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21 Giugno 2022

Il cavaliere poeta che si fece mangiare il cuore

cavaliere mangiare il cuore mos teutonicus

Fra re dissezionati, imperatori bolliti e cavalieri divorati: la storia del Chastelain de Coucy, lo sfortunato che si fece mangiare il cuore

Il tema delle crociate ha dato ispirazione, nel corso della storia medievale, a un gran numero di canzoni. Per secoli sono state cantate le gesta di eroi salpati Oltremare per combattere i nemici infedeli, fra spettacolari battaglie e grandiosi assedi (per approfondire, leggi l’articolo sul “Cavaliere poeta”). Molte di queste storie, però, si concludevano in tragedia, esattamente come nel caso del castellano di Coucy (o Couci): un signore francese, nonché cavaliere poeta e trovatore, che per colpa dell’amore finì per farsi mangiare il cuore.

Secondo il racconto di Jakemon Sakesep1, il signore di Coucy salpò per combattere nella Terza Crociata al fianco di Riccardo Cuor di Leone contro il leggendario Saladino. Si tratta di una delle molte versioni presenti nei manoscritti medievali, alcune delle quali ambientano questa tragedia d’amore durante la Quarta Crociata, combattuta qualche anno più tardi. Questa discrepanza dà origine a una gran confusione per quanto riguarda l’attinenza storica: chi era davvero il castellano di Coucy?

Molti storici hanno dibattuto a lungo per scoprire la sua identità. Quello che interessa a noi, oggi, non è tanto la ricerca della verità storica, quanto il racconto in sé, che ci pone davanti un episodio di vendetta fra i più truculenti e macabri che io abbia mai incontrato: quello di un marito geloso che fa mangiare il cuore del rivale d’amore alla propria moglie. Già, perché la sfortunata commensale dell’orribile pasto è proprio l’ignara moglie adultera, ritrovatasi a divorare i resti del castellano di Coucy.

Si tratta, ovviamente, di un’opera di finzione. Tuttavia, le fonti storiche riportano episodi simili, come nel caso di Cesare Montecuccoli, signore rinascimentale che diede da mangiare ai suoi contadini il cuore del nemico. Il fatto che gli studiosi non siano riusciti a risalire all’identità del castellano di Coucy (e che, qualcuno azzarda a dire che potrebbe non essere mai esistito), purtroppo, non ci permette neppure di conoscere le cause della sua morte.

In ogni caso, il castellano di Coucy, in punto di morte, aveva scritto una lettera indirizzata alla sua amante, la signora di Fayel, dando istruzioni di recapitarla assieme al proprio cuore: prova inconfutabile che tale organo apparteneva all’amata, letteralmente. Romantico, vero? Quella dello smembramento rituale, però, non è un’invenzione narrativa di questa canzone, ma una pratica che troviamo spesso nelle fonti.

Nel Medioevo esisteva un’usanza funebre riservata ai cadaveri “eccellenti”, ovvero re, santi, nobili ed ecclesiastici, che aveva come scopo quello di risolvere il disgustoso problema della putrefazione. Capitava spesso, infatti, che personaggi illustri della storia morissero in terra straniera, magari a miglia e miglia di distanza, come avveniva durante le crociate, e che si manifestasse la necessità di riportarli indietro per seppellirli in patria, su terreno consacrato. Siccome era impossibile ottenere un tale risultato a condizioni normali, in piena decomposizione, sotto il sole primaverile ed estivo, ovvero nelle stagioni in cui i “re facevano la guerra” (come ci spiega Salimbene de Adam), si misero in campo delle soluzioni per rallentare il processo di decadimento dei tessuti e compiere un lungo viaggio in compagnia di un morto un “pochino” meno putrescente.

Non esiste un’espressione univoca per identificare questa pratica diffusa fra i nobili di alto rango, anche se alcuni utilizzano le parole del cronista Boncompagno, che la definì un’usanza di origine germanica (Mos Teutonicus). Usanza che appariva molto diversa a seconda del periodo, del luogo geografico e della casta sociale d’appartenenza. I nobili cadaveri potevano essere, ad esempio, smembrati, fatti a pezzi, bolliti, salati, speziati e conservati in ogni genere di contenitore: dal sacco di pelle di bue usato per Enrico I d’Inghilterra, all’urna di vetro del vescovo germanico. Ma vediamone alcuni.

Il 24 agosto del 1313 l’imperatore Enrico VII morì in Toscana, sotto il cocente sole d’estate. Per trasportarlo fino al luogo più sicuro in maniera “decorosa”, venne bollito e scarnificato: la materia molle fu seppellita sul luogo mentre le ossa vennero ricomposte per il trasporto fino a Pisa. Smembrare i cadaveri per farli arrivare fino ai remoti luoghi del regno era, dunque, un’opzione papabile per i nobili laici ed ecclesiastici, ma cosa ne pensava la Chiesa?

Con la bolla di Bonifacio VIII, emanata il 27 settembre 12992 viene stigmatizzata una pratica che doveva essere ammessa solo per i corpi dei santi. Caterina da Siena, infatti, è l’esempio perfetto di smembramento al fine di produrre reliquie. Il corpo è a Roma, la testa, dal 1381, anno successivo alla morte, è a Siena in San Domenico; il piede sinistro è a Venezia, mentre la mano sinistra fu tagliata nel 1487 per trasportarla in una chiesa di Monte Mario a Roma. Un frammento di scapola è venerato nel santuario senese a lei dedicato mentre una costola, a lungo conservata nella cattedrale di Siena, è stata donata nel 1985 al santuario cateriniano di Asternet in Belgio3. Anche Luigi il santo, di cui abbiamo conosciuto le gesta di guerra in un articolo dedicato (l’insubordinazione nella guerra medievale), fu eviscerato in Sicilia nel 1270 dopo esser morto a Tunisi: il corpo venne spolpato e speziato per il trasporto a Saint Denis.

“Partendo dalla considerazione che il corpo umano è a similitudine della bellezza divina, il pontefice decreta che esso non può essere sfigurato e che deve essere rigettata l’usanza dei nobili e degli alti dignitari di sezionare il cadavere, magari facendone bollire i pezzi in modo da scarnificare le ossa («aquis immersa exponunt ignibus decoquenda») per poi trasportarle alla sepoltura. E’ un costume orribile, recita la bolla, perché manca di rispetto alla dignità divina e, non meno, alla dignità dell’uomo che, di Dio, ha immagine e somiglianza.”

Cadaveri eccellenti, il corpo del sovrano nel Medioevo, Duccio Balestracci

La bolla papale, però, non riuscì a impedire una pratica già in uso in tutto il Medioevo. Enrico I d’Inghilterra, secondo quanto riportato dal cronista Mattew Paris, prima della sua morte in Francia, nel 1135, aveva chiesto d’essere sepolto nell’abbazia di Reading, e per assolvere alla sua richiesta i suoi fedeli decisero di smembrarlo: il cervello, gli occhi e le interiora furono seppelliti in Francia, mentre il resto del corpo fu coperto di sale e avvolto in un sacco di pelle di bue. Tuttavia, il corpo era già in fase di decomposizione e questo provocò non pochi problemi.

Racconta il cronista che, al momento del sezionamento, si levò un odore così pestilenziale da uccidere il medico: quella fu l’ultima vittima di re Enrico. E’ probabile che il medico fosse in realtà morto di setticemia per essere entrato in contatto con le membra putrescenti. In ogni caso, i fedeli continuarono a venerare la salma che, giunta a Caen, cominciò a sgocciolare un liquido nero attraverso la sacca, subito raccolto dai devoti accompagnatori affinché nulla di regale andasse disperso. Episodio, questo, che si presta benissimo per i racconti macabri, nonché fonte di ispirazione per le atmosfere dark del mio ultimo romanzo, La Stirpe delle Ossa, dove le reliquie scheletriche diventano un motivo di conflitto per dei cavalieri italiani caduti in miseria…

Ma ci sono molti altri esempi di smembramenti, anche per quanto riguarda l’estrazione di cuori.

“Rudolf von Schrenberh, vescovo di Wurtzbourg morto nel 1495, ordinò che il suo cuore fosse messo in un recipiente di vetro e solennemente portato su un carro con quattro grossi ceri e tirato da quattro cavalli, in un monastero distante una trentina di chilometri dal luogo del decesso. Il suo gesto, peraltro, non è affatto eccezionale ma rientra in una prassi corrente degli alti prelati di questa città4

Cadaveri eccellenti, il corpo del sovrano nel Medioevo, Duccio Balestracci

Un altro esempio di estrazione del cuore riguarda lo stesso Riccardo I d’Inghilterra (Cuor di Leone, per l’appunto) che, nel 1199, ferito a morte all’assedio del castello di Chaluz, chiese che il corpo fosse seppellito accanto alla tomba del padre a Fontevrault, che il cervello, il sangue e le interiora fossero portati a Charroux, nel Poitou, e che il cuore fosse donato a Rouen come ricompensa per la fedeltà che questa città gli aveva dimostrato.

Questi episodi storici realmente accaduti ci fanno capire quanto sia improbabile la storia del castellano di Coucy. Poiché un cuore estratto da un cadavere in Terra Santa, prima di arrivare in Francia, per quanto salato o speziato, sarebbe marcito. Ed è alquanto improbabile che la signora di Fayel sia stata messa nelle condizioni di mangiare il cuore putrido dell’amante senza rendersi conto della data di scadenza. Ma vediamo insieme il climax dell’intera canzone, ovvero il momento in cui il marito organizza lo “scherzone” e la signora scopre l’orrenda verità.

Chiama il capo cuoco,
e gli ordina con fermezza
di fare ogni sforzo
per preparare con una salsa
squisita
galline e capponi,
dei quali a tavola saranno
tutti serviti,
e di questa pietanza in particolare;
di questo cuore un altro piatto farai
che servirai alla tua signora
soltanto, e non ad altri”.5

Il signore di Fayel ordinò al cuoco di cucinare il cuore del castellano di Coucy, e servirlo assieme a galline e capponi arricchiti da una salsa squisita. Tutti i commensali avrebbero mangiato le galline e i capponi meno che la signora, cui era riservato il “piatto forte”.

“Sire, che Dio mi protegga,
farò, non dubitate,
così come avete detto”.
Il cuoco se ne va;
prepara e confeziona questi cibi
squisiti al gusto.
Giunta l’ora, si misero le tavole,
si sedettero per la cena
ed ebbero cibi a piacere.
Dopo i valletti servirono
quel cibo ch’era assai succulento;
il cuore fu servito solo alla dama
e agli altri fu offerto cibo diverso;
ciascuno mangiò volentieri.
La dama molto lodò quella pietanza,
e le sembrò di non aver mangiato
mai cibo più saporito

La macabra cena cominciò, e la signora di Fayel addentò la pietanza preparata esclusivamente per lei, senza neppure sapere di esser finita a mangiare il cuore del suo amato cavaliere poeta. Ma non solo. La signora trovò la pietanza così buona che le sembrava di “non aver mangiato mai cibo più saporito”. Elemento che, da solo, basterebbe a smentire chiunque pensi che questo episodio sia davvero avvenuto.

e disse: “Perché e come mai
non ce ne prepara il cuoco più spesso?
E’ troppo alto il costo
per preparare questa pietanza,
che non ce ne serve più spesso?
In vero mi sembra eccellente!”
Allora ha cominciato il signore
a parlare, furente di collera:
“Signora, non meravigliatevi,
se è buona, perché una uguale
non si potrebbe trovare
né con denaro comprare”.
“E come si chiama, bel signore?
Per favore, vogliate dirmelo”.
“Signora, non agitatevi,
vi giuro, credetemi,
con questo cibo mangiaste
il cuore di colui che più amaste:
quello del castellano di Coucy
che v’è stato ora servito.
Voi sola ne foste servita
e io e tutti gli altri
fummo serviti di una pietanza simile.
Voi l’amaste da vivo,
per cui vergogna e dispiacere ho sofferto,
e soffro tuttora;
e per vendicarmi un poco
vi ho fatto mangiare il suo cuore”.

La signora chiese da dove provenisse un cibo così buono, di cosa si trattasse, e come mai non venisse preparato più spesso, al castello. Era forse troppo costoso? Il malvagio signore vendicativo rispose che un tale cibo non lo si poteva comprare da nessuna parte, poiché era stato estratto dal petto del castellano di Coucy.

La dama fu molto sconvolta,
tuttavia disse saggiamente:
“Certo, sire, non posso credere
che sia vero quel che dite,
poiché sono più di due anni
che non lo si vede in questo paese,
dal momento in cui prese la croce
e passò il mare con gli altri”.
Il signore disse al suo valletto:
“Portami quel cofanetto.
Ora le farò sapere
se dico menzogna o verità”.
Il valletto il cofanetto d’argento
gli ha dato ed egli lo prende
e davanti a lei lo apre.
Le trecce le mostra,
e poi dispiega la lettera,
da cima a fondo gliel’ha letta;
poi le ha mostrato il sigillo,
e le ha chiesto:
“Conoscete queste insegne?
Sono del castellano di Coucy!”
Le dà in mano la lettera,
e dice “Signora, ora crederete senz’altro
che avete mangiato il suo cuore;
lo potete sapere di certo”.

La signora di Faye dapprima non credette alle parole di suo marito. Non riteneva possibile che fosse stata costretta a mangiare il cuore dell’amante, poiché il cavaliere poeta non lo si vedeva ormai da due anni, dal giorno in cui era partito per la Terra Santa. Tuttavia, il marito mostrò la lettera con il sigillo del cavaliere, prova inconfutabile che diceva il vero. E la moglie fu colta da tremenda disperazione.

Sua moglie allora gli rispose:
“Per Dio, sire, questo m’addolora,
e poi che così è,
vi giuro
che più non mangerò
né metterò altro boccone
sopra questa gentile vivanda.
Ora la mia vita è troppo dura
da sopportare, più non voglio vivere.
Morte, liberami della mia vita!”
Dicendo queste parole è svenuta
riversa sulla tavola,
poiché era così svuotata dal dolore
che in lei non v’è parte del corpo
dove ci sia forza e vigore.

Una volta capito che il proprio marito le aveva dato da mangiare il cuore del suo amante, la signora giurò di non toccare mai più cibo dopo quella “gentile vivanda”, e svenne in preda alla disperazione, poiché l’immenso dolore l’aveva svuotata di ogni “forza e vigore”.

Allora i suoi la portarono
senza indugio sul letto.
Là giacque svenuta senza gioia,
poiché era così soffocata dal dolore
che era tutta pallida e smorta.
E quando ritornò in sé
gettò inauditi sospiri,
e disse “Ah, che m’è accaduto?
Signore Iddio, cos’è accaduto?
Ben devo compiangermi e dire “Ahimè”
quando ho perduto il mio dolce amico,
che tanto era saggio e discreto,
e più di tutti leale e segreto,
che in tutta la Francia né in Romagna,
credo che uno più leale non ne rimanga;
mi stringe il cuore
il fatto che pensai che per me,
che agii da folle, passasse il mare,
per questo ho tanto amaro dolore al cuore
e sono piena di sconforto.
Infelice! Aspettavo conforto
dal suo ritorno, l’ho atteso;
ma, poiché la verità ho inteso
della sua morte, perché dovrei vivere
dal momento che mai gioia avrei?
Ah! che triste invio
nel cuore che mi ha mandato!
Mi mostrò che era mio,
il mio deve ora essere suo!
Così è. Lo dimostrerò
perché per amor suo morirò”.
Quindi svenne di nuovo;
rimase a lungo in silenzio
e quando poté parlare un po’,
cominciò a rimpiangere il suo amico.
Si torce i pugni e si sfigura;
per l’angoscioso tormento
del dolore e della pena che provava,
la morsa tanto la strinse
e la precipitò in così grande dolore
che gli occhi le si rovesciarono…”

La storia finisce nella più completa tragedia, poiché la signora di Faye si lasciò morire dalla tristezza per esser stata costretta a mangiare il cuore dell’amante “Mi mostrò che era mio, il mio deve ora essere suo!“. L’epilogo presenta delle assonanze con molte tragedie d’amore ben più celebri, che ricalcano il tema della sofferenza e del grande sacrificio, ma lascio a voi scovare le analogie.

Se non volete perdervi altre terribili storie sanguinarie, iscrivetevi alla newsletter, per ricevere anche le ultime novità riguardo il mio romanzo di prossima uscita: “La Stirpe delle Ossa”!

  1. Roumans dou Chastelain di Couci e signora Faiel, 1280 ca.
  2. “Detestandae feritatis abusum”
  3. Cadaveri eccellenti, il corpo del sovrano nel Medioevo, Duccio Balestracci
  4. M. Prietzel, Le corps des éveques. L’exemple de Wurtzbourg au XV et X’ siècles, «Micrologus», 22 (2014), Le Corps du Prince, p. 89
  5. Il romanzo del castellano di Coucy e della dama di Fayel, a cura di A. M. Babbi, Parma, Patriche, 1994
Lorenzo Manara
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