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6 Maggio 2023

La magia di Camelot

la magia di camelot

Articolo del podcast Storia della Magia, episodio 12: La magia di Camelot nel ciclo di re Artù.

Se volessimo scoprire le origini della concezione magica moderna, e di tutte le storie che conosciamo ormai fin troppo bene che trattano di draghi, anelli del potere, palle di fuoco, maghi, streghe e spade magiche sicuramente finiremmo per inciampare negli antichi miti europei, che fra mitologia greco-romana e tradizioni germaniche-norrene hanno fondato le basi del minestrone fantasy contemporaneo: primo fra tutti il leggendario mito di re Artù.

La saga di Artù è un vastissimo insieme di opere letterarie dalla forte componente magica, più volte rimaneggiate e modificate nel tempo. Storie che spopolavano nelle isole britanniche, in Francia, ma anche nella penisola iberica, in Italia e un po’ dappertutto. L’ambientazione è quella della Britannia del IV e V secolo, in un’epoca di grandi migrazioni dopo l’abbandono di quei territori da parte dell’Impero romano. Perché l’Impero romano si era spinto fino in Britannia con le sue conquiste, rimanendovi per circa quattro secoli, e un minimo di impronta culturale ce l’avranno pur lasciata, no? Infatti, una delle molte teorie che circolano sul conto di re Artù è proprio quella che lo vuole ispirato a una figura storica realmente esistita: un dux romano, l’ultimo eroe di Roma rimasto in Britannia, l’ultimo oppositore delle temibili invasioni dei sassoni. 

Tra le lande verdeggianti di quelle piovose isole aveva avuto luogo uno scontro di culture, iniziato con l’arrivo dei Celti dall’Europa centrale, tra i primi abitanti a popolare l’Oltremanica già nell’Età del ferro, proseguito con i romani e poi con numerosi altri popoli come gli Angli, i Sassoni, gli Juti, i norreni (comunemente chiamati vichinghi) e infine i normanni (considerati pure loro di sangue norreno): tutti sanguinari che, spada alla mano, si fecero avanti per conquistare un pezzetto di Gran Bretagna ciascuno. Facendo sì che la cultura, e la letteratura, fossero influenzate da popoli differenti. Ed ecco perché il ciclo arturiano appartiene all’intero Occidente molto più di quanto si creda. 

Una fonte autorevole a riguardo è quella di J.R.R. Tolkien, autore della saga divenuta sinonimo della parola fantasy. L’idea alla base di Tolkien, infatti, lo stimolo che lo spinse alla creazione de “Il signore degli anelli”, era proprio quello di ricostruire la storia perduta della Britannia. Tolkien conosceva bene il crogiolo culturale della mitologia inglese, formatasi in seguito a invasioni e migrazioni di ogni tipo, e voleva creare qualcosa di originario dell’isola stessa, qualcosa che non provenisse dalla Scandinavia o dalla costa settentrionale francese (una pretesa su cui scherzò successivamente, in una sua lettera, definendola “follia giovanile”).

Ecco perché quella di re Artù è forse la storia più difficile da conoscere, e lo è per un motivo molto semplice: fa parte di un ciclo narrativo millenario, rimaneggiato infinite volte, e da molti ritenuto “ancora in corso”.

Gli autori che si sono cimentati nella loro personale interpretazione della Materia di Bretagna tra cavalieri, tavole rotonde, maghi, streghe, quest perigliose, giganti verdi e via discorrendo sono così tanti che non basterebbe un libro intero per parlarne. E non mi riferisco solo ai moderni remake da serie tv. Già nel Medioevo i rifacimenti del mito arturiano avevano raggiunto una diversità tale che le versioni non coincidevano più fra loro, a cominciare proprio dall’elemento magico principe di tutta la saga: Excalibur.

Excalibur, quella che tutti noi identifichiamo come la spada nella roccia, estratta da Artù per dimostrare d’esser degno del trono d’Inghilterra. Era così la storia, no? Be’, originariamente non proprio. Il primo a nominarla, seppur di sfuggita, è Goffredo di Monmouth agli inizi del XII secolo, nella Storia dei re Britanni.

“Poi, sguainata la spada di Caliburn, chiamò il nome di Santa Maria, e subito si gettò contro la folta schiera del nemico con un violento attacco. Chiunque toccò, invocando Dio, lo uccise con un solo colpo…”

Historia Regum Britanniae, Libro IX, capitolo IV

Questo racconto è ambientato nel V secolo, dopo l’abbandono della Britannia da parte dei romani. A difendere le coste erano rimasti i celti romanizzati, gli antichi abitanti autoctoni che dopo secoli di convivenza con l’Impero si erano trovati improvvisamente soli a fronteggiare una massiccia invasione da parte dei popoli germanici.

In questa cornice di guerre, scorrerie e grandi battaglie, si muoveva re Artù, che secondo l’autore della cronaca era figlio di Uther Pendragon, fratello di Aurelio Ambrosio nonché nipote di Costantino III l’Usurpatore. Artù quindi era discendente di imperatori romani, e uomo di fede cristiana.

Infatti, affidandosi alla Vergine Maria nel corso della battaglia di Monte Badon del 490, Artù sbaragliò gli invasori pagani, gli anglo-sassoni, arrivando a sterminarne da solo centinaia. Tali capacità straordinarie però non sono attribuibili alla spada, ma alla forza sovrumana del monarca, che ai primordi della sua leggenda non aveva bisogno di spade magiche per uccidere i pagani.

Alla sua prima apparizione, la spada Caliburn (latinizzata nel nome) ci viene descritta come “un’ottima spada, forgiata nell’isola di Avalon” e tanto basta. Dunque non possiamo definirla magica, anche perché non le viene attribuito alcun potere. E nemmeno stava conficcata in una roccia. Per trovare gli elementi della tradizione arturiana cui siamo abituati dobbiamo aspettare circa un secolo, nel “Merlino” scritto da Roberto di Boron, dove si racconta la celebre scena in cui Artù deve recuperare la spada del fratello, ma non la trova.

«Artù, arrivato a casa, non poté prenderla perché la stanza in cui essa si trovava era stata chiusa. Di ritorno, passò davanti alla chiesa e prese la spada che era conficcata nella roccia; la nascose sotto un lembo della veste e si ripresentò dal fratello, il quale gli chiese: «Dov’è la mia spada?».
«Non ho potuto prenderla e allora te ne porto un’altra» rispose Artù.
«E dove l’hai presa?».
«Dalla roccia che si trova davanti alla chiesa».

“Merlino” di Robert de Boron, inizi XIII sec.

E’ proprio qui che prende forma la versione che tutti conosciamo, con tanto di profezia di Merlino riguardo il futuro re d’Inghilterra e il battibecco con lo scettico fratello. Dunque possiamo ritenerci soddisfatti? Non tanto, considerato che alla spada, in questa versione, non fu dato neppure un nome.

Non sappiamo se quella di Boron fosse effettivamente Excalibur. Nei rimaneggiamenti successivi lo diventa, ma a complicare le cose interviene un personaggio che con un colpo di mano rimescola le carte in tavola: la dama del lago.

La dama compare in una tale quantità di scritti e assume così tante forme e significati (con vari nomi diversi, tra l’altro) che arrivati in fondo alla lettura non ci si capisce più niente. Basti sapere che la sua prima apparizione iconica, ovvero quella della mano che emerge dalla superficie del lago per impugnare Excalibur avviene nel XIII secolo in un frammento di ciclo bretone in francese antico, da cui Thomas Mallory ha preso spunto nel XV secolo dando origine alla versione più celebre della saga, quella che al suo interno racchiude molti di questi elementi incastrati assieme, in qualche modo.

Se riunissimo le varie opere scritte dai vari autori nel corso del medioevo, scopriremmo che re Artù possedeva tre diverse spade magiche: la Caliburn di origini celtico-romane, la spada nella roccia senza nome e la Excalibur della dama del lago. Un po’ troppe per un singolo personaggio…

Un altro elemento soprannaturale consacrato all’interno del ciclo arturiano è quello del santo Graal. Il Graal, la coppa da cui bevve Gesù Cristo nell’ultima cena. La reliquia più conosciuta del Cristianesimo, simbolo di potere e conoscenza, il cui possesso permetterebbe più di ogni altra cosa di avvicinarsi a Dio. 

Una leggenda ritenuta tale anche a livello teologico, diffusa proprio grazie alla letteratura arturiana, ovvero il Parsifal di Chrétien de Troyes dove, a dir la verità, il Graal non viene mai descritto come una coppa. E neppure nei vangeli si menziona un simile oggetto sacro. Si tratta, più che altro, di una trovata medievale, nata assieme agli altri grandi miti cristiani come la lancia di Longino; tutti miti giunti fino all’Età Moderna e divenuti parte del sapere esoterico, togliendosi di dosso l’aura religiosa per vestire quella magica.

Il Graal è sempre stato oggetto di assurde cacce, alcune delle quali relativamente recenti, come nell’ambito delle ricerche perseguite da una sottospecie di archeologo-avventuriero, tale Otto Rahn, membro delle SS Ahnenerbe del Terzo Reich, tanto ossessionato da lasciarci la pelle. Ma della sua storia, la vera storia che ha ispirato tra le altre persino Indiana Jones, ne parlo in un episodio di Leggende Affilate, il mio podcast settimanale disponibile su tutte le piattaforme di streaming.

Per quanto riguarda il ciclo di Artù, talvolta attorno al Graal aleggiava una maledizione, chiamata “la maledizione del seggio periglioso”, ovvero di quanto fosse pericoloso sedersi al tredicesimo posto della tavola rotonda. Secondo la profezia pronunciata da Merlino, soltanto il cavaliere che avrebbe ritrovato il Graal avrebbe potuto occupare l’ultimo posto lasciato vuoto alla destra del Re, in memoria di Cristo. Tutti gli altri sarebbero incappati in una tremenda maledizione, come finire inghiottiti in una voragine o morire all’istante. Con Merlino non c’era mica da scherzare.

I cavalieri, compreso Artù, erano dodici secondo la versione di Thomas Malory. Ma è un numero che cambia spesso. Talvolta i cavalieri arrivano anche a essere 150. E uno dopo l’altro furono costretti a partire alla ricerca del Santo Graal. Soltanto un cavaliere si dimostrò tanto valoroso da riuscire nell’impresa: Ser Galahad, o Parsifal, a seconda della versione. Una leggenda vecchia quasi mille anni che ha contribuito al mito moderno dello sfortunato tredicesimo posto a tavola. Non c’è pranzo di Natale o cena aziendale che tenga. La colpa parrebbe essere tutta di Merlino.

Un’altra celebre maledizione di natura magica presente nel ciclo di Artù è quella che riguarda un cavaliere di nome Gawain, o Galvano in italiano, talvolta identificato con quel san Galgano che nella Toscana medievale piantò una spada nella roccia con più forza di chiunque altro, visto che la spada sta ancora là, nell’eremo di Montesiepi, e non si muove di un millimetro.

Il Galvano di Camelot, protagonista di alcuni manoscritti trecenteschi, è il perfetto modello di cavaliere errante, partito per compiere una missione impossibile. Il suo scopo non era quello di vincere o sopravvivere, ma di attendere ai propri doveri morali e restare con la sopravveste pulita, senza macchia. Ed è proprio per questo che si lanciò in un’ultima missione, una “cerca” pericolosa, la più pericolosa fra tutte le “quest” mai intraprese dai cavalieri di re Artù. Ser Galvano compì un lungo viaggio per farsi uccidere. Perché aveva giurato di farlo, e la dignità vale più di ogni altra cosa, persino della vita.

Un anno prima si era presentato alla corte di re Artù un misterioso ed enorme cavaliere. Aveva la pelle verde e una grande ascia affilata in pugno. Tutti erano balzati in piedi per affrontarlo, ma lui non aveva intenzioni bellicose. Almeno non nel senso tradizionale del termine. Era giunto fino a Camelot per proporre una sfida a chiunque fosse stato così coraggioso da accettarla: voleva essere colpito con quella stessa ascia, il colpo più forte che fossero stati in grado di fendere, ma a una condizione: se fosse rimasto in vita, il cavaliere verde avrebbe restituito il colpo, esattamente un anno dopo.

A quel punto si fece silenzio a Camelot. Quell’energumeno era forse immune ai colpi d’ascia? Aveva imbastito tutto ciò per ottenere una facile vittoria? Domande inutili da porsi, perché coloro che occupavano la tavola rotonda non avevano certo paura di morire, e quindi la sfida venne accettata senza esitazione dal più importante di tutti: Artù in persona.

All’ultimo istante, però, si fece avanti Galvano, nipote del re. Non poteva permettere che il sovrano di Camelot rischiasse la vita per una faccenda così apparentemente stupida. L’avrebbe rischiata lui, che era più giovane e perfino più coraggioso. Impugnò l’ascia del cavaliere e menò un colpo formidabile: la testa si staccò dal collo, rotolò a terra, ma il cavaliere verde non morì. Anzi, senza fare una piega, si chinò per raccoglierla. E sollevandola in aria parlò con quella stessa testa mozzata alla corte di Camelot al completo (c’era pure Ginevra, alquanto turbata dalla scena), dicendo: “Ci vediamo fra un anno e un giorno, Ser Galvano”.

Ed è per questo che il nostro eroe dovette affrontare un lungo viaggio, esattamente un anno dopo aver “accettato” la sfida (letteralmente, a colpi d’accetta), per onorare il giuramento e vedersi restituire il fendente, dritto alla base del collo. Dopo aver affrontato varie peripezie si inginocchiò al cospetto del cavaliere verde e chiese di farla finita, alla svelta. Allora il cavaliere menò l’ascia due volte, senza mai colpire davvero. E la terza volta si limitò a sfiorarlo, provocandogli un taglietto sulla nuca.

Galvano ci rimase male: che significava tutto ciò? Il cavaliere spiegò che non intendeva ucciderlo, poiché il suo obiettivo era quello di mettere alla prova i cavalieri della tavola rotonda, e spaventare un po’ Ginevra. I manoscritti trecenteschi presentano versioni differenti di questa storia, ma la più celebre vuole che la causa di una quest così assurda fosse stata proprio lei: la tremenda Morgana.

Di fata Morgana e mago Merlino, però, ne parlerò nel prossimo episodio. Mi raccomando, seguimi se vuoi scoprire le vere origini della magia a partire dalle fonti storiche.

Lorenzo Manara
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