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21 Dicembre 2021

Le spade magiche nella storia: dalla leggenda al fantasy

spade magiche

Da Artù a Beowulf passando per Cesare, Attila e Sigfrido l’ammazza-draghi: gli eroi più famosi della storia antica e le loro spade magiche

La spada è senza dubbio l’elemento più iconico della letteratura fantastica. Strumento di guerra presente in moltissime culture, anche lontane nel tempo e nello spazio, e oggetto di culto pregno di significato; tanto importante da divenire protagonista di miti e leggende al fianco di eroi immortali. Oggi voglio parlarvi di tutto questo attraverso 5 meravigliose storie di spade magiche.

Per la maggior parte si tratta di leggende quasi dimenticate, poiché perfino le storie più conosciute hanno conservato ben poco del mito originario. In alcuni casi l’immaginario collettivo ha addirittura modificato gli elementi della trama, ribaltandoli, mischiandoli e inventandone di nuovi per generare un caos narrativo non da poco (ne parlo anche nel video sul mio canale YouTube, non perderlo!).

Ma non preoccupatevi. Per la scrittura dei miei romanzi ho affrontato più volte l’argomento delle spade magiche perciò vi ripropongo le informazioni che ho raccolto negli ultimi anni qui, sotto forma di articolo. Alcuni aneddoti mi son serviti nella stesura del libro ambientato in un’Italia di metà Trecento, dove guerra e carestie fanno da sfondo a strane vicende misteriose… ma ve ne parlerò a tempo debito. Per adesso basta con le introduzioni e buttiamoci nella mischia: è tempo di sfoderare le spade (magiche!).

  1. La regina delle spade magiche: Excalibur
  2. Crocea Mors: la spada magica di Cesare
  3. Dal dio della guerra ad Attila: la spada di Marte
  4. Hrunting, la spada magica di Beowulf
  5. La spada di Sigfrido l’ammazza-draghi

La regina delle spade magiche: Excalibur

Se pensate di saltare questo paragrafo perché sapete tutto su Excalibur vi assicuro che siete sulla cattiva strada. Quella di re Artù è forse la storia più difficile da conoscere per un motivo molto semplice: fa parte di un ciclo narrativo millenario da molti ritenuto “ancora in corso”.

Gli autori che si sono cimentati nella loro personale interpretazione della Materia di Bretagna fra cavalieri, tavole rotonde, maghi, streghe, quest perigliose, giganti verdi e via discorrendo sono così tanti che non basterebbe un libro intero per parlarne. E non mi riferisco solo ai moderni remake da serie tv. Già nel Medioevo i rifacimenti del mito arturiano avevano raggiunto una diversità tale che le versioni non coincidevano più fra loro, a cominciare proprio da Excalibur.

Excalibur, quella che tutti noi identifichiamo come la spada nella roccia, estratta da Artù per dimostrare d’esser degno del trono d’Inghilterra. Era così la storia, non è vero? Be’, non proprio. Il primo a nominarla, seppur di sfuggita, è Goffredo di Monmouth nel 1136.

“Poi, sguainata la spada di Caliburn, chiamò il nome di Santa Maria, e subito si gettò sotto la folta schiera del nemico con un violento attacco. Chiunque toccò invocando Dio lo uccise con un solo colpo…”

Historia Regum Britanniae, Libro IX, capitolo IV

Il racconto è ambientato nel V secolo, dopo l’abbandono della Britannia da parte dei romani. A difendere le coste erano rimasti i celti romanizzati, gli antichi abitanti autoctoni che dopo secoli di convivenza con l’Impero si trovarono improvvisamente soli a fronteggiare una massiccia invasione da parte dei popoli germanici, quelli “barbari” per davvero.

In questa cornice di guerre, scorrerie e grandi battaglie, si muoveva re Artù, che secondo l’autore della cronaca era figlio di Uther Pendragon, fratello di Aurelio Ambrosio e nipote di Costantino III, l’Usurpatore. I natali imperiali e la fede cristiana fornivano un mix d’eccellenza per il mitico re di Gran Bretagna.

Affidandosi alla Vergine Maria nel corso della battaglia di Monte Badon del 490, Artù sbaragliò gli invasori pagani, gli anglo-sassoni, arrivando a sterminarne da solo 470. Tali capacità straordinarie però non sono attribuibili alla spada, ma alla sola forza del monarca, che ai primordi della sua leggenda non aveva bisogno di spade magiche per sterminare i pagani.

Alla sua prima apparizione la spada Caliburn (latinizzata nel nome) ci viene descritta come “un’ottima spada, forgiata nell’isola di Avalon” e tanto basta. Dunque non possiamo definirla magica, anche perché non le viene attribuito alcun potere. E nemmeno stava conficcata in una roccia. Per ritrovare gli elementi fantastici della tradizione arturiana cui siamo abituati dobbiamo aspettare circa un secolo, nell’opera di Robert de Boron.

«Ma Artù, arrivato a casa, non poté prenderla perché la stanza in cui essa si trovava era stata chiusa. Di ritorno, passò davanti alla chiesa e prese la spada che era conficcata nella roccia; la nascose sotto un lembo della sua veste e si ripresentò da suo fratello, il quale gli chiese: «Dov’è la mia spada?». Non ho potuto prenderla e allora ve ne porto un’altra» rispose Artù. «E dove l’hai presa?». «Dalla roccia che si trova davanti alla chiesa»

“Merlino” di Robert de Boron, inizi XIII sec.

E’ proprio qui che prende forma la versione che tutti conosciamo, consacrata dal film d’animazione Disney “la spada nella roccia”, con tanto di profezia di Merlino riguardo il futuro re d’Inghilterra e il battibecco con lo scettico fratello. Dunque possiamo ritenerci soddisfatti? Non tanto, considerato che alla spada non viene dato neppure un nome.

Non sappiamo se quella di Boron è effettivamente Excalibur. Nei rimaneggiamenti successivi lo è di sicuro, ma a complicare le cose interviene un personaggio che con un colpo di mano rimescola le carte in tavola: la dama del lago.

Colei che oggi è chiamata Nimue compare in una tale quantità di scritti e assume così tante forme e significati che arrivati in fondo alla lettura non ci si capisce più niente. Basti sapere che la sua prima apparizione iconica, ovvero quella della mano che spunta dalla superficie del lago per afferrare Excalibur avviene nel XIII secolo in un frammento di ciclo bretone in francese antico1, che poi Thomas Mallory ha messo insieme nel XV secolo dando origine alla versione più celebre della saga.

Considerando le varie opere dei vari autori, re Artù si ritrova quindi con tre spade magiche: la Caliburn di origini celtico-romane, la spada nella roccia e la Excalibur della dama del lago. Scegliete pure la vostra preferita.

Crocea Mors: la spada magica di Cesare

La storia di Artù s’intreccia in maniera indissolubile con la storia romana, a cominciare dalla cronaca di Goffredo di Monmouth, dove il protagonista del ciclo bretone ci viene presentato come nipote di un imperatore. I romani erano approdati in Britannia già con Gaio Giulio Cesare, nel 55 a.C., e la fama del dictator era rimasta impressa pure tra i successori degli stessi celti che lo avevano combattuto. Perché nella cronaca dei re britanni, al fianco della spada Caliburn, compare la Crocea Mors: la spada magica di Cesare.

“Il nome della spada era Crocea Mors (Morte Gialla), in quanto mortale per ogni ferita che infliggeva.”

Historia Regum Britanniae, Libro IV, capitolo IV

Secondo il cronista medievale, Cesare impugnava una spada (forse d’oro, per via del nome) che infliggeva ferite mortali alle quali nessuno poteva sopravvivere. E i britanni lo scoprirono a loro spese, assistendo alla morte dell’unico capo guerriero che aveva osato sfidare a duello il grande dictator: Nennio.

Cesare era giunto con la sua flotta alla foce del Tamigi e l’esercito romano sbarcava in forze per dare inizio all’invasione. I britanni dopo esser stati informati dell’imminente attacco si riunirono per decidere il da farsi e alcuni capi guerrieri suggerirono di sferrare subito la controffensiva; non c’era tempo da perdere, dovevano fermarli immediatamente, o il nemico si sarebbe preso le prime fortezze lungo la costa.

“Marciarono quindi verso la costa dove Giulio aveva sistemato il suo accampamento e le sue tende, e lì, entrambi gli eserciti in schieramento di battaglia, combatterono corpo a corpo, lancia contro lancia e colpo di spada contro colpo di spada. I feriti caddero a mucchi da una parte e dall’altra e il suolo fu inzuppato del sangue degli uccisi, come se fosse stato lavato dall’improvviso ritorno della marea. Mentre gli eserciti erano così impegnati, avvenne che i capi guerrieri Nennio e Androgeo, al comando dei cittadini di Canterbury e Trinovantum, ebbero la fortuna di incontrarsi con la truppa in cui Cesare stesso era presente. E dopo un assalto fatto, la coorte del generale fu quasi messa in rotta dai britanni che si abbatterono su di loro in un corpo ravvicinato.

Historia Regum Britanniae, Libro IV, capitolo III

L’esercito dei celti di Britannia incontrò quello romano sulle sponde del Tamigi, dove sorgeva l’accampamento degli invasori. La mischia fu così sanguinosa che il terreno venne lavato “come da un improvviso ritorno della marea”. I capi guerrieri dei britanni combattevano ferocemente e riuscirono a spingersi fino al cuore della formazione romana, dove lo stesso Cesare combatteva assieme alla sua coorte. Fu in quel frangente che Nennio ebbe l’occasione di avvicinarsi al dictator per incrociare le armi con “un uomo così grande”.

Purtroppo però non aveva idea che una delle spade magiche più temibili della storia stava per decretare la sua fine.

Durante questa azione, la fortuna diede a Nennio l’opportunità di incontrare Cesare. Nennio dunque lo fece coraggiosamente, e fu molto felice di poter dare anche solo un colpo a un uomo così grande. D’altra parte Cesare, consapevole del suo disegno, allungò lo scudo per riceverlo, e con tutte le sue forze lo colpì sull’elmo con la spada sguainata, che sollevò di nuovo con l’intenzione di finire il suo primo colpo, e renderlo mortale; ma Nennio lo prevenne accuratamente con il suo scudo, sul quale la spada di Cesare, lanciata con grande forza, vi si allacciò così saldamente, che quando per l’intervento delle truppe non poterono più continuare lo scontro, il generale non poté tirare fuori di nuovo. Nennio, divenuto così padrone della spada di Cesare, gettò via la sua, e tirando fuori l’altra, si affrettò a impiegarla contro il nemico. Chiunque colpisse con la spada, o gli tagliava la testa o lo lasciava ferito senza speranza di guarigione.

Cesare menò un fendente sull’elmo di Nennio, provocandogli una ferita, ma Nennio sollevò lo scudo e riuscì a parare un secondo poderoso colpo, così potente che la lama s’incastrò senza che Cesare riuscisse più a sfilarla. Il capo guerriero britanno era riuscito così a impadronirsi della Crocea Mors, la spada in grado di mozzar teste con una facilità estrema. Tuttavia non fu in grado di usarla a lungo.

La battaglia si concluse in favore dei celti. Al termine della giornata i romani, decimati e feriti, fecero ritorno alle navi e s’imbarcarono per la Gallia. I consiglieri di Cesare lo pregarono di cessare l’invasione e lui fu contento di ascoltarli, affermando che non avrebbe mai più messo piede sull’isola. Si tratta ovviamente dell’interpretazione di parte del cronista, ma quel che interessa a noi è la fine di Nennio, che quindici giorni dopo giaceva sul letto di morte.

Perché Cesare lo aveva ferito nello scontro, e il colpo che gli aveva dato si era rivelato incurabile; così che quindici giorni dopo la battaglia morì e fu sepolto a Trinovantum, presso la Porta Nord. Le sue esequie funebri furono eseguite con pompa regale, e la spada di Cesare fu messa nella tomba con lui, di cui aveva tenuto il possesso, quando fu colpita nel suo scudo durante il combattimento.

Da allora, della Crocea Mors, una delle spade magiche più misteriose della storia, non si seppe più nulla.

Dal dio della guerra ad Attila: la spada di Marte

Dopo i britanni, i romani trovarono pane per i loro denti combattendo un altro grande nemico, stavolta facente parte di uno degli imperi nomadi più vasti della storia umana: quello degli Unni. Come tutti i popoli della steppa, gli Unni erano addestratori di cavalli da tempi immemori. La loro cultura ruotava attorno al nobile destriero e questo si rifletteva sul loro modo di combattere. Disse di loro il goto romanizzato Jordanes:

Sono animali selvaggi, bestie a due zampe, semi-uomini che mangiano i loro vecchi, bevono il sangue e si nutrono della carne scaldata sotto le selle dei loro cavalli.”

L’arrivo degli Unni terrorizzò l’occidente romano e fu il principio, secondo alcuni storici, della successiva caduta dell’Impero. Attila incarnava questo terrore: il flagello di Dio, che dalle steppe euroasiatiche conquistò i balcani, il centro Europa e si spinse fino in Italia, dove per un soffio non raggiunse Roma per saccheggiarla2.

Attila aveva dalla sua i cavalieri nomadi, equipaggiati con l’arco unno composito, potente e affidabile, in grado di flagellare le truppe romane senza scendere di sella, e poi i popoli barbari assoggettati al suo vasto impero, fra cui gli slavi e i germani. Ma non si trattava solo di questo. Secondo gli storici antichi3 il potere di Attila derivava da un oggetto magico molto potente, una delle poche spade magiche di provenienza divina, la spada di Marte.

“E sebbene il suo carattere fosse tale da avere sempre una grande fiducia in se stesso, tuttavia la sua sicurezza fu accresciuta dal ritrovamento della spada di Marte, sempre considerata sacra tra i re degli Sciti. Lo storico Prisco dice che fu scoperta nelle seguenti circostanze: “Quando un certo pastore vide una giovenca del suo gregge zoppicare e non riuscì a trovare alcuna causa per questa ferita, seguì ansiosamente la scia di sangue e alla fine arrivò a una spada che aveva involontariamente calpestato mentre mordicchiava l’erba. Lo dissotterrò e lo portò direttamente ad Attila. Si rallegrò di questo dono e, essendo ambizioso, pensò di essere stato nominato sovrano del mondo intero, e che attraverso la spada di Marte gli era assicurata la supremazia in tutte le guerre. “

Jordanes, De origine actibusque Getarum, XXXV, 183, VI sec.

Solo il flagello di Dio poteva impugnare una spada ritrovata seguendo una copiosa scia di sangue. Il riferimento a Marte, dio della guerra della mitologia romana, è chiaramente un’aggiunta dello storico Prisco cui Jordanes fa riferimento, poiché gli unni non veneravano gli stessi dei di Roma.

Al Kunsthistorisches Museum di Vienna è esposta quella che viene identificata come la spada di Dio, l’arma di Attila l’Unno, anche se in realtà si tratta di un falso realizzato minimo cinquecento anni dopo, nel X secolo; un falso storico la cui leggenda avrebbe dovuto incrementare la popolarità dell’allora dinastia regnante in Ungheria. La spada di Marte, quella vera, è ovviamente perduta per sempre.

Hrunting, la spada magica di Beowulf

L’eroe Beowulf nell’omonimo poema anglosassone, scritto in antico inglese nel VIII secolo e giunto fino a noi grazie a una copia manoscritta dell’Anno Mille circa4, combatte contro una creatura definita col nome di orcneas proveniente da una misteriosa zona paludosa. Il mostro viene descritto come un essere di sembianze umane, gigantesco e terrorizzante per i suoi poteri magici di invulnerabilità e di forza5. Così forte che nessun’arma umana poteva scalfirlo. Quindi Beowulf è costretto a ucciderlo a mani nude, come Eracle fece con il Cerbero.

Dopo esser tornato alla sala grande per festeggiare e aver appeso il gigantesco braccio mozzato del mostro come trofeo, Beowulf viene sfidato da un secondo mostro, ancor più terrificante: la madre del primo, infuriata come non mai. Il suo antro si trova nel sottosuolo acquatico, costringendo l’eroe a una discesa analoga a quella degli eroi classici (la discesa nell’Oltretomba, la catabasi). Stavolta però l’eroe decide di equipaggiarsi al meglio, con armi e armature. Ma soprattutto, si fa prestare una fra le spade magiche più famose dell’epica medievale: Hrunting.

Non fu poi il minore dei possenti aiuti ciò che gli prestò nel bisogno il portavoce di Hrothgar – aveva nome Hrunting la spada con l’elsa – ed era di antichi tesori tra i più eminenti; la lama era di ferro, venata di riflessi, temprata in cruore di guerra; mai era mancata in battaglia a uomo che l’afferrasse in mano, che osasse andare in pericolose imprese, a luogo d’incontro fra nemici; non era la prima volta che essa doveva compiere opera di coraggio.”

Beowulf, 1455

Hrunting viene presentata come una spada temprata in “cruore di guerra”, che non aveva mai tradito colui che la impugnava. Tuttavia, come nel migliore dei colpi di scena, nel momento in cui Beowulf si trova al cospetto del mostro, la spada si rivela inefficace. La pelle del nemico è troppo dura e “per la prima volta il prezioso tesoro mancò alla sua fama”.

“Il valoroso scorse allora il mostro dell’abisso, la possente donna del mare, impresse gran forza alla lama di guerra, la mano non trattenne il colpo cosicché la spada adorna le cantò sul capo vorace canto di guerra; lo straniero scoprì che la luce di battaglia non voleva mordere, ledere la vita, ma la lama venne meno al principe nel bisogno; aveva retto a molti incontri di mano, spesso franto elmo, cotta d’uomo segnato; era la prima volta che il prezioso tesoro mancava alla sua fama.”

Beowulf, 1518

Ancora una volta ci troviamo dinnanzi al fallimento di una spada magica, che le cronache non mancano di presentare come oggetto prodigioso infallibile per poi tradire le aspettative con un cliffhanger ad alto potenziale drammaturgico. Perché le grandi storie, anche quelle antichissime, sono costruite grazie al conflitto e al fallimento: l’eroe deve fallire, altrimenti la storia non è degna d’essere chiamata tale. Questo lo so io che scrivo i miei umili romanzi fantastici, ma lo sapevano ancor meglio gli autori del passato.

Per sconfiggere il mostro, Beowulf si guarda intorno nell’antro spaventoso e posa lo sguardo su un’arma titanica, forgiata da giganti, probabilmente facente parte delle armi appartenute al mostro stesso:

Vide allora fra le armi una spada vittoriosa, antica lama di giganti possente di taglio, onore di guerrieri; era la migliore delle armi se non che era più grande di quanto ogni altro uomo potesse portare in gioco di guerra, forte e splendida, opera di titani; egli afferrò l’elsa, il guerriero degli Scylding feroce e furente sguainò la spada adorna disperando della vita, adirato vibrò così che dura essa la colse al collo, ruppe gli anelli d’ossa, la lama tutta passò il corpo segnato; lei cadde al suolo; la spada era insanguinata; egli gioì dell’opera.

Beowulf, 1537

“Se la tua spada non funziona, prova con una più grande”: potremmo riassumere così lo scontro fra l’eroe norreno Beowulf e il mostro dell’antro sotterraneo.

La spada di Sigfrido, l’ammazza-draghi

Nella Saga dei Volsungar, una delle opere della mitologia norrena su cui si basa la concezione fantasy contemporanea (fra cui Il signore degli anelli di J.R.R. Tolkien), compare la storia di Sigfrido (o Sigurd), l’ammazzadraghi6. Egli è figlio del potente re Sigmundr, il quale possedeva una leggendaria spada magica che era riuscito a estrarre dal Barnstokk, l’albero vivente attorno cui era costruita la grande sala dei Volsunghi. Odino stesso, dietro sembianze di uno sconosciuto molto alto, con un solo occhio, l’aveva incastrata durante un banchetto. Chiunque fosse riuscito a estrarre la spada dall’albero avrebbe potuto tenerla come ricompensa, e non avrebbe mai trovato spada migliore.

La spada si chiamava Gramr, simile alla spada nella roccia nella sua genesi di “arma incastrata”. Purtroppo però, andò in frantumi quando Sigmundr lottò contro lo stesso Odino, il quale la ridusse in pezzi. Proprio come Narsil, la spada appartenuta a Elendil che il figlio Isildur utilizza per strappare l’anello dalla mano di Sauron.

Sigfrido, il giovane rampollo, aveva disperatamente bisogno di una spada per poter ammazzare il drago. Dunque chiese al fabbro Regin di forgiargliene una. Il primo tentativo però non dette il risultato sperato.

Così Regin fa una spada e la dà nelle mani di Sigurd. Prese la spada e disse: “Guarda il tuo lavoro di fucina, Regin!” e con ciò lo percosse nell’incudine, e la spada lo spezzò; così fece rifondere il metallo e gli ordinò di forgiarne una migliore. Allora Regin forgiò un’altra spada e la portò a Sigurd, che la guardò. Allora Regin disse: “Sarai soddisfatto, stavolta, anche se non sei facile d’accontare in materia di fucina”. Così Sigurd provò la spada e la spezzò come il primo; poi disse a Regin: “Ah, sei forse un traditore e un bugiardo come quei tuoi ex parenti?” Con ciò andò da sua madre, ed ella lo accolse, e parlarono e bevvero insieme. Allora Sigurd parlò: “Ho sentito che re Sigmund ti ha dato la buona spada Gram in due pezzi.” “Abbastanza vero”, ha detto. Così Sigurd disse: “Consegnameli nelle mie mani, perché li vorrei”.

Le spade forgiate su misura per Sigfrido non erano abbastanza potenti per essere usate contro un drago. Quindi l’eroe va dalla madre a chiedere se per caso aveva messo da parte i frammenti di Gramr, la spada magica del padre. Ed è così che, come la Narsil spezzata divenne Anduril nelle mani di Aragorn, erede di Isildur, anche Sigfrido fece riforgiare la leggendaria Gramr.

Con ciò Sigurd andò da Regin e gli ordinò di fabbricare una buona spada come meglio poteva; Regin si arrabbiò, ma andò nella fucina (…) Fece dunque una spada e, mentre la traeva fuori dalla fucina, parve che il fuoco ardesse lungo i bordi di essa. Ordinò a Sigurd di prendere la spada, e disse che non sapeva come fare meglio di così. Allora Sigurd la menò contro l’incudine e lo squarciò fino al suo ceppo, e non spezzò la spada né la spezzò.

Sigfrido s’incamminò quindi verso l’antro del drago Fafnir con la sua nuova spada magica, per dare inizio al mito dell’ammazza-draghi più affascinante della letteratura fantastica.

Queste erano le storie di cinque spade magiche della storia antica. Se volete saperne di più di racconti mitologici e non perdere le mie ultime uscite in libreria iscrivetevi alla newsletter. A rileggerci!

  1. Ciclo della vulgata, Mort le roi Artu
  2. la cui motivazione per la mancata volontà di proseguire la campagna d’invasione è tutt’oggi oggetto di dibattito
  3. Jordanes, De origine actibusque Getarum
  4. Il Cotton Vitellius, scritto da due monaci amanuensi e contenente altri racconti a tema fantastico
  5. Beowulf, A cura di Ludovica Koch
  6. di cui abbiamo la più antica testimonianza in un manoscritto islandese del XIII secolo
Lorenzo Manara
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