognuno di loro era probabilmente un grande esperto.

“L’inattesa mossa si rivelò risolutiva e consentì loro di raggiungere infine la difficile vittoria. L’originalità dell’episodio consiste nel fatto che qui la lotta a braccia a cavallo viene praticata con successo non da un combattente isolato(…), ma da un intero gruppo di cavalieri fra loro in stretto coordinamento.”

Antologia militare, Fascicolo 2 / N.5 (2021), A. A. Settia, “Prendelli a braccia e abattergli de’ cavagli”

L’esperienza di Araldo di Valery, il valore dei cavalieri francesi di Carlo I d’Angiò e il sacrificio di Henry di Cousances con i suoi provenzali, Toscani e Lombardi, permise ai guelfi di guadagnare il campo, quel giorno, nella battaglia di Tagliacozzo del 23 agosto 1268, nonostante l’inferiorità numerica. Poiché, una volta abbandonate le spade per agguantare i nemici spagnoli a forza di braccia, i cavalieri angioini riuscirono a buttarli giù di sella e vincere lo scontro: “in poca d’ora gli ebbono rotti, e sconfitti, e messi in fugga, e molti ve ne rimasono morti.”

“Don Arrigo con assai de’ suoi si fuggì in Montecascino, e diceano che ’l re Carlo era sconfitto. L’abate ch’era signore di quella terra conobbe don Arrigo, e a’ segnali di loro com’erano fuggiti, sì fece prendere lui e gran parte di sua gente. Lo re Carlo con tutta sua gente rimasono in sul campo armati e a cavallo infino alla notte per ricogliere i suoi e per avere de’ nemici piena e sicura vittoria. E questa sconfitta fu la vilia di santo Bartolomeo a dì XXIII d’agosto, gli anni di Cristo MCCLXVIII. E in quello luogo fece poi fare lo re Carlo una ricca badia per l’anime della sua gente morta, che si chiama Santa Maria della Vittoria, nel piano di Tagliacozzo.

Corradino aveva già lasciato la battaglia e il suo coraggioso alleato, Enrico di Castiglia, fu preso prigioniero. Carlo I rimase sul campo, armato e a cavallo, fino al calar della sera, per radunare i suoi e assicurarsi la piena vittoria (saccheggiando e facendo prigionieri). Per celebrare la vittoria e i caduti della battaglia di Tagliacozzo, lo stesso Carlo I d’Angiò fece erigere una “ricca badia per l’anime della sua gente morta”. E così avvenne, il 23 d’agosto del 1268.

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Lorenzo Manara
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