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8 Marzo 2022

Di barattieri e gabbamondi: quei frati impostori medievali

frati impostori medievali

Storie medievali di frati impostori non riconosciuti dalla Chiesa: tra reliquie fasulle, scherzi religiosi e movimenti ereticali finiti male

Nel Medioevo idealizzato che alberga le menti dell’uomo contemporaneo non mancano gli episodi legati ai santoni spacciatori di reliquie: frati impostori a spasso per le strade inzaccherate di fango, impegnati nella vendita di ossi di pollo benedetti. Nonostante questo sia un aspetto certamente esagerato della spiritualità antica, esiste tuttavia un fondo di verità. Non tanto perché il Medioevo era tempo di creduloni, quanto perché i creduloni ci son sempre stati e sempre ci saranno.

Non c’è bisogno che vi faccia un elenco di quelle che sembrano ingenuità moderne (fra maghi, rimedi esoterici, scaramanzie) e che invece fanno parte dei bisogni primordiali degli esseri umani. Perché, nonostante il nostro sia il tempo dei computer, dei satelliti e del cibo ordinato a domicilio, nel profondo del cuore sentiamo ancora bisogno di rassicurazioni sovrannaturali. Un bisogno che pare ingiustificato, ma che è sempre stato presente, soprattutto quando le difficoltà quotidiane erano affrontate a forza di braccia senza alcun aiuto tecnologico o spiegazione scientifica.

Per scrivere il mio ultimo romanzo (La Stirpe delle Ossa) ambientato in un Trecento italiano pieno d’avventure, spadate e fantastici ammazzamenti, mi sono imbattuto più volte in episodi storici che hanno protagonisti proprio loro, i frati impostori. Si tratta di un aspetto così caratteristico che nel romanzo ho voluto trattarlo fin dalle prime pagine. E che adesso voglio spiegare nel dettaglio a partire dalle cronache (senza spoiler sul romanzo, ovviamente).

“Nello stesso millesimo si videro anche le imposture di miracoli di un certo Alberto, che stava a Cremona e che era stato un portatore e ad un tempo un tracannatore di vino, non che un peccatore; dopo la cui morte, come se ne faceva correr voce, operò molti miracoli a Cremona, a Parma e a Reggio. In Reggio alla chiesa di S. Giorgio, e del beato Giovanni Battista; a Parma nella chiesa di S. Pietro, che è presso la piazza nuova, ove avevano la loro stazione, tutti i brentori di Parma ossia i tracannatori di vino; e beato chi li poteva toccare, o dare loro qualche cosa del proprio; altrettanto facevano le donne. Ed univano compagnie per le parrocchie, ed uscivano per le vie, e per le piazze, per andare processionalmente alla chiesa di S. Pietro, ove si veneravano reliquie di quell’Alberto; e cantando portavano croci e gonfaloni, e facevano offerte di porpore, sciamiti, broccati, baldacchini e molti denari; che poi i brentori si dividevano tra di loro e tenevano per sè. La qual cosa vedendo i parrochi si affrettarono a far dipingere le immagini di quell’Alberto nelle loro chiese, perchè crescesse il numero e il pregio delle offerte. E non solo in quel tempo si faceva dipingere l’immagine di lui nelle chiese, ma anche sui muri, sotto i porticati delle città, delle campagne e de’ castelli. Il che è contrario alle leggi ecclesiastiche, le quali proibiscono di venerare le reliquie di chi non è stato dalla Chiesa riconosciuto e ascritto all’albo dei Santi; nè si può dipingere l’immagine di alcuno come di Santo, se prima non ne sia pubblicata la canonizzazione. Laonde i Vescovi, che permettono tali abusi nelle loro diocesi, meriterebbero d’essere rimossi dal loro ufficio, cioè meriterebbero d’essere spogliati della loro dignità episcopale…”

Cronaca di fra Salimbene parmigiano dell’ordine dei Minori, volgarizzata da Carlo Cantarelli nel 1857

Non è certo che tale Alberto fosse un frate. Quel che sappiamo per mano del cronista è che fosse un “tracannatore di vino” e assiduo peccatore cui furono attribuiti una gran sequela di miracoli dopo la morte, senza motivo apparente. La voce si era sparsa nei dintorni di Reggio, Cremona e, soprattutto, a Parma, nella chiesa di San Pietro, dove si radunavano tutti i “brentori di Parma ossia i tracannatori di vino“, a quanto pare per la prima volta rappresentati da un loro collega nei seggi celesti del paradiso.

Di Alberto si dipingevano raffigurazioni da esporre nelle chiese, sui muri cittadini sotto i porticati e perfino nelle campagne e nei castelli. Cosa che mandò in bestia fra’ Salimbene da Parma, determinato nella sua cronaca a condannare i vescovi che permettevano tutto questo nelle loro diocesi. Poiché le leggi ecclesiastiche “proibiscono di venerare le reliquie di chi non è stato dalla Chiesa riconosciuto e ascritto all’albo dei Santi; nè si può dipingere l’immagine di alcuno come di Santo, se prima non ne sia pubblicata la canonizzazione“.

Emerge dunque un aspetto interessante della società medievale italiana (piena di norme, leggi e scartoffie perfino in ambito spirituale), che però si trovava a far fronte alle pulsioni “di pancia” del popolo, il quale poteva decidere di far santo chiunque, ed era difficile dimostrare il contrario.

“E chiunque avesse mancato d’intervenire a queste solennità, si riguardava come un eretico che le avesse in odio. E i secolari andavan dicendo a chiara e viva voce ai frati Minori ed ai Predicatori: Voi credete che non possano far miracoli che i vostri Santi; ma siete pure in inganno; ed ora lo si vede da questo.”

Come abbiamo già visto in un altro episodio simile, quello degli eretici di Besancon che ingannarono un’intera città (vedi l’articolo, “Storie di evocazioni demoniache e patti col diavolo“), anche in questo caso la popolazione difese strenuamente l’ultimo arrivato tra i frati impostori, Alberto, santo bevitore e tracannatore di vino: tutto il contrario dei santi canonizzati, e un po’ più raffinati, ufficializzati dalla Chiesa.

“Ma Iddio sbugiardò presto l’accusa infame, apposta a’ suoi servi ed amici, mettendo in chiaro la menzogna di coloro, che li avevano accusati, e castigando i calunniatori degli innocenti. Di fatto, arrivato un tale da Cremona, che diceva d’aver portato una reliquia di questo S. Alberto, cioè il dito mignolo del piede destro, accorsero affollati i Parmigiani, uomini, donne, ragazzi, ragazze, vecchi, giovani, chierici, secolari, e tutti i Religiosi, e con processione lunga, infinita, portarono quel dito alla chiesa matrice, che è quella della Vergine gloriosa; e collocato quel dito sull’altare maggiore, s’accostò Anselmo Sanvitali, Canonico della cattedrale, e, a volte, Vicario del Vescovo, e lo baciò. Ma sentito odore, cioè fetore d’aglio, e dettolo agli altri preti, s’accorsero anch’essi e riconobbero che erano stati gabbati, poichè non trovarono che fosse nulla fuorchè uno spicchio di aglio; e così restarono canzonati i Parmigiani e beffati, i quali folleggiarono in vanità e diventarono vani.”

A confutare i prodigi fasulli tipici dei frati impostori giunse un tale da Cremona con una reliquia del sedicente santo: “cioè il dito mignolo del piede destro“. Da tutta la città di Parma accorsero i cittadini per accompagnare la reliquia in una lunga e infinita processione fino alla cattedrale, dove venne accolta dal vicario del vescovo.

Il vicario, però, avvicinando le labbra per baciare la reliquia, s’accorse dello strano odore che emanava. Perché sapeva d’aglio. Il dito mignolo del piede destro, infatti, non era altro che uno spicchio d’aglio, a riprova dell’inganno cui tutti avevano abboccato. Nonostante l’epilogo inconfutabile, il popolo continuò a cadere nella rete dei “gabbamondi”, come nel caso di Boncompagno, in quel di Firenze.

“Vi furono però anche a que’ tempi molti barattieri e gabbamondi, che facevan di tutto per calunniare gli innocenti. De’ quali fu un Boncompagno fiorentino, rinomato maestro di grammatica in Bologna, che compose libri intitolati “Del comporre”. (…) Costui, che tra’ fiorentini era il più arguto nel mettere in canzone la gente. Così pure questo maestro Boncompagno vedendo che frate Giovanni s’era messo in capo di far miracoli, anch’egli volle provarsi a farne, e annunziò ai Bolognesi che voleva volare sotto i loro occhi. Non ci volle altro. La notizia corre per Bologna; arriva il giorno prefisso; si raduna tutta la città, uomini, donne, vecchi, fanciulli, alle falde d’un colle, che si chiama S. Maria in monte.”

Un altro tra i frati impostori medievali fu tale Boncompagno fiorentino che, a differenza del tracannatore di vino cremonese, possedeva un background culturale di tutto rispetto. Egli era maestro di grammatica e scrittore di libri sulla composizione poetica. Altra sua importante caratteristica era quella d’esser fiorentino e, come ripetuto più volte, esperto di burle e canzonamenti1.

Boncompagno volle provare a far miracoli, visto che lo facevano un sacco di frati impostori, e cominciò a sparger voce tra la popolazione di essere in grado di volare. La notizia arrivò subito a Bologna, facendo sì che la città intera si radunasse alle falde di un colle, in Santa Maria a Monte.

“S’era fatte due ali, e stava sulla vetta del monte guardando la folla. Ed essendosi reciprocamente a lungo guardati, proferì queste parole: Andatevene colla benedizione di Dio, e vi basti aver veduta la faccia di Boncompagno. E ne ritornarono derisi.”

Boncompagno si era costruito due ali e, piazzato sulla cima del monte, guardò a lungo la folla, di sotto, che aspettava il salto nel vuoto. Ma, dopo una lunga e infruttuosa attesa, Boncompagno disse a tutti di andarsene con la benedizione del Signore, perché quel giorno si sarebbero dovuti accontentare di “aver veduta la faccia di Boncompagno” e nient’altro. Nessun frate morì spiaccicato al suolo, quel giorno, e tutti se ne tornarono a casa canzonati dal Boncompagno mattacchione, che prese così in giro ogni credulone di Bologna.

“A frate Giovanni da Vicenza poi più sopra menzionato, gli onori ricevuti e la grazia nel predicare gli avevano siffattamente beccato il cervello da avernelo travolto e credere di poter fare veri miracoli anche senza l’aiuto del braccio di Dio. Il che era somma stoltezza, perchè il Signore dice in Giovanni 15. “Senza me nulla potete fare.” Parimente ne’ Proverbii 26. “Chi dà gloria allo stolto fa come chi gittasse una pietra preziosa in una mora di sassi.”

Giovanni da Vicenza, a differenza dei tipici frati impostori medievali, credeva di poter fare veri miracoli “anche senza l’aiuto del braccio di Dio“. Cosa molto grave perché, come ci ripete il cronista attraverso le Sacre Scritture, in Giovanni 15, “Senza me nulla potete fare.” A ridimensionare l’ego di Giovanni si fece avanti un fiorentino amante degli scherzi (un altro): tale Diotisalvi da Fiorenza, che tramite una “sporca” burla prese in giro lui e tutto il convento dei frati Minori.

“(Giovanni) essendo venuto un giorno al convento de’ frati Minori, ed avendogli il barbiere rasa la barba, s’ebbe a male che i frati non ne avessero raccolti i peli da serbare per reliquie. Ma frate Diotisalvi da Fiorenza dell’Ordine dei Minori, che, secondo il costume de’ Fiorentini era prontissimo a canzonare la gente, a capello rispose allo stolto come si conviene alla sua follìa, chè talora non gli paresse d’esser savio. Proverbii 26. Perocchè andato un giorno al convento de’ Predicatori, ed essendo stato da loro invitato a pranzo, disse che in niun modo accetterebbe, se non dessero a lui un lembo della tonaca di frate Giovanni, che stava in quel convento, da conservare come reliquia. Promisero e diedero una larga pezza di tonaca, colla quale, sgravatosi dopo pranzo il ventre, forbissi l’ano, poi la gittò nello sterco. Poscia, presa una pertica, rimestava lo sterco gridando e dicendo: Ahi! Ahi! aiutatemi o fratelli, che cerco la reliquia del santo che ho smarrita nella latrina. E guardando essi in giù dalle finestre delle celle, egli rimestava più forte perchè ne sentisser l’odore. Pertanto nauseati da tali esalazioni, ed inteso che erano stati scherniti da quel canzonatore, ne restarono confusi e svergognati.”

Fra’ Diotisalvi “secondo il costume dei fiorentini” era prontissimo a canzonare questo sedicente santo che credeva di produrre reliquie dai peli della barba. Si finse quindi interessato e chiese un pezzo della sua tonaca, da portar via come segno del divino. I frati impostori consegnarono un pezzo della tonaca a Diotisalvi, il quale dopo una bella cacata ci si pulì il didietro e la gettò nella latrina.

La latrina doveva trovarsi probabilmente in un fosso perimetrale, ai piedi delle mura su cui sorgevano le finestre delle celle. Poiché i frati alle grida di Diotisalvi si affacciarono per guardare di sotto, assistendo alla gag del fiorentino che rimestava lo sterco con una pertica per cercare la reliquia.

Può sembrare un episodio straordinario, ma non fu di certo l’unico della spericolata vita del frate Diotisalvi. Costui, come in un qualsiasi capitolo della saga “Amici miei”, ordiva ogni genere di scherzo ai danni dei propri fratelli.

“Questo frate Diotisalvi una volta fu comandato di andare per obbedienza ad abitare nella provincia di Penne, in Puglia. Egli allora andò nell’infermeria, si cavò nudo, e, scucito un materasso, vi si nascose dentro e vi stette tutto un giorno involto nelle penne. Cercato da’ frati, ivi lo trovarono, e disse che aveva adempiuto all’obbedienza impostagli. Perciò, a cagione di questa spiritosità, gli fu condonata l’obbedienza, e non andò. Così un giorno d’inverno camminando per Firenze scivolò per ghiaccio, e stramazzò disteso sulla via. Vedendo questa scena i fiorentini, che è gente nata per dar la beffa, cominciarono a ridere. Ma uno chiese anche al frate se volesse un cuscino da mettersi sotto. A cui il frate rispose che sì, che sì, purchè da mettersi sotto gli si desse per cuscino la moglie del suo interlocutore. I fiorentini udendo questa risposta non ne ebbero scandalo; anzi lodarono il frate, dicendo: quest’è veramente de’ nostri. (Alcuni attribuirono questa risposta ad un altro fiorentino, che si chiamava frate Paolo Millemosche dell’Ordine de’ Minori). Ma noi dobbiamo piuttosto domandare a noi stessi, se il frate facesse bene, o male a rispondere in quel modo: e sosteniamo che per molte ragioni rispose male….. Però frate Diotisalvi, che diede occasione a questo racconto, per molte altre ragioni si può anche scusare. La sua risposta però non deve trarsi ad esempio, che altri la ripeta… La terza ragione è che parlò tra suoi concittadini, i quali non se ne scandolezzarono essendo eglino tutti uomini sollazzevoli ed usi alle beffe. Ma in altro paese avrebbe suonato male quella risposta del frate. Di questo frate Diotisalvi inoltre io so molte cose, come anche del conte Guido, di cui da molti molte e varie cose sogliono contarsi, che, essendo più scandalose che edificanti, io non racconto.”

Proprio così. A Diotisalvi ordinarono d’andare a Penne (Puglia) e lui s’infilò nudo in un materasso, in mezzo alle piume. Poi scivolò sul ghiaccio, a Firenze, e quando qualcuno gli chiese se voleva un cuscino da metter sotto lui rispose che avrebbe preferito la moglie dell’interlocutore.

E con questi scherzoni da frati impostori si conclude l’articolo. Iscrivetevi alla newsletter per non perdere i nuovi fantastici articoli e l’uscita del mio prossimo romanzo, “La Stirpe delle Ossa”!

  1. sulla fama da burloni dei cittadini di Firenze si scrive moltissimo nel corso del Medioevo, già a partire dal Duecento fino alla consacrazione trecentesca del Decamerone, vero inno alla tradizione di scherzi fiorentini (e toscani, in genere)
Lorenzo Manara
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