Ruggero da Fiore: un templare rinnegato
Ruggero da Fiore, il templare italiano cacciato dall’Ordine per aver rubato il tesoro del Tempio, pirata e fondatore della Compagnia Catalana
Ruggero da Fiore, chiamato anche Roger da Flor, o Roger da Flores, è uno dei protagonisti della Crónica catalana di Ramon Muntaner. La sua vita è un’avventura degna d’essere raccontata, che sfiora importanti vicende di fine XIII secolo a cominciare dalla battaglia di Tagliacozzo e i Vespri Siciliani, passando per la tragica conclusione delle crociate con l’assedio di san Giovanni d’Acri, e arrivando fino a Costantinopoli, durante le guerre con gli Ottomani. Mettici pure i templari e la sparizione di un tesoro, una scomunica, scorrerie, saccheggi, battaglie navali, imprese eroiche ed ecco che prende forma lo splendido mosaico narrativo che compone la biografia di Ruggero da Fiore, partito da bambino come semplice mozzo e diventato megadux, una delle più alte cariche militari dell’Impero Romano d’Oriente.
CXCIV Racconta gli inizi di fratello Ruggero che fu poi tanto esaltato; e delle grandi opere di valore che compì nella sua vita.
“È vero che l’imperatore Federico II aveva un gentiluomo, che era dalla Germania e si chiamava Richard de Flor ed era un uomo molto galante. E gli diede in moglie, a Brindisi, una fanciulla, figlia di un uomo onorato della città di Brindisi, che era uomo ricco. Tra quello che gli diede l’imperatore e quello che ebbe con sua moglie divenne un uomo molto ricco. E da lei ebbe due figli: il maggiore si chiamava Jacobo de Flor, e il minore si chiamava Ruggero da Fiore. E quando Corradino venne nel regno di Sicilia, il maggiore di questi non aveva più di quattro anni, e Ruggero non più di uno. E il loro padre era uomo esperto d’armi e volle combattere nella battaglia di Corradino contro re Carlo, e in quella battaglia fu ucciso. E re Carlo, quando ebbe preso il regno, prese per sé tutto ciò che apparteneva a tutti coloro che erano stati in battaglia, e ciò che era appartenuto alla famiglia dell’imperatore o di re Manfredi. Non restava altro a quei ragazzi di quello che la loro madre aveva portato come parte del suo matrimonio, perché, del resto, erano diseredati.”
L’imperatore Federico II aveva un falconiere di nome Richard von Blun, tradotto letteralmente dal tedesco in Riccardo da Fiore. Sappiamo bene quanto l’imperatore svevo fosse appassionato di caccia (per approfondire, leggi “La caccia nel Medioevo”), per questo teneva in gran considerazione anche i suoi esperti cacciatori. Riccardo da Fiore, in particolare, fu ricompensato per i suoi servigi con la mano di una dama molto ricca della città di Brindisi.
Riccardo e la dama brindisina ebbero due figli: Jacopo da Fiore e Ruggero da Fiore. Ma quando il maggiore raggiunse l’età di quattro anni e il minore quella di un anno, e l’imperatore svevo era ormai morto da 18 anni, Riccardo da Fiore fu costretto a lasciare l’amata famiglia per seguire l’esercito del sedicenne Corradino, nipote di Federico II, in guerra contro i guelfi di Carlo I d’Angiò.
La discesa di Corradino in Italia culminò nella celebre battaglia del 23 agosto 1268, a Tagliacozzo (per approfondire, leggi “La Battaglia di Tagliacozzo”), dove Riccardo da Fiore trovò la morte in combattimento. La moglie, Il figlio Jacopo e il piccolo Ruggero da Fiore, che aveva appena un anno, rimasero senza capofamiglia e perfino diseredati dalla presa di potere di re Carlo che, dopo aver schiacciato gli svevi, spogliò i vinti dei loro beni.
“E in quel tempo arrivavano a Brindisi le navi delle case mercantili, e quelle di Puglia, che volevano prendere pellegrini e viveri dal Regno, vi venivano a passare l’inverno. Le case mercantili avevano tutte, ed hanno tuttora, grandi stabilimenti a Brindisi e in Puglia e in tutto il Regno. E così le navi che vi svernano cominciano a caricare in primavera per andare ad Acri, e prendono pellegrini, olio e vino e ogni sorta di chicco di grano. E certamente è il luogo più attrezzato per il passaggio di là del mare di qualunque appartenente ai cristiani, e nella terra più abbondante e fertile, ed è vicinissimo a Roma; e ha il miglior porto del mondo, tanto che ci sono case fino al mare. E più tardi, quando il ragazzo Ruggero aveva circa otto anni, accadde che uno dei Templari, un fratello sergente, chiamato fratello Vassayll, che era originario di Marsiglia, era comandante di una nave dei Templari ed era un buon marinaio, venne con la sua nave a passare un inverno a Brindisi, e prese la zavorra e fece riparare la nave in Puglia. E mentre faceva riparare la nave, il ragazzo Ruggero correva intorno alla nave e al sartiame leggero come fosse una scimmia, e tutto il giorno stava con i marinai, perché la casa di sua madre era vicina a dove stava la nave prendendo in zavorra. E il fratello Vassayll, ha preso in simpatia il ragazzo Roger; lo amava come se fosse suo figlio, e chiese di lui a sua madre e disse che, se lei lo avesse abbandonato, avrebbe fatto tutto ciò che era in suo potere per procurargli un buon posto tra i Templari. E la madre, poiché le sembrava un uomo importante, gli diede volentieri il ragazzo, ed egli lo accolse.”
Brindisi era un’importantissima realtà medievale, scalo per l’attraversamento del Mediterraneo in tutte le sue mete più ambite, fino a quell’Oltremare che per secoli attirò gli sforzi militari ed economici dell’intero Occidente. Le navi delle case mercantili giungevano a Brindisi per caricare pellegrini, soldati e viveri “olio, vino e ogni sorta di chicco di grano”, per poi scortarli fino in Terra Santa e perfino oltre, nel Mar Nero. Ma non si trattava solo di questo. Il porto di Brindisi fungeva anche da “sosta invernale”, dove le navi si fermavano per svernare, nell’attesa della primavera. “Certamente è il luogo più attrezzato per il passaggio di là del mare di qualunque appartenente ai cristiani, e nella terra più abbondante e fertile, ed è vicinissimo a Roma; e ha il miglior porto del mondo, tanto che ci sono case fino al mare.”
Ruggero da Fiore passò l’infanzia in quel brulicante porto medievale, vivendo come facevano i ragazzini delle famiglie affacciate sul mare. “Correva intorno alla nave e al sartiame leggero come fosse una scimmia, e tutto il giorno stava con i marinai.” Un giorno, come in un classico della letteratura d’avventura, il piccolo Ruggero da Fiore si imbatté nel comandante di una nave che non era affatto come le altre. Si trattava, infatti, di un veliero del Tempio, l’ordine monastico cavalleresco più potente dell’epoca.
Il comandante della nave templare si chiamava fratello Vassayll1. Costui prese molto in simpatia Ruggero da Fiore, poiché il ragazzino bazzicava la nave templare tutti i giorni, ormeggiata a Brindisi per l’inverno. Perciò il comandante disse alla madre che, nel caso in cui lei ne avesse avuto bisogno, lo avrebbe preso in custodia per farlo entrare a far parte dell’ordine, anche se, tale richiesta, non veniva trattata favorevolmente dalla Regola del Tempio:
“Sebbene la regola dei Santi Padri permetta di avere dei fanciulli nella congregazione, noi vi esortiamo a non farvi carico di ciò. Chi avrà deciso di introdurre un figlio o un parente nell’Ordine militare, in modo corretto, lo nutra sino agli anni nei quali la sua mano armata possa virilmente cancellare i nemici di Cristo dalla Terra Santa. Poi, secondo la regola, il padre o i genitori lo portino in mezzo ai fratelli o rendano nota a tutti la sua richiesta: è meglio non consacrarlo da fanciullo piuttosto che, fatto uomo, allontanarlo in modo clamoroso.”
Perché i fanciulli, finchè sono piccoli, non vengano accolti fra i fratelli del tempio. capitolo LXII, Regola del Tempio
Regola che, come vedremo più avanti, si rivelerà più che azzeccata.
La madre, viste le difficili condizioni economiche in cui versava dopo la morte del marito, decise di consegnare suo figlio a Fratello Vassayll, per farlo salire a bordo del veliero templare. Ed è così, come nell’incipit di una grande storia, che ebbero inizio le avventure di Ruggero da Fiore.
“E il ragazzo si rivelò il ragazzo più esperto del mare; compì meraviglie dell’arrampicata e di tutte le cose. A quindici anni era considerato uno dei migliori marinai del mondo, e a vent’anni era un abile marinaio in teoria e in pratica, tanto che il degno fratello Vassayll gli lasciava fare tutto ciò che voleva con la nave. E il Maestro dei Templari, vedendolo così zelante ed esperto, gli diede il mantello e lo fece fratello sergente e poco tempo dopo che fu fatto fratello, i Templari comprarono dai Genovesi una grande nave, la più grande che fosse stata costruito in quel tempo, e si chiamava il Falcone, e lo diedero a questo fratello Ruggero da Fiore.”
Ruggero da Fiore si rivelò un fenomeno della vita marinaresca. Sapeva arrampicarsi in maniera meravigliosa e fare molte altre cose straordinarie che gli valsero, a detta del cronista, il primato di “uno dei migliori marinai del mondo”. A vent’anni, intorno all’anno 1288, era così abile nella teoria e nella pratica che fratello Vassayll “gli lasciava fare tutto ciò che voleva con la nave”, presumibilmente lasciandogli il comando anche durante gli scontri armati. La fama di Ruggero da Fiore fece la scalata della gerarchia templare, fino a giungere alle orecchie del maestro stesso, l’allora Guillaume de Beaujeu che vedendolo così “zelante ed esperto” gli consegnò il mantello dell’ordine nominandolo fratello sergente e, poco tempo dopo, affidandogli perfino una nave: il Falco, o Falcone del Tempio.
Il Falco del Tempio era una grande nave che i templari avevano comprato dai genovesi: “la più grande che fosse stata costruita in quel tempo”. Sappiamo che i templari, come gli ospitalieri, usavano sia navi di proprietà dei mercanti, sia proprie, per il trasporto di uomini e merci2. I carichi includevano spesso bestiame, anche se la maggior parte degli animali soffriva molto durante i viaggi in mare. I più richiesti e trasportati erano naturalmente i cavalli e i destrieri da guerra. Nelle prime fasi delle crociate, gli ordini affittavano navi delle città italiane come Venezia, Genova, Pisa. Successivamente, però, cominciarono ad acquistarle formando una propria flotta, come testimoniato da Ramon Muntaner nel racconto di Ruggero da Fiore, e del suo Falco del Tempio.
Non esiste una precisa descrizione del Falco, tuttavia possiamo prendere per buone le parole del cronista per ipotizzare le caratteristiche “della più grande nave” templare. Innanzitutto, essendo la più grande, è probabile che non fosse una galea, ovvero l’imbarcazione più frequente sul finire del XIII secolo (e lo rimase, in ambito militare, fino al XVI secolo, come dimostrato nella battaglia di Lepanto). Le galee erano le imbarcazioni lunghe e sottili che associavano propulsione velica all’uso dei remi, mossi da almeno duecento uomini. Erano precisissime nelle manovre e perfette per la guerra nel Mediterraneo, tuttavia non potevano trasportare ingenti carichi (cosa che, invece, Ruggero da Fiore con il Falco faceva spesso).
Navis era il termine con cui si indicavano nel Medioevo le navi dotate di una grande capacità di carico. Per definire genericamente un’imbarcazione invece si faceva uso del termine lignum, richiamando il materiale utilizzato. A quel tempo vi erano, quindi, due grandi tipologie di natanti: quelle a scafo sottile, come le galee, e quelle a scafo tondo, come le navis che, a seconda del paese e dell’epoca, assumevano terminologie ancora più specifiche3. La navis di Ruggero da Fiore, quindi, poteva apparire come una delle tipiche imbarcazioni mercantili genovesi:
“Si trattava, a ogni modo, di bastimenti capienti, la cui lunghezza era circa il doppio della larghezza al baglio maestro e il triplo dell’altezza al puntale, dotati d’uno o più ponti (in genere, coperta e corridoio), caratterizzati dall’esclusiva propulsione velica, garantita dalla presenza di uno, due o tre alberi, inclinati in avanti, muniti di antenne (formate da due parti sovrapposte: il carro e la penna) e armati a vela latina (probabilmente, “a la trina”: triangolare), che permetteva di stringere meglio il vento rispetto alla quadra (ma non oltre le sei quarte; le sette quarte erano mantenute con difficoltà). Dalle poche raffigurazioni superstiti – graffiti, miniature, disegni –, così come dai più noti contratti di costruzione, sappiamo che tali unità navali disponevano, a poppa, d’un cassero e di due grosse pale utilizzate come timoni laterali, azionate da una barra che immetteva direttamente nella timoneria, progressivamente affiancate o sostituite da un timone unico centrale; a prua, invece, d’un rudimentale castello sopraelevato, destinato a ospitare dei soldati.”
L’influsso delle marinerie nordiche sullo sviluppo del naviglio mediterraneo: un tema controverso, Antonio Musarra
Il Falco del Tempio poteva assomigliare, quindi, al modello più grande di navis genovese: due o tre vele, priva di remi, della capacità di 1000 tonnellate e dotata di un equipaggio di 80-100 uomini, con un cassero fortificato a poppa e un castello sopraelevato a prua4. Una nave pensata prevalentemente per il trasporto, nonostante fosse armata per il combattimento, e che Ruggero da Fiore comandò con “grande sapienza e valore”.
“E in questa nave navigò a lungo, mostrando grande sapienza e grande valore. Si ritrovò ad Acri su questa nave e i Templari se la cavarono così bene con questa nave che nessun’altra gli piaceva così come questa. Questo fratello Roger era l’uomo più generoso mai nato; può essere paragonato solo al giovane re. E quanto guadagnò lo divise e lo diede ai principali Templari e a tanti amici che seppe farsi. E, in quel tempo, Acri era perduta, ed era nel porto di Acri con la sua nave e portò via dame e damigelle e un grande tesoro e molte persone importanti. E poi, similmente, condusse il popolo a Montpelegrin, affinché in quel viaggio guadagnò infiniti. E quando tornò, diede molto al Maestro e a coloro che erano potenti tra i Templari. E quando ciò fu fatto, gli invidiosi lo accusarono al maestro, dicendo che aveva un grande tesoro che gli era rimasto della faccenda di Acri. Il Maestro afferrò tutto ciò che trovò di suo, e poi volle impossessarsene.”
Ruggero da Fiore navigò a lungo col suo Falcone, partecipando anche all’ultimo assedio delle crociate, quello che avrebbe posto fine alla pagina di storia Oltremare: Acri, 1291. Aiutò i difensori a fuggire dalla città perduta, nelle ultime fasi dell’assedio, quando i mamelucchi avevano conquistato la doppia cerchia di mura per riversarsi nelle strade. Ruggero da Fiore fece da spola con la sua nave, avanti e indietro, dal porto di san Giovanni d’Acri fino a Montpelegrin, il castello del Pellegrino, dove i superstiti però non rimasero a lungo, poiché la caduta della città di Acri pose fine al regno crociato.
“Ora sappiate che quelli di Castel Pellegrino, quando videro che tutto era perduto, capirono bene che non avevano la forza di difendere il castello, così lo abbandonarono e andarono all’isola di Cipro, e poi i saraceni lo fecero radere al suolo”
Templare di Tiro 276. (512)”
Ma Ruggero da Fiore, oltre a scortare i civili, si occupò anche di una questione scottante: il trasporto del tesoro dell’Ordine Templare.
Qui, la storia del templare italiano, comincia ad assumere le tinte avventurose che solo i misteri legati all’ordine religioso più affascinante di tutti i tempi riescono a regalare. Poiché, secondo la Crónica catalana de Ramon Muntaner, fu proprio lui a mettere in salvo il tesoro del Tempio, allora conservato nell’ultima città fortezza cristiana di Terra Santa. E nel farlo si arricchì tanto da incorrere nelle ire del tesoriere dell’ordine Thibaud Gaudin, il quale, al termine dell’assedio e, in seguito, alla morte dell’allora maestro Guillaume de Beaujeu (sacrificatosi in un’ultima carica contro i mamelucchi, leggi l’articolo “Così muore il maestro dei templari”), divenne egli stesso maestro dell’ordine, cominciando la sua persecuzione nei confronti di Ruggero da Fiore. “Gli invidiosi lo accusarono al maestro, dicendo che aveva un grande tesoro che gli era rimasto della faccenda di Acri.”
Nella cronaca catalana, Ruggero da Fiore viene considerato privo di colpa. Si dice che si arricchì trasportando persone importanti da Acri a Castel Pellegrino, presumibilmente dietro donazioni o pagamento di un pedaggio5, per poi essere accusato dagli “invidiosi” d’essersi impadronito di una parte del tesoro dei templari. Tuttavia, molti altri autori non furono dello stesso avviso6, e presero le parti dell’Ordine nell’accusare il comandante del Falco di aver speculato su un disastro, rubando parte del tesoro.
Ruggero da Fiore fu, quindi, spogliato dei suoi averi, cacciato dall’ordine dei Templari, e “scomunicato pergiunta” ma le sue imprese non erano neppure cominciate. Poiché mise al servizio del miglior offerente la sua esperienza di mare e la sua fama (per quanto sporcata dagli avvenimenti) per divenire, a tutti gli effetti, un pirata, o corsaro antelitteram, considerato che veleggiava per conto di un potente.
“Ma seppe ciò e lasciò la nave nel porto di Marsiglia e andò a Genova, dove trovò messer Ticino Doria e altri amici che seppe tenersi stretto; e prese da loro una somma in prestito, con cui comprò una buona galea, chiamata Oliveta, e la attrezzò molto bene. E venne al Duca a Catania con la galea, e si offrì a lui, per sostenerlo con la galea e di persona. Ma il Duca non lo accolse bene, né nei fatti né nelle parole, e così stette tre giorni senza poter avere una risposta favorevole. E il quarto giorno apparve davanti a lui e disse: «Signore, vedo che non ti piace che io sia al tuo servizio, per cui ti raccomando a Dio, e andrò a cercare un altro signore, al quale il mio servizio sarà piacevole”. E il Duca rispose che poteva andarsene e la buona fortuna lo accompagnava. E subito si imbarcò e venne a Messina, dove trovò il signore re Federico; e gli apparve davanti e gli si offrì, come aveva fatto al duca. E il Signore Re lo ricevette molto benevolmente e lo ringraziò per la sua offerta. E subito lo nominò membro della sua casa e gli assegnò una buona e onorevole provvigione. E lui e tutti quelli che erano venuti con lui fecero omaggio al re. Fratello Roger, quando vide la bella e onorevole accoglienza riservatagli dal re, fu molto contento.”
Ruggero da Fiore abbandonò la navis del Tempio, il Falco, a Marsiglia. Andò a Genova e, grazie a un ingente prestito conferitogli da Ticino Doria, armò una galea da guerra a vela e remi, veloce e letale, per poi offrire i propri servigi di esperto comandante a Roberto d’Angiò (qui titolato come Duca di Catania). Il Duca, però, non si dimostrò interessato. Dopotutto era di parte guelfa, appartenente alla fazione papale, dunque poco incline ad accogliere uno scomunicato cacciato dall’ordine dei templari. Perciò Ruggero da Fiore si recò dal suo nemico, nonché re di Sicilia in persona, Federico III d’Aragona, il quale, guardacaso, era anch’egli scomunicato, e fu felicissimo di arruolare un uomo così valente nella dura guerra che infiammava il sud Italia a quel tempo.
A questo punto si potrebbe aprire una parentesi sulla questione del tesoro templare rubato. Poiché se le accuse fossero state vere, Ruggero da Fiore non avrebbe avuto bisogno di un prestito per armare la galea. O forse il tesoro rubato non era sufficiente a coprire i costi? Le ipotesi sono molte. Ruggero potrebbe persino aver venduto il tesoro ai suoi contatti genovesi, ottenendo una somma di denaro “pulita”, spacciata per un prestito. Ma sono solo supposizioni. Come al solito, la verità non la sapremo mai.
Con l’appoggio del re di Sicilia, Ruggero da Fiore diede inizio alla sua carriera piratesca al comando dell’Oliveta, veleggiando nel Mediterraneo a caccia di velieri angioini da catturare.
“E dopo essere rimasto otto giorni con il Signore Re e aver ristorato i suoi seguaci, si congedò dal Signore Re e si mosse verso l’Apulia, e prese una nave del re Carlo carica di vettovaglie, che andava al Duca, a Catania. E subito la presidiò con alcuni della sua compagnia, e quelli della nave mise in galea, e mandò la nave, che era a tre ponti e carica di grano e di altre vettovaglie, a Siracusa. E poi prese dieci teridi pieni, carichi parimenti di vettovaglie che re Carlo mandava al duca. E con queste teridi venne a Siracusa, dove vi era una grande mancanza di viveri. E con la galea mise similmente delle vettovaglie nel castello d’Agosta. Cosa devo dirti? Con quel premio fece provvista Siracusa e il castello d’Agosta e Lentini e tutti gli altri luoghi in attesa del Signore Re intorno a Siracusa. E fece vendere le vettovaglie in un grande mercato di Siracusa e ne mandò a Messina. E con il denaro pagò i soldati che erano nel castello di Siracusa e in città e ad Agosta e a Lentini e in tutti gli altri luoghi. Ha pagato tutti per sei mesi, alcuni in moneta, altri in vettovaglie. E così ha rianimato tutto. E fatto questo, aveva ancora lasciato, del guadagno che aveva fatto, ben ottomila once. E venne a Messina e mandò al Signore Re, che andava per la Sicilia, mille once in bei carlini, e pagò anche per sei mesi i soldati che erano col conte de Squilace, e a Calana e La Mota e a il castello di Santa Agata ea Pentedatilo e Amandolea e Gerace; vale a dire in denaro e in viveri.”
Ruggero da Fiore, durante il suo primo incarico da pirata al soldo del re aragonese di Sicilia, catturò a largo della Puglia una nave dell’avversario angioino, a tre ponti, carica di grano e altre vettovaglie. La occupò con una parte della sua compagnia mentre i prigionieri di guerra li caricò sulla sua Oliveta. Poi, mandò la nave catturata a Siracusa. Un bel bottino, senza dubbio, ma Ruggero non si fermò. Catturo altre dieci imbarcazioni, dette “teridi”, tutte mercantili e piene di vettovaglie, anch’esse mandate poi a Siracusa e al castello d’Augusta, dove spartì il guadagno col re Federico III d’Aragona. La scalata al potere era cominciata: con i soldi che gli rimasero, ricavati dalla vendita del carico catturato, Ruggero da Fiore mise in piedi la sua compagnia di guerra, quella che poi sarebbe passata alla storia come la Compagnia Catalana (o degli Almogavari).
“E poi si dotò subito, oltre alla sua, di quattro galee che prese dall’arsenale. E quando li ebbe equipaggiati, riprese subito la rotta per la Puglia e prese, ad Otranto, la nave di En Berenguer Samuntada di Barcellona, che era carica di grano del re Carlo, una grande nave a tre ponti che il re Carlo stava mandando a Catania. E lo presidiò e lo mandò a Messina, e diede alla città una grande generosità dalle altre navi e legni che prese; vi mandò più di trenta, carichi parimenti di vettovaglie, che fu infinito il suo guadagno, e fu immenso il bene che fece a Messina e a Reggio ea tutto il circondario. E fatto tutto questo, comprò cinquanta destrieri, tutti di buona qualità, e montò scudieri catalani e aragonesi che ricevette in sua compagnia, e prese in casa sua cinque cavalieri catalani e aragonesi, e con grande quantità di denaro andò dov’era il Signore Re e lo trovò in Piazza; e là gli diede più di mille once di moneta e, più che ad altri, diede a Don Blasco e En G. Galceran e En Berenguer de Entenza, per i quali concepì tanto amore che vissero come fratelli e convennero che tutte le cose dovrebbero essere in comune tra loro. Cosa devo dirti? Non c’era un ricco o cavaliere che non accettava i suoi doni e, in tutti i castelli in cui veniva, pagava i soldati per sei mesi. Così rafforzò il Signore Re e rinfrescò i suoi seguaci che uno di loro valeva doppio.”
Dopo aver consegnato parte del bottino al re Federico III d’Aragona, con quel che era rimasto Ruggero da Fiore divenne un uomo ricchissimo. Egli, però, aveva acqua di mare nelle vene e ferro affilato nel pugno, perciò investì i guadagni in nuove galee, armi e uomini. Pagò i soldati siciliani e catalani che si erano uniti a lui e ne arruolò degli altri. Poi acquistò altre quattro galee, ben armate ed equipaggiate. Con una flotta di cinque galee, guidate dall’ammiraglia Oliveta, si diresse nuovamente in Puglia, la sua terra, solcando i mari che fin da bambino, quando era un mozzo imbarcato sulla nave dei templari, aveva imparato a conoscere. Catturò altre navi angioine, grandi e cariche di bottino, continuando ad ampliare e rinforzare la nuova Compagnia Catalana, che a quel punto cominciava a divenire una forza militare molto influente nello scacchiere politico del sud Italia di inizio XIV secolo. “fu infinito il suo guadagno, e fu immenso il bene che fece a Messina e a Reggio e a tutto il circondario”.
Tali erano le disponibilità economiche del pirata Ruggero da Fiore, che poté comprare 50 destrieri da guerra da affidare a scudieri catalani e aragonesi, al fianco di 5 cavalieri della piccola nobiltà spagnola che si misero alle sue dipendenze, arricchendo la compagnia di Almogavari di un reparto di cavalleria di tutto rispetto. Era stimato in Sicilia, poiché pagava bene e pagava subito. I suoi seguaci, infatti, valevano il doppio degli altri in quanto a valore e fedeltà.
Ramon Muntaner riserva belle parole per il figlio del falconiere di Federico II, descrivendo la sua scalata al successo come frutto indiscusso di straordinarie capacità e generosità verso gli uomini. Ma altri cronisti, che supportavano la causa dei templari derubati del loro tesoro (e che ancora gli davano la caccia!) usavano tutt’altre parole:
“Arricchitosi in Acri in mezzo alle sventure dei fratelli, cacciato dal gran maestro dell’Ordine per misfatti e per invidie, scomunicato per giunta, non si perse d’animo, e poiché ricusò per scrupolo i suoi servigi Roberto di Napoli, li offerse Ruggero a Federigo che li accettò come quegli che di scomuniche non pativa a quell’ora penuria. Così corseggiando e spogliando amici e nimici, avido d’oro e di fama, rifece le perdute dovizie. Prodigo, dissipatore, rapace, avea menato grido di sè fra l’oste siciliana…”
Cronache catalane del secolo XIII e XIV, una di Raimondo Muntaner, l’altra di Bernardo d’Esclot. Prima traduzione italiana di Filippo Moisè
Detrattori a parte, la sua influenza militare e politica fu evidente, poiché venne nominato vice ammiraglio di Sicilia e membro del consiglio del re, guadagnando i castelli di Tripi, Alicata e, stando al resoconto, godette pure delle rendite di Malta, appena strappata dagli angioini ed entrata a far parte del dominio aragonese.
“E il signore re, vedendo il suo valore, lo fece vice ammiraglio di Sicilia e membro del suo consiglio, e gli diede i castelli di Tripi e di Alicata e le rendite di Malta. E fratello Ruggero, vedendo l’onore conferitogli dal re signore, lasciò con lui la sua compagnia di cavalli e lasciò, come loro capi, due cavalieri, uno chiamato En Berenguer de Montroig, un catalano, e l’altro messer Roger de la Matina ; e lasciò loro del denaro per il loro mantenimento e per ciò di cui avrebbero avuto bisogno. E prese congedo dal Signore Re, e venne a Messina, equipaggiò cinque galee e un legno, e procedeva a perlustrare tutto il Principato e la sponda romana, e la spiaggia di Pisa e Genova e della Provenza e della Catalogna e della Spagna e della Barberia. E tutto ciò che trovava, di amico o nemico, in monete o beni di valore, che poteva mettere a bordo delle galee, lo prese. E, agli amici, scrisse una nota del suo debito e disse loro che, quando fosse stata fatta la pace, li avrebbe pagati; e, dai nemici, prese tutto il valore che trovò, ma lasciò loro i loro soldi e la loro vita, perché non ha ferito la persona di nessuno. E così tutti si separarono da lui soddisfatti e fece in quel viaggio un guadagno infinito, in oro e argento e beni preziosi, quanto potevano portare le galee.”
Insignito della nuova carica, lasciò gran parte della Compagnia Catalana sulla terra ferma per servire il re aragonese, e s’imbarcò con cinque galee e un legno (presumibilmente un’imbarcazione da trasporto qualsiasi) per solcare i mari costieri d’Italia e di Francia e di Spagna, cacciando e depredando: “tutto ciò che trovava, di amico o nemico, in monete o beni di valore, che poteva mettere a bordo delle galee, lo prese.”
Le sue scorrerie, però, non finivano mai nel sangue. Il cronista ci racconta che Ruggero da Fiore non feriva mai nessuno, evitando perfino di derubare i semplici marinai che lo incontravano via mare: limitandosi, quindi, al carico e ai beni preziosi. In breve tempo divenne un prezioso alleato per il re aragonese. Inoltre, nel corso dell’assedio di Messina del 1301, quando la città fu attaccata per via terra e via mare da Roberto d’Angiò, Ruggero da Fiore si dimostrò indispensabile.
“E così, con questo guadagno, tornò in Sicilia, dove tutti i soldati, a cavallo e fanti, lo attendevano come gli ebrei fanno con il Messia. E venuto a Trapani, seppe che il duca aveva marciato contro Messina e la assediava per mare e per terra, ma fratello Ruggero andò a Siracusa e vi smantellò le sue galee. E dovunque lo attendevano i soldati, pieno di fiducia, procedeva a soccorrerli, perché ad ogni uomo, cavallo o fante, trovava a guardia di un castello in Sicilia e in Calabria, pagava altri sei mesi; sicché tutti i soldati erano così pieni di buona volontà che uno valeva fino a due. E poi mandò subito a chiamare la sua compagnia e similmente la pagò e mandò al Signore Re ea tutte le famiglie ricche un grande ristoro di denaro.”
Tornato in Sicilia, e saputo dell’assedio alla città di Messina, Ruggero da Fiore radunò la sua compagnia di soldati che “lo attendevano come gli ebrei fanno con il Messia”. E si preparò all’impresa che lo consacrò nell’Olimpo degli eroi medievali.
CXCVI Come Messina, essendo sul punto di essere abbandonata per carestia, fu ravvivata da Fratello Roger con dieci galee cariche di grano; onde il duca dovette levare l’assedio il giorno seguente e ritornare a Catania.
“E così l’assedio durò tanto, che Messina fu sul punto di essere abbandonata, per carestia, sebbene il signore re vi entrasse due volte, e ogni volta vi desse più di diecimila bestie cariche di frumento e di farina, e molto bestiame; ma tutto questo era come un nulla, perché il grano portato dalla terra non vale nulla, perché la compagnia e la cavalleria che l’accompagnano, ne hanno già mangiato molto al loro ritorno, e così la città fu molto angosciata. E fratello Ruggero che sapeva questo, aveva sei galee in Siracusa e ne comprò quattro che erano a Palermo e Trapani, appartenenti ai Genovesi; e così aveva dieci galee e le caricò di frumento a Sciacca e venne a Siracusa e aspettò un forte vento di sud-est o di mezzogiorno. E quando venne, era così forte, che tutto il mare era in subbuglio; nessun uomo che non fosse così bravo marinaio avrebbe osato pensare di salpare da Siracusa come faceva al calar della notte.”
L’assedio aveva gettato la città di Messina nella carestia più nera. Federico III d’Aragona era riuscito a forzare il blocco e portare per ben due volte il grano via terra, “più di diecimila bestie cariche di frumento e di farina, e molto bestiame”, ma lo sforzo non diede seguito ad alcun risultato tangibile, poiché “il grano portato dalla terra non vale nulla”, considerato, come ci dice il cronista, che la compagnia e la cavalleria che accompagnavano simili convogli ne mangiavano la gran parte durante il viaggio.
Ruggero da Fiore aveva sei galee a Siracusa, e per aiutare i messinesi ne acquistò altre quattro dai genovesi a Palermo e Trapani, riempiendole di grano e provviste. Con le dieci galee, sottili, veloci, e bene armate, attese un forte vento di sud-est, o di mezzogiorno: un vento così forte che, quando soffiava, tutto il mare di Siracusa era in subbuglio e nessun uomo che non fosse bravo marinaio osava salpare. Lui salpò lo stesso e, per aggiungere difficoltà alla già pericolosissima situazione, lo fece di notte.
“All’alba era a Boca del Faro. È la più grande meraviglia del mondo come sia sopravvissuto a Boca del Faro, perché quando c’è un vento da sud-est o un vento da sud, le correnti sono così grandi e il mare è così alto che nulla può resistere. Ma lui, la sua stessa galea in testa, procedette ad entrare con le grandi vele latine spiegate e ammainate. E quando le galere del duca li videro, tutti si misero a gridare; volevano alzare le ancore, ma non potevano farlo. E così le dieci galee con fratello Roger entrarono a Messina sani e salvi, ma non c’era un uomo che avesse un punto asciutto.”
All’alba raggiunse “Boca del Faro”, dove le correnti sono così grandi e il mare così alto che nulla può resistere. Ma Ruggero da Fiore, nonostante il famigerato vento da sud-est, con la sua galea in testa guidò le dieci navi dalle vele latine in mezzo alla tempesta. Quando gli uomini di Roberto d’Angiò videro quei temerari passar loro davanti, cominciarono a gridare, ma non alzarono le ancore per andar loro incontro. Perché il mare era grosso e nessuno di loro se la sentiva di affrontarlo.
Ruggero da Fiore forzò il blocco navale ed entrò nel porto di Messina con le sue dieci galee, sopravvissute alla tempesta, e “non c’era un uomo che avesse un punto asciutto.”
“E appena fu a Messina, Fratello Ruggero vendette il grano a trenta reali d’argento la tonnellata, che gli era costata oltre sessanta reali d’argento, oltre le spese, e l’avrebbe venduto a dieci onze la salma se avesse desiderato. E così Messina si rianimò e il giorno dopo il Duca sollevò l’assedio e tornò a Catania. E così puoi capire se i signori del mondo debbano disprezzare qualcuno; vedete quale servizio rese questo nobile al Signore Re di Sicilia, il quale, nella sua cortesia, lo accolse bene; e che disservizio fece al Duca per la cattiva accoglienza che gli aveva dato.”
Ruggero da Fiore vendette il grano a trenta reali d’argento la tonnellata, nonostante gli fosse costato il doppio, a parte le spese. Se avesse desiderato, l’avrebbe venduto a una cifra ben maggiore. Ma il suo gesto permise alla città di Messina di rianimarsi, per resistere all’assedio.
Ramon Muntaner, l’autore della cronaca catalana, ci spiega così come il più disprezzato dai signori del mondo, ovvero dai templari, fosse in realtà un nobile signore che rese grandi servigi al sovrano benevolo che fu in grado di accoglierlo (Federico III d’Aragona), e che invece si dimostrò una spina nel fianco di colui che lo aveva disprezzato (Roberto d’Angiò).
CXCIX
Come fratello Ruggero iniziò a trattare del passaggio in Romania e mandò messaggeri all’imperatore di Costantinopoli per fargli sapere che era pronto ad andare lì con i catalani e che l’imperatore doveva sposarlo con la nipote dell’imperatore Lantzaura e doveva farlo Granduca; tutto ciò è stato concesso dall’imperatore.
“E mentre si faceva questa grande festa e tutti facevano festa, fratello Ruggero era pieno di pensieri, pensando a cosa avrebbe fatto in seguito, ed era l’uomo più saggio del mondo per preveggenza. Rifletteva così:-“Questo signore è perduto per noi e vedo che non potrà dare nulla ai catalani e agli aragonesi e gli saranno di grande intralcio. Sono come tutti gli uomini e non possono vivere senza mangiare e bere; e così, senza ottenere nulla dal Signore re, osserveranno una quaresima forzata, e alla fine distruggeranno tutto il paese e moriranno tutti uno dopo l’altro.E quindi è necessario, poiché abbiamo servito così a lungo il Signore Re, che ci ha mostrato tanto onore, che io lo liberi da questo popolo, per il suo onore e per il vantaggio di tutti loro”.
Ruggero da Fiore, dopo esser stato nominato vice ammiraglio da Federico III d’Aragona, re di Sicilia, e dopo l’eroica impresa dell’assedio di Messina, aveva raggiunto un tale livello di potere politico-militare, che la sua Compagnia Catalana (che comprendeva soldati, cavalieri e perfino una flotta di una decina di navi), necessitava di risorse ingenti per il suo mantenimento. Tali esigenze, nel caso in cui fossero venute a mancare le risorse, avrebbero portato a una ribellione. Poiché i soldati sono fatti così, e Ruggero lo sapeva bene. Per questo, decise di agire d’anticipo.
“E così pure pensò tra sé, che non gli gioverebbe trattenersi in Sicilia; che, siccome il signore re era in pace con la Chiesa, e siccome il re Carlo e il duca lo odiavano tanto, il maestro de’ Templari potesse reclamarlo del papa; e che il signore re avrebbe dovuto fare una di queste due cose: o avrebbe dovuto obbedire al Papa e consegnarglielo, o avrebbe ricominciato la guerra, e si sarebbe pentito che il signore re avesse ricevuto un simile affronto attraverso lui. E dopo aver considerato tutto questo, il che era vero, andò dal Signore Re e lo condusse in una camera e gli raccontò tutte queste cose che aveva considerato, e quando le ebbe raccontate, disse: «Signore, io ho pensato che, se lo desideri e mi assisti, io, in questa materia, assisterò te e tutti coloro che hanno servito te e anche me». E il Lord Re disse che gli piaceva molto e che gli era molto grato per ciò che aveva deciso, e lo pregava di provvedere in modo tale che fosse irreprensibile nella questione e che fosse a vantaggio di quelli chi lo aveva servito; e che era pronto e preparato a dare tutto l’aiuto che poteva.”
Ruggero da Fiore confidò le sue preoccupazioni al sovrano aragonese, raccontando soprattutto la sua paura più grande: ovvero che l’ordine dei templari si facesse avanti per reclamare la sua testa. Poiché il regno di Sicilia, dopo la pace di Caltabellotta del 31 agosto 1302, era ormai in pace con la Chiesa e con il papa (oltre che con il nemico angioino), e quindi il maestro del Tempio avrebbe potuto chiedere a Federico III di consegnargli Ruggero, scomunicato e accusato d’aver rubato il tesoro dei templari. A una simile richiesta, il sovrano aragonese si sarebbe trovato in difficoltà, poiché avrebbe dovuto consegnare il suo vice ammiraglio, nonché condottiero della Compagnia Catalana, per non incorrere in una nuova guerra con la Chiesa.
Re Federico comprese le preoccupazioni di Ruggero da Fiore, e gli disse che qualunque cosa avesse in mente di fare per risolvere la questione, avrebbe ricevuto la benedizione di Dio e l’aiuto del regno di Sicilia. Cosa che, probabilmente, era proprio quello che desiderava Ruggero. Poiché nella sua mente aveva già pianificato la sua prossima mossa: l’inizio di un’avventura che avrebbe segnato il suo destino e quello della Compagnia Catalana.
“Allora, Signore”, disse fratello Ruggero, “con il tuo permesso, manderò due cavalieri con una galea armata dall’imperatore di Costantinopoli e gli farò sapere che sono pronto ad andare da lui con una grande compagnia di cavalli e fanti, tutti catalani e aragonesi, come vuole, e che ci dia la paga e tutto il necessario; che so che ha grande bisogno di questi aiuti, perché i turchi gli hanno preso una terra dell’estensione di trenta giorni di viaggio; e non poteva fare tanto con nessun popolo quanto con catalani e aragonesi, e specialmente con coloro che hanno condotto questa guerra contro re Carlo. E il signore re rispose: «Fratello Ruggero, tu sai di più in queste cose di noi; tuttavia ci sembra che la tua idea sia buona, e quindi ordina ciò che ti piace, saremo ben soddisfatti di ciò che ordini. E su questo fratello Ruggero baciò la mano del re e si allontanò da lui e andò al suo alloggio dove rimase tutto quel giorno a sistemare le cose. E il Signore Re e gli altri assistevano alla festa e ai divertimenti e alle distrazioni.”
Ruggero da Fiore doveva aver pensato molto alla richiesta da porre al sovrano aragonese, poiché il suo piano risultava programmato fin nel minimo dettaglio. Egli intendeva dimettersi dall’incarico che portava avanti nell’ormai riappacificata Sicilia, per presentarsi all’imperatore di Costantinopoli, Andronico II Paleologo, con la sua grande Compagnia Catalana “di cavalli e fanti, tutti catalani e aragonesi”, che stando alle stime del cronista si aggirava sui 4.000 uomini. Si diceva, infatti, che l’Impero Romano d’Oriente combattesse una sanguinosa guerra contro i turchi, i quali si erano già impossessati di molte terre e minacciavano di spingersi oltre, preannunciando quello che avrebbero fatto gli ottomani, più di un secolo dopo.
Ruggero da Fiore, quindi, mirava a inserirsi nel ricchissimo impero dei bizantini con la promessa di contribuire alla causa, forte della fama che la Compagnia Catalana si era guadagnata in tutto il Mediterraneo, fra scorrerie, battaglie navali e assedi. In cambio, chiedeva la giusta ricompensa in moneta d’oro, ma non solo. Le ambizioni di Ruggero puntavano molto in alto…
“E quando venne il giorno dopo, fece equipaggiare una galea e chiamò due cavalieri di cui si fidava, e raccontò loro tutto ciò che aveva progettato; e disse anche loro che, soprattutto, avrebbero dovuto fare un trattato con il quale avrebbe ottenuto, in moglie, la nipote dell’imperatore di Lantzaura,144 e anche che sarebbe stato fatto Granduca dell’Impero; e ancora, che l’imperatore pagasse quattro mesi a tutti coloro che avrebbe portato, in ragione di quattro once al mese a ciascun cavaliere armato e un’oncia al mese a ciascun uomo a piedi. E che li tenesse a questa paga per tutto il tempo che desideravano rimanere, e che trovassero la paga a Monemvasia. E fratello Ruggero diede loro gli articoli di tutto questo, così come di queste cose come di tutto quello che dovevano fare. E lo so, poiché io stesso ero presente a dettare e ordinare questi articoli. E diede loro potere, con un permesso adeguato, di firmare tutto per lui, tanto sul matrimonio quanto su altre faccende. E certo i cavalieri erano degni e saggi, e udito il disegno, pochi articoli sarebbero bastati loro; tuttavia tutto è stato fatto in ordine regolare.”
Ruggero da Fiore fece equipaggiare una galea della sua flotta e la mandò a Costantinopoli, dall’imperatore, affidando l’incarico d’ambasceria a due suoi cavalieri che avrebbero dovuto esporre la proposta e definire il compenso: quattro mesi di paga per ogni soldato della Compagnia Catalana, da mantenere per tutto il tempo in cui sarebbero rimasti al servizio dell’Impero, nella misura di un’oncia d’oro per i fanti e quattro per i cavalieri.
A redigere gli articoli del contratto vi era lo stesso autore della cronaca, Ramon Muntaner, il quale, da quel momento in poi, accompagnò Ruggero da Fiore nella sua avventura a Oriente. La spinta per intraprendere un simile viaggio, però, non era solo l’oro, ma il potere politico vero e proprio. Poiché tra le richieste avanzate all’imperatore, fu inserito pure un matrimonio: il condottiero della Compagnia Catalana voleva la mano di Maria, figlia della sorella dell’imperatore, Irene, e di Giovanni Asen III di Bulgaria (nella cronaca, Ramon Muntaner fa un po’ di confusione con le parentele. Lantzaura è la traduzione di “Azan” o “Asen”, una storica dinastia bulgara).
Tramite l’importante sposalizio, Ruggero da Fiore mirava a imparentarsi con l’imperatore, ma le richieste non erano finite qui. Chiese anche che gli venisse riconosciuta una carica ufficiale all’interno della gerarchia militare romana, col titolo di Granduca (megadux). Ambizioni che sembrano quasi esagerate ma che, all’atto pratico, erano basate su una concreta promessa: quella del ferro affilato e del sangue. Se l’Imperatore voleva liberarsi dei turchi, aveva bisogno dei soldati di Ruggero da Fiore. Ed è per questo che, nonostante le richieste apparentemente esagerate, accettò volentieri la sua proposta.
Proprio come aveva previsto, Ruggero si trovò spianata la strada verso una nuova impresa e un destino di guerra e gloria. Anche se, come scoprirà egli stesso, la corte dell’imperatore bizantino era un luogo colmo di insidie, all’interno del quale non basta saper menare di spada per sopravvivere…
“Con ciò, quando furono pronti, si congedarono da fratello Ruggero che considerava il fatto concluso, perché grande era la sua fama nella Casa dell’Imperatore, da quando era al comando della nave dei Templari chiamata Falcone, quando aveva fatto molti favori alle navi dell’imperatore che incontrava al di là dei mari, e conosceva molto bene il greco. E così, similmente, era molto rinomato in Romania e in tutto il mondo per l’aiuto che aveva dato così liberamente al Signore Re di Sicilia, e così poté provvedere molto pienamente ai suoi seguaci. Così En Berenguer de Entenza, con cui aveva giurato fratellanza, promise di seguirlo, e anche En Ferran de Ahones e En Corberan de Alet e En Martin de Logran, e En Pedro de Aros e En Sancho de Aros e En Berenguer de Rocafort e molti altri Cavalieri catalani e aragonesi; e degli almugavar ben quattromila, tutti esperti, che dal tempo del signore re En Pedro fino a quel giorno avevano condotto la guerra in Sicilia. Era molto allegro e aiutava tutti nel frattempo per quanto poteva; non li ha lasciati senza nulla.
E la galea andò così veloce che, in breve tempo, fu a Costantinopoli dove trovò l’imperatore, Skyr Andronico e il suo figlio maggiore, Skyr Miqueli. E quando l’imperatore ebbe udito il messaggio, fu molto gioioso e contento e ricevette bene i messaggeri e, alla fine, la cosa si verificò come aveva dettato fratello Ruggero; l’imperatore desiderava che fratello Ruggero avesse in moglie sua nipote, figlia dell’imperatore di Lantzaura. Fu subito fidanzata con uno dei cavalieri per fratello Ruggero.”
Salpata la galea d’ambasciata, Ruggero da Fiore era certo che l’accordo si sarebbe concluso in suo favore. Poiché la fama della Compagnia Catalana era diffusa in tutto il Mediterraneo, e il prestigio stesso del suo condottiero era rinomato alla corte dell’imperatore, fin da quando Ruggero era un fratello sergente dell’Ordine dei Templari, e veleggiava con la nave più grande del tempo, il “Falcone”. Spesso, con la nave del Tempio, aveva dato aiuto alle navi romane che incontrava lungo la rotta per la Terra Santa, diventando celebre fra i bizantini come i valacchi di Romania.
Per questo, vari signori catalani e aragonesi decisero di seguire il condottiero italiano nella sua nuova impresa contro il nemico saraceno. Berenguer de Entenza, Ferran de Ahones, Corberan de Alet, Martin de Logran, Pedro de Aros, Sancho de Aros, Berenguer de Rocafort e molti altri cavalieri che non vengono nominati, assieme a 4.000 almogaveri, tutti esperti soldati, fedelissimi al loro condottiero, e ansiosi di menar le mani.
La galea andò così veloce che, in breve tempo, raggiunse Costantinopoli. L’imperatore, come immaginava Ruggero, accettò la proposta subito, e di buon grado. Il contratto venne firmato e sua nipote Maria venne promessa al condottiero della Compagnia Catalana.
“Quindi Skyr Andronico concordò che tutta la compagnia che fratello Ruggero avrebbe portato fosse al soldo dell’Imperatore; quattro once per ogni cavallo armato e una oncia per ogni uomo a piedi, e quattro once per ogni nostromo e una oncia per ogni timoniere, e venti reales d’argento per ogni balestriere e venticinque reales d’argento per ogni marinaio di prua; e dovrebbero essere pagati ogni quattro mesi. E se, in qualsiasi momento, c’era qualcuno che volesse andare a ovest, che il conto fosse fatto secondo l’accordo e che fosse pagato e permesso di tornare, e ricevesse una paga per due mesi mentre tornava; e che fratello Ruggero sia fatto Granduca di tutto l’Impero. E Granduca è un titolo che significa lo stesso principe e signore su tutti i soldati dell’Impero, con autorità sull’ammiraglio; e tutte le isole della Romania gli sono soggette ed anche tutti i luoghi sulle coste marittime.
E l’imperatore mandò la carta del suo titolo di Granduca a Frey Ruggero in un bel cofanetto d’oro, firmato da lui e dai suoi figli, e gli mandò il testimone dell’ufficio e lo stendardo e il cappello (tutti i funzionari della Romania hanno un cappello speciale come nessun altro uomo può indossare). E così allo stesso modo concesse che avrebbero trovato una paga a Monemvasia e di tutto ciò di cui avrebbero avuto bisogno all’arrivo.”
L’imperatore suggellò il contratto con Ruggero da Fiore, accordandogli la nomina di Granduca: titolo che, stando alle parole del cronista, stava a significare “principe e signore su tutti i soldati dell’Impero, con autorità dell’ammiragliato, e tutte le isole della Romania e i luoghi delle coste marittime”. Il contratto cartaceo, firmato da lui e dai suoi figli, fu mandato via galea in un bel cofanetto d’oro, scortato da un testimone dell’ufficio imperiale, con lo stendardo imperiale e un cappello come lo portavano i funzionari di Romania.
CC “Come i messaggeri di fratello Ruggero tornarono da Costantinopoli a Messina con ogni successo e tutte le sovvenzioni; e fu fatto granduca di tutta la Romania, e come il signore re Federico di Sicilia gli fece dare dieci galee e due legni, e lo aiutò con denaro e gli fornì viveri.
E così, gioiosi e contenti, i messaggeri tornarono in Sicilia con tutto firmato, e trovarono fratello Ruggero ad Alicata e gli raccontarono tutto quello che avevano fatto e gli diedero le concessioni di tutto, e il bastone e il cappello e lo stendardo e il sigillo di la carica di Granduca. E d’ora in poi sarà chiamato Granduca.
E quando il granduca ebbe ricevuto tutto, andò dal signore re, che trovò a Palermo con mia signora regina, e poi gli raccontò tutto della cosa. E il signore re ne fu molto gioioso e, incontinente, gli fece dare dieci galee del cantiere e due leny, e le fece riparare e allestire per lui. E già il granduca ne aveva otto, e così ne aveva diciotto e due leni; e poi imbarcò tre grandi navi e molte terides e più lenys, e mandò a dire da tutte le parti che tutti quelli che dovevano andare con lui venissero a Messina. E il Signore Re assisteva tutti quanto poteva col denaro e dava a ciascuno, uomo, donna e bambino, che andava col Granduca, catalano o aragonese che fosse, un quintale di biscotti e cinque formaggi, e ogni quattro persone una pancetta di carne salata e anche aglio e cipolle.”
Federico III d’Aragona fu felicissimo di liberarsi di Ruggero da Fiore. Poiché il potere del templare rinnegato, partito da fanciullo come semplice mozzo e diventato, ora, Granduca, era ormai alle stelle. Il re sovvenzionò la spedizione della Compagnia Catalana con altre dieci galee e due legni (navi generiche, da trasporto), denaro e viveri. In totale, la flotta arrivò quindi a comprendere 20 navi: 18 galee da guerra e due imbarcazioni da trasporto. Oltre a queste ne furono radunate molte altre, col proclama diffuso in tutta l’isola che il vice ammiraglio, Ruggero da Fiore, stava per partire, e che chiunque volesse andare con lui (uomo, donna o bambino) si trovasse a Messina, bene assistito e ricompensato con denaro, biscotti, formaggi, pancetta e carne salata, aglio e cipolle.
Insomma, il re di Sicilia voleva chiaramente far sloggiare tutti gli almogaveri dall’isola, il più alla svelta possibile.
CCI “Come Fratello Ruggero, Granduca di Romania, si congedò dal Signore Re di Sicilia e passò in Romania con duemilacinquecento cavalieri armati e cinquemila almugavar e fanti.
Così tutti si imbarcarono con le loro mogli e figli, molto gioiosi e soddisfatti del Signore Re; non c’è mai stato un signore che si sia comportato più generosamente di lui con le persone che lo avevano servito, per quanto poteva e anche al di sopra del suo potere. Tutti possono sapere che il Signore Re non aveva tesori; era uscito da guerre così grandi che non gli era rimasto più niente. E così, similmente, i ricchi homen e cavalieri si imbarcavano, e i cavalieri e cavalieri avevano doppia razione su di tutto. Ma En Berenguer de Entenza non poteva essere pronto in quella stagione, né En Berenguer de Rocafort. En Berenguer de Rocafort aveva due castelli in Calabria ai quali non avrebbe ceduto in pace finché non fosse stato pagato quanto gli era dovuto della sua paga e di quella della sua compagnia, per cui non poté imbarcarsi così presto. Ma si imbarcarono En Ferran Ximeno de Arenos e Ferran de Ahones e En Corberan de Alet e En Pedro de Aros e En Pedro de Logran e molti altri cavalieri, capi e almugavar. E così, quando furono imbarcati, c’erano, fra galee e legni e navi e teridi, trentasei vele; e c’erano millecinquecento cavalieri, secondo com’era scritto, attrezzati di tutto tranne che di cavalli. E c’erano quattromila almugavar e mille uomini a piedi senza i galeotti e i marinai che appartenevano alla spedizione. E tutti questi erano catalani e aragonesi e la maggior parte portavano le loro mogli o le loro amanti ei loro figli. E così presero congedo dal Signore Re e partirono da Messina a un’ora conveniente con grande allegria e contentezza.”
Il re aragonese riuscì a svuotare l’isola con lauti pagamenti e incentivi alimentari. La Compagnia Catalana salpò da Messina con trentasei navi, fra galee, teridi, navi da trasporto e legni generici. 1.500 cavalieri s’imbarcarono senza destrieri (forse perché non vi era spazio?), anche se poco sopra, nel testo, il numero dei cavalieri viene indicato di 2.500. I soldati a piedi erano in totale 5.000: tra almogaveri, catalani e aragonesi, seguiti da mogli, amanti e figli: tutti ben pagati per i quattro mesi a venire, con un soldo superiore alla media delle compagnie mercenarie che attraversavano l’Europa medievale in quel periodo.
CCII “Come il Granduca sbarcò a Monemvasia e passò a Costantinopoli, dove fu ben accolto dall’Imperatore e da suo figlio; e come catalani e genovesi ebbero una lite in cui furono uccisi ben tremila genovesi.
Allora Dio diede loro il bel tempo e in pochi giorni sbarcarono a Monemvasia e lì trovarono coloro che mostravano loro grande onore, e ricevettero grande ristoro di ogni cosa. E vi trovarono un ordine dell’imperatore di andare direttamente a Costantinopoli, e così fecero.
Lasciarono Monemvasia e andarono a [sett. 1303] Costantinopoli. E quando furono a Costantinopoli, gli Imperatori, il padre e il figlio, e tutto il popolo dell’Impero, li accolsero con grande gioia e grande piacere. Ma, se questi erano contenti del loro arrivo, i genovesi se ne dispiacevano. Videro bene che se queste persone fossero rimaste lì, avrebbero perso loro stessi l’onore e il potere che avevano nell’Impero; che l’imperatore non aveva osato fare altro che ciò che desideravano, ma che d’ora in poi li avrebbe disprezzati.”
Ruggero da Fiore con l’intera Compagnia Catalana sbarcò a Malvasia, in Grecia, dove fu accolto con grandi onori, e da lì proseguì per Costantinopoli, giungendo a destinazione nel settembre del 1303. Tuttavia, appena entrato alla corte dell’imperatore, qualcuno già tramava contro di lui: i genovesi. Poiché la corte romana d’Oriente era assalita non solo dai nemici turchi, ma dai cosiddetti “alleati”. Genovesi, veneziani, franchi: tutti intenti a divorare le ricchezze bizantine tramite i loro interessi commerciali, un pezzetto alla volta, favorendo il declino di un impero ormai prossimo al tracollo.
“Cosa devo dirti? Le nozze furono celebrate, il Granduca prese in moglie la nipote dell’Imperatore, che era una delle belle e dotte damigelle del mondo e aveva circa sedici anni; e le nozze furono celebrate con grande gioia e contentezza e ciascuno ricevette la paga per quattro mesi. Ma mentre questa festa era grande, alcuni Genovesi, con la loro arroganza, fecero una rissa co’ Catalani; è stata una grande battaglia. E un uomo malvagio, chiamato Roso de Finar, portò lo stendardo dei Genovesi e venne davanti al palazzo di Blanquerna; e i nostri almugavar ei marinai uscirono contro di loro, e anche il Granduca ei ricchi homen ei cavalieri non potevano trattenerli; e uscirono con un pennone reale portato davanti a loro e con loro andarono solo una trentina di scudieri e cavalli leggeri. E quando si avvicinarono l’uno all’altro, i trenta scudieri procedettero all’attacco; e attaccarono dov’era lo stendardo e abbatterono Roso de Finar a terra e gli almugavar si lanciarono in mezzo a loro.
Cosa devo dirti? Vi furono uccisi questo Roso e più di tremila Genovesi; e l’Imperatore vide tutto questo dal suo palazzo e ne ebbe grande gioia e contentezza. Disse anzitutto: «Ora i genovesi, che si sono comportati con tanta prepotenza, hanno trovato la loro corrispondenza; e i catalani avevano ragione, colpa dei genovesi”.
Le nozze con Maria, sedicenne, “una delle belle e dotte damigelle” bizantine, si conclusero con un bagno di sangue. Poiché i genovesi, che all’arrivo della Compagnia Catalana videro assottigliarsi il proprio dominio sull’impero, tentarono di sbarazzarsi dei nuovi arrivati con un colpo di mano: attaccarono gli almogaveri davanti al palazzo delle Blacherne, sede della corte imperiale, guidati da Rosso de Finar, con lo stendardo di Genova in pugno. La Compagnia Catalana, però, reagì con violenza, guidata dalla carica di 30 scudieri a cavallo che si riversò contro lo stendardo genovese, abbattendo il condottiero nemico.
Gli almogaveri di Ruggero da Fiore si misero quindi all’inseguimento dei genovesi, spingendosi fin nel loro quartiere fortificato, Pera (galata), ammazzando e saccheggiando. Il cronista stima perdite per 3.000 uomini, in quella vicenda che alcuni storici chiamano strage dei genovesi. L’imperatore, però, chiese a Ruggero di fermare i suoi almogaveri, perché nel quartiere genovese erano conservate le ricchezze dell’intera città. Il granduca italiano ascoltò le sue parole e richiamò i soldati.
“E quando lo stendardo dei genovesi fu in terra e Roso e altri personaggi importanti furono uccisi, gli almugavar, impegnati nell’uccisione dei loro nemici, vollero andare a depredare Pera, che è una città prescelta dei genovesi, in cui sono tutti il loro tesoro e merce. Ma su ciò, quando l’imperatore vide che andavano a depredare Pera, chiamò il Granduca e gli disse: «Figlio mio, va’ dal tuo popolo e fallo tornare indietro; se saccheggiano Pera l’Impero è distrutto, perché i Genovesi hanno gran parte della nostra proprietà e di quella dei baroni e dell’altro popolo del nostro Impero. E subito il Granduca montò a cavallo e, mazza alla mano, con tutti i ricchi patrizi e cavalieri che erano venuti con lui, andò verso gli almugavar, che già si preparavano a demolire Pera, e li fece tornare indietro . E così l’imperatore fu molto contento e gioioso.
E il giorno dopo fece dare a tutti più paga e ordinò a tutti di prepararsi a recarsi a Boca Daner e ad attaccare i Turchi, i quali, in quel luogo, avevano sottratto all’imperatore terre per più di trenta giorni di viaggio, percorse con buone città e paesi e castelli che avevano sottomesso e che gli rendevano omaggio. E anche, che è una vergogna maggiore, se un turco voleva sposare la figlia dell’uomo più importante in una di queste città o paesi o castelli che avevano conquistato, i suoi genitori o amici dovevano dargliela in moglie. E quando nascevano i bambini, se erano maschi, li facevano turchi e li facevano circoncidere come se erano saraceni; ma se fossero femmine, potrebbero seguire la legge che vogliono. Vedete in quale dolore e sottomissione essi erano, con grande disgrazia di tutta la cristianità. Perciò puoi ben vedere quanto fosse necessario che quella compagnia andasse là. E per di più i Turchi avevano fatto in verità tali conquiste, che un loro esercito venne di fronte a Costantinopoli; non c’era più di un braccio di mare, largo meno di due miglia, tra loro e la città, e sguainarono le spade e minacciarono l’imperatore, e l’imperatore poté vederlo tutto.
Immagina con quale dolore lo vide. Se avessero potuto attraversare questo braccio di mare, avrebbero preso Costantinopoli.”
Complimentandosi con Ruggero da Fiore e la sua Compagnia Catalana, l’imperatore romano chiese di concentrarsi sul vero nemico, la ragione per la quale aveva assoldato un’armata così agguerrita e sanguinaria: i turchi. Costoro avevano conquistato Boca Daner (oggi lo Stretto di Gallipoli), insediandosi nelle città e nei castelli sottomessi, instaurando un regime religioso e costringendo le popolazioni alla conversione. L’imperatore, infatti, raccontò che, vergognosamente, i turchi chiedevano in sposa le figlie degli uomini importanti di quei luoghi e quando nascevano bambini, se erano maschi, “li facevano turchi e li facevano circoncidere come se erano saraceni”. Le femmine, invece, a quanto pare erano libere di fare quel che volevano.
I turchi erano ormai così vicini che fra loro e Costantinopoli si trovava solo un braccio di mare come separazione. L’imperatore stesso poté vedere coi propri occhi l’esercito nemico avvicinarsi alla costa, dall’altra parte dello stretto, con le spade sguainate. Era il momento che il nuovo granduca muovesse la sua armata, per liberare l’impero dalla sua più grande minaccia.
CCIII “Come il Granduca passò in Anatolia e sbarcò a Capo Artaqui all’insaputa dei turchi e li attaccò e liberò dalla prigionia tutto il paese da loro conquistato e svernò ad Artaqui.
E così, ecco che razza di popolo sono i Greci e come Dio sfogò su di loro la sua ira; poiché Skyr Miqueli figlio maggiore dell’imperatore, andò ad Artaqui con dodicimila cavalieri pieni e centomila a piedi, ma non osò combattere i turchi, così che dovette tornare con ignominia. E in quel luogo, Artaqui, dov’era stato e donde doveva tornare, l’imperatore mandò il granduca con la sua compagnia, che non era più di millecinquecento cavalli e quattromila a piedi.
E prima che partisse da Costantinopoli, il Granduca fece in modo che l’imperatore desse in moglie una sua parente a En Ferran de Ahones e lo facesse ammiraglio dell’Impero. E questo ordinò il granduca, perché i marinai che aveva condotto restassero nelle galee, e che i Genovesi o altro popolo non osassero muovere contro i Catalani in tutto l’Impero; ed anche, affinché, mentre penetrava nell’entroterra con l’ospite, le galee fossero in luoghi a lui noti, con vettovaglie e ogni ristoro. Ha ordinato l’intera questione così bene che nessuno poteva migliorarla in alcun modo. E così aveva anche, nelle galee, dalle isole e da altri paesi, e dalle coste tutto ciò di cui aveva bisogno per sé e per i suoi seguaci.”
Prima di salpare, Ruggero da Fiore si assicurò che il suo cavaliere e fratello d’armi Ferran de Ahones sposasse una parente dell’imperatore e fosse insignito del titolo di ammiraglio, in modo da controllare l’intera flotta romana e tenere a bada i genovesi, che avrebbero potuto tentare un nuovo attacco laddove erano davvero potenti: il mare. La Compagnia Catalana aveva bisogno di rotte sicure, continui sbarchi e approvigionamenti, perciò il mare doveva essere al sicuro, sotto il diretto controllo degli almogaveri e del loro condottiero.
“E quando tutto questo fu ordinato, presero congedo dall’imperatore e si imbarcarono e andarono a capo Artaqui, verso la terraferma, perché i Turchi volevano a tutti i costi avere quella penisola che è un luogo molto fertile. E tutta questa penisola è protetta verso terra da un muro, la cui linea di difesa non è più di mezzo miglio, da un mare all’altro. E poi, da quel collo in poi, la penisola è vastissima, ci sono più di ventimila frazioni e manieri e masserie. E i Turchi mi ebbero molte volte di demolire quel muro; poiché, se potessero demolirlo, potrebbero saccheggiare l’intera penisola. E così il Granduca con tutti i suoi seguaci vi sbarcò e i Turchi non ne sapevano nulla. E quando fu sbarcato, seppe che i turchi avevano combattuto lì quel giorno. Chiese se erano lontani e gli dissero che erano a circa due leghe di distanza e che erano tra due fiumi. E subito il Granduca fece ordinare che ogni uomo doveva essere pronto la mattina dopo a seguire lo stendardo. Ed è vero che portava il suo stendardo e quello dell’imperatore con la cavalleria, e gli almugavar portavano un pennone con le armi del signore re d’Aragona e un pennone con le armi di re Federico; e questo avevano convenuto di fare quando fecero omaggio al Granduca.”
La Compagnia Catalana sbarcò in Anatolia, nell’odierna Turchia, ad Artaki, situata nella penisola di Kapidag. Tale penisola è molto vasta e fertile, luogo che i turchi volevano conquistare a tutti i costi. Vi si trovavano all’interno numerosissimi insediamenti e castelli, protetti da una cinta muraria che divideva la penisola col resto dell’Anatolia, nello stretto braccio di terra ben difendibile. Lo stesso giorno in cui la compagnia era sbarcata, i turchi avevano provato ad assaltare le mura per entrare nella penisola e saccheggiarla. Dunque, il granduca decise di muovere contro di loro, innalzando il suo stendardo e quello dell’imperatore, le armi del signore d’Aragona di Spagna e la bandiera del regno di Sicilia di Federico III.
“Al mattino si alzarono con grande premura e allegria, così presto che, all’alba, furono presso il fiume dove erano accampati i Turchi con le loro mogli e figli; e procedevano ad assalirli in modo tale che i Turchi si meravigliavano di questa gente che dava tali colpi con i dardi che nulla poteva reggersi dinanzi a loro. Cosa devo dirti? La battaglia fu dura dopo che i turchi ebbero preso le loro armi, ma a che serviva? Il Granduca e la sua compagnia di cavalli e di fanti si gettarono su di loro in modo tale che i Turchi non potevano stare in piedi davanti a loro; eppure non fuggivano a causa delle loro mogli e dei loro figli che erano con loro e per i quali il loro cuore era dolente. Piuttosto sarebbero morti prima. Non ci sono mai stati uomini che hanno combattuto così bene, ma alla fine sono stati tutti fatti prigionieri con le loro mogli e i loro figli. E in quel giorno morirono dei Turchi più di tremila cavalieri e più di duemila a piedi. E così il Granduca ei suoi seguaci raccolsero il bottino e non lasciarono in vita nessuno che avesse più di dieci anni; e tornarono ad Artaqui con grande gioia e portarono nelle galere, gli schiavi e gioielli molto belli, di tutto ciò che mandarono la maggior parte all’imperatore, e le schiave dell’imperatrice e della figlia dell’imperatore. E a mia Signora, moglie del Granduca, furono inviate schiave e molti gioielli, come anche a tutti i ricchi patrizi e capi e almugavar, e a mia Signora, suocera del Granduca. E questo avvenne l’ottavo giorno dopo che si erano separati dall’imperatore.”
Il mattino dopo la Compagnia Catalana si mosse contro i turchi, fuori dalle mura che proteggevano la penisola di Kapidag, dove si erano accampati fra due fiumi, con le loro mogli e i bambini. Li attaccarono senza pietà, prima con i dardi, dai quali i nemici rimasero storditi, per poi assalirli con i cavalieri e i fanti, tutti assieme. I turchi combatterono bene, senza darsi per vinti, poiché vi erano le mogli e i figli con loro, e dunque morirono tutti quanti, in numero di 3000 cavalieri e 2000 fanti: fu un massacro.
Ruggero da Fiore raccolse il bottino e non lasciò in vita nessun uomo che avesse più di dieci anni. Tornarono ad Artaki e caricarono sulle galee bottino e schiavi, per spedirlo alla corte dell’imperatore e far meravigliare tutti della grande e immediata vittoria. L’ottavo giorno dopo la partenza da Costantinopoli, la Compagnia Catalana aveva già compiuto il primo sterminio e liberato una intera regione. Laddove, però, aveva fatto la felicità di alcuni, tale successo attirò le invidie e le malevolenze di molti altri, fra i quali si trovavano i genovesi e il figlio dell’imperatore stesso: Michele IX Paleologo.
“La gioia e l’allegria erano così grandi in tutto l’Impero, e specialmente in quello dell’Imperatore e di mia signora la suocera e di mia signora sua figlia, che tutto il mondo avrebbe dovuto rallegrarsi; ma, chiunque altro si rallegrava, i Genovesi erano molto addolorati. E così anche Skyr Miqueli, il figlio maggiore dell’imperatore, ne ebbe grande dispiacere e grande invidia, tanto che, da quel giorno, si arrabbiò con il Granduca e la sua Compagnia. Avrebbe preferito perdere l’Impero piuttosto che ottenere questa vittoria, perché era stato in quel luogo con così tanti seguaci ed era stato sconfitto due volte, sebbene lui stesso fosse uno dei cavalieri affermati del mondo. Ma Dio aveva mandato tanta pestilenza sui Greci che chiunque avrebbe potuto sconfiggerli.”
Michele IX Paleologo, figlio dell’imperatore Andronico II, era adirato con Ruggero da Fiore, poiché il condottiero italiano con la sua Compagnia Catalana aveva ottenuto un successo immediato nella regione dell’Anatolia laddove egli, il figlio dell’imperatore, aveva sempre fallito, più di una volta.
Michele era già stato ad Artaki e aveva combattuto i turchi per liberare la penisola, ma era stato sconfitto in maniera disonorevole. Infatti, ci racconta l’autore della cronaca, testimone oculare di tutto quel che avvenne nella grande avventura di Ruggero da Fiore e della sua Compagnia Catalana, che Michele avrebbe preferito perdere l’intero impero, piuttosto che essere umiliato dalle vittorie del nuovo venuto. Gelosie che il Signore Iddio non perdonava, poiché l’arroganza intrinseca dei greci bizantini “le persone più arroganti del mondo” attirava carestie e guerre che li avevano indeboliti, al punto che chiunque avrebbe potuto sconfiggerli.
“E questo avvenne a causa di due peccati cospicui a cui sono stati dati. Uno è che sono le persone più arroganti del mondo; non ci sono persone sulla terra che stimino e apprezzino, ma solo se stesse, eppure sono persone senza valore; l’altro è che sono le persone meno caritatevoli verso il prossimo che si possano trovare in tutti i tempi. Quando eravamo a Costantinopoli, le persone che erano fuggite dall’Anatolia a causa dei turchi, vivevano e giacevano tra i cumuli di rifiuti a Costantinopoli e gridavano che avevano fame, ma non c’era greco che avrebbe dato loro qualcosa per l’amor di Dio , eppure c’era un grande mercato di ogni tipo di vettovaglie. Ma gli almugavar, per la pietà che provavano per loro, divisero con loro ciò che avevano da mangiare, così che, a causa di questa carità che praticava il nostro popolo, quando si trasferirono in un altro luogo, più di duemila poveri greci che i turchi avevano saccheggiato, li seguì e tutti vennero con noi. E così puoi capire perché Dio ha fatto scendere questa ira sui Greci. Il proverbio del saggio dice che quando Dio è adirato con un uomo, il primo modo in cui lo punisce è che gli toglie la ragione. E così i greci sono sotto l’ira di Dio. Sono inutili, ma credono di valere più degli altri popoli del mondo; così pure, non avendo carità verso il prossimo, appare chiaramente che hanno perso il senso.”
Le parole di Montaner rispecchiano l’opinione condivisa nell’Europa medievale occidentale di quegli arroganti “greci”, ovvero i romani dell’Impero sopravvissuto al tramonto dell’Età Antica. “Non ci sono persone sulla terra che stimino e apprezzino, ma solo se stesse, eppure sono persone senza valore.” Arroganti e privi di valore, i bizantini possedevano anche un altro grande difetto, che è quello dell’assenza della carità. Gli Almogaveri che soggiornarono a Costantinopoli, nonostante fossero mercenari sanguinari, si trovarono dinnanzi a una vasta folla di fuggiaschi, reduci dalle guerre contro i turchi, poveri e affamati, che vivevano tra i “cumuli di rifiuti”, e ne ebbero a pietà. Li sfamarono e li aiutarono, e quando giunse il momento di lasciare Costantinopoli, duemila di loro si aggiunsero alla Compagnia Catalana.
La rovina che aveva colto l’Impero Romano d’Oriente, dunque, secondo il cronista, era causata dagli stessi romani (o greci, come li chiamavano loro), ormai sotto l’ira di Dio: “Sono inutili, ma credono di valere più degli altri popoli del mondo; così pure, non avendo carità verso il prossimo, appare chiaramente che hanno perso il senso.”
“E quando questo fu finito, il Granduca con tutta la sua compagnia, si preparò a marciare attraverso l’Anatolia contro i Turchi e a liberare dalla cattività le città e castelli e paesi che i Turchi avevano conquistato. Ma quando lui e i suoi seguaci furono pronti a partire da [1303] Artaqui, che era il primo giorno di novembre, tramontò l’inverno più rigido del mondo, con pioggia e vento e freddo e maltempo, così che i fiumi divenne così grande che nessun uomo poteva attraversarli. E così decise di svernare in questo luogo, Artaqui, che è un luogo fertile in ogni cosa. In quel paese c’è il più grande freddo del mondo con più neve; quando inizia la neve non c’è nient’altro fino ad aprile. E quando ebbe deciso di svernare in questo luogo, Artaqui, fece la più bella disposizione che si potesse fare; scelse sei bravi uomini di quel luogo e due cavalieri catalani e due adalili e due almugavar, e questi dodici uomini assegnarono un alloggio a ogni ricco hom, e anche ai cavalieri e agli almugavar; e disposero in questo modo, che ciascuno nell’esercito avesse pane e vino e avena e carne salata e formaggi e verdure e un letto e tutto ciò che voleva, eccetto carne fresca e condimenti; doveva fornirgli tutto il resto. E questi dodici uomini fissarono un prezzo conveniente per ciascuna cosa e ordinarono che l’oste tenesse un conto di tutte le cose per colui che alloggiava in casa sua e che ciò si facesse dal primo novembre fino a tutto marzo.
E quando venne quel tempo, allora ciascuno avrebbe fatto i conti con il suo esercito, davanti a questi dodici o uno di loro; e ciò che ciascuno aveva preso. Sarebbe stato detratto dalla sua paga e il tribunale avrebbe pagato ogni brav’uomo della casa. Con questo quelli dell’esercito erano molto contenti, e anche i Greci, e così si decise di passare l’inverno.
E il Granduca mandò a Costantinopoli per la Granduchessa, e trascorsero l’inverno con grande gioia e allegria. E il granduca ordinò che l’ammiraglio, con le galee e tutti i marinai, andasse a svernare nell’isola di Chios, isola molto fertile dove si fa il lentisco, che non si fa in nessun’altra parte del mondo. E vi fece svernare l’ammiraglio, perché i Turchi, con le barche, battono queste isole. E così fecero la guardia a tutto quel distretto e andarono a visitare tutte le isole. E così trascorsero tutto l’inverno in una vita piacevole, con consolazioni e diversivi l’uno con l’altro. E quando febbraio era finito il Granduca proclamò in tutta Artaqui che ogni uomo doveva fare i conti con il suo ospite durante il mese di marzo ed essere pronto a seguire lo stendardo il primo giorno di aprile.”
Assicurata la penisola di Artaki, Ruggero da Fiore era dunque pronto a condurre la sua Compagnia Catalana attraverso l’intera Anatolia, per muovere guerra ai turchi. Tuttavia, il primo giorno di novembre tramontò l’inverno “più rigido del mondo”, nel 1303. La neve era così alta e i fiumi così gonfi che era impossibile muoversi. Dunque il granduca decise di svernare ad Artaki con l’intera compagnia. Per evitare problemi con la popolazione locale, suddivise l’armata nella penisola, assicurando un abitazione e cibo a ciascun soldato Almgavaro. I prezzi del cibo e dell’alloggio vennero concordati con le autorità, poi da sottrarsi alla paga quadrimestrale. Quando l’inverno si placò, verso febbraio, Ruggero da Fiore ordinò che venissero saldati i conti con la popolazione, alla vigilia della partenza per la guerra con i turchi. Nel farlo, però, decise di giocare ancora una volta la carta della generosità con i propri uomini, per garantirsi una cieca fedeltà nella lunga campagna militare che li attendeva in terra straniera.
CCIV “Come il Granduca andò a Costantinopoli per lasciarvi la Granduchessa; e come ottenne quattro mesi di paga dall’imperatore; e dei grandi doni che fece a tutta la sua compagnia.
E così ognuno fece i suoi conti con il suo ospite e ve n’erano alcuni che non avevano più niente, perché avevano preso il valore di un anno intero di stipendio dal loro ospite. Quelli che erano prudenti avevano vissuto in modo ordinato, ma non c’era nessuno che non avesse avuto molto di più di quanto avesse avuto bisogno nel tempo in cui era rimasto lì. E mentre si faceva i conti nel mese di marzo, [1304] il Granduca con la Granduchessa e sua suocera (sorella dell’Imperatore), che aveva svernato con lui, e due fratelli di sua moglie, andò a Costantinopoli in quattro galee per lasciare lì la Granduchessa e congedarsi dall’imperatore. E quando fu a Costantinopoli gli fu fatta una grande festa e gli fu fatto grande onore. E ottenne dall’imperatore quattro mesi per i bisogni della sua compagnia, cosa che nessuno si aspettava, per la grande spesa sostenuta nell’inverno; ognuno doveva molto denaro. E così lasciò la Granduchessa a Costantinopoli e prese congedo da lei e dalla suocera e dai cognati e dai suoi amici. E poi si congedò dall’imperatore, si imbarcò nelle quattro galee e tornò ad Artaqui il 15 marzo. E tutti si rallegrarono molto nel vederlo. E il Granduca chiese se ognuno avesse fatto i suoi conti con il suo ospite e loro risposero di sì.
E su ciò ordinò che ciascuno, il giorno dopo, si trovasse nella piazza che c’era davanti all’alloggio del granduca, e portasse un programma di ciò che doveva al suo ospite. Quando furono fatti i conti, era stato ordinato dai dodici buoni uomini che si scrivessero due schede, divise per A.B.C., una da tenere in mano all’esercito e l’altra dal soldato, e queste schede furono suggellate con il sigillo del Gran Duca. E quando venne il giorno dopo, ciascuno venne con il suo orario e il Granduca si sedette su un seggio fatto per lui sotto un albero chiamato olmo, e mandò a chiamare ognuno con il suo orario, e trovò che avevano ricevuto un’immensa quantità di merce in proporzione al tempo di svernamento. E quando ebbe ricevuto tutti gli orari e li ebbe posati su un tappeto davanti a sé, si alzò e disse: “Nobili, vi devo molta gratitudine per esservi compiaciuti di prendermi come vostro capo e signore, e per essere stati pronti a seguirmi dovunque io desideri condurvi. Ora, trovo che voi abbiate preso molto di più, il doppio di quanto avreste dovuto prendere per il periodo in cui avete svernato qui. Ci sono alcuni che hanno preso tre volte tanto e altri quattro volte; così che trovo che se la Corte pretende tutto da voi, passerete attraverso una grande tribolazione. Pertanto, per l’onore di Dio, e per l’onore dell’Impero, e per l’amore che vi porto, io, per speciale favore, vi do tutto ciò che avete sfruttato questo inverno, affinché nulla sia detratto dalla vostra paga. E vorrei che ora, subito, tutti gli orari che mi avete portato qui siano bruciati e che i Greci portino i loro orari al nostro tesoriere e lui li faccia pagare. E subito mandò a chiamare il fuoco e fece bruciare gli orari in presenza di tutti. E tutti si alzarono e andarono a baciargli la mano e gli resero molte grazie; e così avrebbero dovuto, perché era il regalo più bello che un signore avesse fatto ai suoi vassalli da più di mille anni. In tutto diede loro una paga per otto mesi, uno con l’altro, la paga dei cavalieri ammontava a cinquantamila once d’oro e quella degli uomini a piedi a quasi sessantamila once. Complessivamente, con ciò che avevano avuto i ricchi homens, si calcolava che ammontasse a centomila once d’oro, che fanno sei milioni di argento. E fatto ciò, volle rallegrarli ancora di più e ordinò che il giorno dopo si trovasse ciascuno in detta piazza, a ricevere quattro mesi in oro fino. E così puoi immaginare quale gioia ci fosse nell’ostia e con quale buona volontà lo servirono d’ora in poi. E così, il giorno dopo, ebbe loro quattro mesi di paga, perché ciascuno si preparasse, il giorno dopo, ad andare in guerra.”
Ruggero da Fiore lasciò Artaki per andare a trovare l’imperatore e la sua corte, dove ricevette grandi onori e, inaspettatamente, il pagamento di ulteriori 4 mesi di paga, nonostante la Compagnia Catalana avesse speso un intero inverno a mangiare e bere. Con l’oro di Costantinopoli, il granduca tornò dai suoi uomini il 15 di marzo, pronto per ordinare la grande marcia attraverso il cuore dell’Anatolia. Prima, però, fece radunare gli almogaveri con i cavalieri e gli scudieri e i marinai per visionare il rendiconto delle spese invernali, venendo a conoscenza del debito stratosferico che avevano contratto con la popolazione locale. Alcuni soldati erano stati parsimoniosi, altri invece si erano dati alla pazza gioia, mangiando e bevendo senza alcun ritegno, consumando tre o quattro volte di più del fabbisogno necessario.
Gli accordi iniziali prevedevano che i soldati pagassero il debito contratto durante l’inverno sottraendolo alla paga. Tuttavia, Ruggero da Fiore, una volta raccolti i resoconti delle spese di ciascun soldato, li bruciò davanti a tutti. Perché ciò che avevano mangiato e bevuto lo avrebbe offerto lui stesso. I soldati accorsero allora a baciargli le mani, “perché era il regalo più bello che un signore avesse fatto ai suoi vassalli per più di mille anni”, e la fedeltà nei suoi confronti crebbe a dismisura. Il debito che il tesoriere della Compagnia Catalana si trovò a saldare con la popolazione locale ammontava “a cinquantamila once d’oro e quella degli uomini a piedi a quasi sessantamila once” per un totale di sei milioni d’argento. Ma non solo. Ruggero da Fiore pagò loro i quattro mesi di condotta che gli erano stati anticipati dall’imperatore e, così facendo, alzò il morale dell’armata, che di lì a poco, sarebbe partita per scontrarsi con i turchi, nella guerra vera e propria.
Una seconda chiave di lettura che emerge dall’episodio, su cui il cronista non si sofferma, riguarda i probabili disordini relativi alla condotta dei sanguinari almogaveri, che potrebbero aver agito come una piaga in quel lungo inverno del 1303-1304. Il granduca potrebbe aver mostrato generosità anche per arginare i problemi causati dai suoi mercenari, ma si tratta di ipotesi.
CCV “Come il Granduca e la sua Compagnia ebbero una seconda battaglia con la banda di Cesa e Tiu e li sconfissero e li uccisero vicino a Filadelfia.
Con ciò, il primo giorno di aprile, per grazia di Dio, lo stendardo sventolava e ogni uomo si preparava a seguirlo e, a tempo debito, entrarono nel Regno d’Anatolia. Ed erano disposti ad opporsi loro i Turchi, cioè le bande di Cesa e di Tiu, che erano composte da parenti di quelli che la Compagnia aveva ucciso ad Artaqui. La Compagnia giunse in una città chiamata Filadelfia, che è una città nobile e delle grandi città del mondo, con una circonferenza di ben diciotto miglia, quanto Roma o Costantinopoli. E vicino a quella città, a distanza di un viaggio, erano le dette due bande di Turchi, che erano in tutto ottomila cavalieri e dodicimila a piedi pieni, e offrirono battaglia. E il Granduca e la sua Compagnia ne ebbero grande piacere. Immediatamente, prima che le frecce dei turchi colpissero il bersaglio, i cavalieri attaccarono i cavalieri turchi e gli almugavar gli uomini a piedi. Cosa devo dirti? La battaglia fu durissima e durò dall’alba fino all’ora nona. I Turchi furono tutti uccisi o fatti prigionieri; non sfuggirono mille cavalieri né cinquecento uomini a piedi. E il granduca e la sua compagnia perlustrarono molto gioiosamente il campo, e non aveano perduti più di ottanta cavalieri e cento uomini a piedi, e fecero infinito guadagno.
E mentre perlustravano il campo, che durarono otto giorni pieni, si accamparono in quel luogo che era bello e delizioso, e poi andarono alla detta città di Filadelfia, dove furono ricevuti con grande gioia e letizia. E così in tutta l’Anatolia si sparse la notizia che le bande di Cesa e Tiu erano state sconfitte dai Franchi, e tutti si rallegrarono, e questo non è meraviglioso perché, se non fosse stato per i Franchi, sarebbero stati tutti presi prigionieri. E così il Granduca e la sua compagnia rimasero nella città di Filadelfia quindici giorni e poi partirono di là e andarono alla città di Ninfeo e poi a Magnesia, e poi proseguirono verso la città di Tiro.”
Ruggero da Fiore al comando degli uomini freschi di un inverno passato a gozzovigliare, e stracarichi d’oro, giunse nei pressi della città di Philadelphia (dal greco “La città di colui che ama suo fratello”, nominata così dal fondatore Eumene II, sovrano di Pergamo, oggi chiamata Alasehir), una grande città che l’autore paragona a Roma o Costantinopoli in quanto grandezza e ricchezza, forte di una colonia commerciale genovese molto potente fra le sue mura. Philadelphia era allora alleata dell’Impero Romano d’Oriente, mantenendo però una propria indipendenza. Tuttavia, nel momento in cui giunse Ruggero da Fiore, tale gloriosa città era assediata dai turchi guidati da Yakup I of Germiyan, che l’autore della cronaca chiama “la banda di Cesa e Tiu”: 8.000 cavalieri e 12.000 fanti.
La Compagnia Catalana ingaggiò battaglia nelle pianure dinnanzi alla città, giungendo al corpo a corpo prima ancora che i temibili arcieri turchi sfoltissero le loro fila. I cavalieri spagnoli e i fanti almogaveri caricarono il nemico saraceno, dando inizio a una dura battaglia che durò fino all’ora nona, ovvero le 15.00. La vittoria, anche questa volta, fu schiacciante. L’esercito nemico venne decimato e i sopravvissuti fatti prigionieri. Le perdite della Compagnia Catalana invece furono irrisorie: 80 cavalieri e 100 uomini a piedi. Il bottino fu infinito.
La città di Philadelphia li accolse gioiosamente, permettendo loro di sostare per quindici giorni e la notizia della battaglia si sparse per tutta l’Anatolia. “Se non fosse stato per i Franchi, sarebbero stati tutti presi prigionieri.” Tuttavia, alcuni storici ritengono che l’arrivo degli almogaveri non fosse stato accolto con gioia, poiché saccheggiarono e razziarono la città (Flor, Ruggiero di, di Andreas Kiesewetter, Dizionario biografico degli italiani, volume 48).
CCVI “Come i Turchi furono sconfitti da En Corberan de Alet a Tiro dove fu ferito da una freccia e morì; e come En Berenguer de Rocafort venne a Costantinopoli con due galee e duecento cavalieri e andò a Efeso, dov’è la tomba del monsenier san Giovanni Evangelista.
E quando giunsero alla città di Tiro, quei turchi che erano scampati alla battaglia, con altri che si erano uniti a loro che erano della banda di Mondexia, fecero incursioni in direzione di Tiro, fino alla chiesa in cui riposa il corpo del monsenyer Saint George, che è una delle chiese più belle che abbia mai visto, e si trova a circa due miglia da Tiro. E all’alba giunsero a Tiro i Turchi, non sapendo che là c’erano i Franchi. E appena cominciarono ad arrivare, un grido d’allarme si diffuse nel quartiere.
E il Granduca guardò e vide i Turchi (tutti li potevano vedere, perché erano nella pianura e la città di Tiro è alta), e comandò a Corberan de Alet, che era siniscalco dell’esercito, di uscire contro di loro con quale compagnia lo avrebbe seguito. E la Compagnia prese in fretta le armi ed Corberan, con circa duecento cavalieri e mille uomini a piedi, andò ad attaccare i Turchi. Li sconfisse subito e uccise più di settecento cavalli e molti a piedi, e li avrebbe uccisi tutti, ma il monte era vicino ed essi abbandonarono i cavalli e fuggirono a piedi sul monte. Ed En Corberan de Alet era un cavaliere molto abile e, con grande spirito, smontò anche lui e salì la montagna. Ma i turchi, vedendoli avvicinarsi a loro, scoccarono le loro frecce. E purtroppo una freccia colpì En Corberan, che si era tolto il berretto di ferro per il caldo e la polvere, e lì morì. Questa è stata una grande perdita. I cristiani rimasero con lui ei turchi se ne andarono. E quando il Granduca seppe questo ne fu molto dispiaciuto, perché molto lo amava. Lo aveva fatto siniscalco e gli aveva promesso in sposa una figlia che aveva avuto da una signora di Cipro e che era rimasta con mia signora Granduchessa a Costantinopoli, e le nozze dovevano essere celebrate al loro ritorno a Costantinopoli. E così seppellirono En Corberan, con una decina di altri cristiani che erano stati uccisi con lui, nella chiesa di San Giorgio, con grande solennità. E fecero fare per loro belle tombe; il Granduca e l’ostia indugiarono otto giorni perché fosse eretta una tomba ricca e bella per En Corberan. ”
La Compagnia Catalana partì da Philadephia per giungere a Ninfeo, Magnesia e infine a Tyrraium (Tira), nell’odierna Turchia (da non confondersi con la città libanese di Tiro, protagonista, assieme a molte altre città dell’Oltremare, del racconto crociato). Laggiù, alcune bande di turchi si erano riorganizzate per assalire la città, senza sapere che Ruggero si trovava già dentro le mura con i suoi soldati.
Considerata la lieve minaccia, Ruggero da Fiore comandò al suo siniscalco, cavaliere spagnolo Corberan de Alet, di ingaggiare battaglia con 200 cavalieri e 1.000 uomini a piedi. Corberan eseguì gli ordini e batté il nemico nella piana antistante la città, tuttavia, durante l’inseguimento, venne colpito da una freccia in pieno volto. Egli si era tolto l’elmo di ferro per il caldo e la polvere, e tale sconsideratezza si rivelò fatale. Il cavaliere Corberan morì in battaglia, e fu una gran perdita per la Compagnia Catalana e per il granduca. L’armata si fermò a Tiro per otto giorni, il tempo di erigere una tomba ricca e bella per Corberan, nella chiesa di san Giorgio.
“E da Tiro, il Granduca mandò un messaggio a Smirne e da Smirne a Chio, all’ammiraglio En Ferran de Ahones, di venire nella città di Ani con tutte le galee e i marinai che erano con lui; e così fece l’ammiraglio. E quando l’ammiraglio fu pronto a partire da Chio, En Rocafort venne a Costantinopoli con due galee e portò duecento cavalieri, cioè con tutto il loro esercito tranne i cavalli, e portò mille almugavar pieni, e ebbe un colloquio con l’imperatore. E subito l’imperatore gli ordinò di andare dove sapeva che era il Granduca, e così andò nell’isola di Chios e insieme all’ammiraglio partì da Chios e giunse alla città di Ani. E quando furono rimasti lì circa otto giorni, ebbero notizia che il Granduca stava arrivando e si rallegrarono molto e gli mandarono due murtat (il significato di questa parola non è stato accertato da nessuno dei traduttori) e lo trovarono nella città di Tiro. E il Granduca fu molto contento e volle che io andassi ad Ani e portassi En Berenguer de Rocafort fino alla città di Ayasaluck che le Scritture chiamano con un altro nome, Efeso. E nel detto luogo, Efeso, è il sepolcro, nel quale monsenyer san Giovanni Evangelista entrò, quando si congedò dal popolo; e allora si vide una nuvola come di fuoco, nella quale, si crede, salì al cielo corpo e anima.”
Nel frattempo, dalla Spagna giunse a Costantinopoli il cavaliere Berenguer de Rocafort, con due galee di rinforzo, duecento cavalieri e mille almogaveri. Egli era uno dei capitani più capaci della Compagnia Catalana, la cui presenza era fondamentale per le durissime sfide che si prospettavano in terra straniera. Poiché la guerra vera e propria non era ancora cominciata.
Ramon Muntaner, l’autore della cronaca, nonché membro della compagnia, venne mandato a Efeso, dove fu spettatore del miracolo del sepolcro di San Giovanni Evangelista: un affascinante evento sovrannaturale che avveniva ogni anno.
“E così parrebbe bene, dal miracolo che si vede ogni anno presso la sua tomba; cioè che nel giorno di Santo Stefano, ogni anno, all’ora dei vespri, esce dal sepolcro (che è quadrangolare e sta ai piedi dell’altare e ha in cima una bella lastra di marmo, piena di dodici palme lunga e cinque larga) e nel mezzo della lastra vi sono nove piccolissimi fori, e da questi fori, mentre si cominciano i vespri il giorno di Santo Stefano (giorno in cui i vespri sono di San Giovanni) esce manna come sabbia di ogni buca e si leva piena di un palmo dalla lastra. Come un getto d’acqua si alza. E questa manna esce, e comincia a emettere, come vi ho detto, quando si comincia a cantare i vespri il giorno di Santo Stefano, e dura tutta la notte e poi tutto il giorno di San Giovanni fino al tramonto. C’è così tanta di questa manna, quando il sole è tramontato e ha cessato di emettere, che, in tutto, riempirebbe tre quartieri di Barcellona. E questa manna è meravigliosamente buona per molte cose; per esempio, chi lo beve quando sente salire la febbre non avrà mai più la febbre. Inoltre, se una donna è in travaglio e non può partorire, se lo beve con acqua o con vino, sarà subito liberata. E ancora, se c’è una tempesta in mare e parte della manna viene gettata in mare, tre volte, in nome della Santissima Trinità e di Nostra Signora Santa Maria e del Beato San Giovanni Evangelista, subito la tempesta cessa. E ancora, chi soffre di calcoli biliari, e lo beve nei detti nomi, guarisce subito. E parte di questa manna è data a tutti i pellegrini che vi giungono; ma compare solo una volta all’anno.”
All’ora dei vespri, dalla lastra di marmo a chiusura del sepolcro di san Giovanni Evangelista, fuoriusciva una “manna” attraverso nove piccolissimi fori. Si trattava di una polvere che s’innalzava nell’aria, e durava fino al tramonto. Dalla tomba ne fuoriusciva così tanta, che avrebbe riempito “tre quartieri di Barcellona”. Questa manna era prodigiosa, poiché, se bevuta, abbassava la febbre, aiutava le donne a partorire e, se gettata nel mare in tempesta, pronunciando tre volte il nome “della Santissima Trinità e di Nostra Signora Santa Maria e del Beato San Giovanni Evangelista”, subito la tempesta sarebbe cessata. E leniva pure i calcoli biliari. Una manna dalla tomba, come si suol dire.
CCVII “Come il Granduca andò ad Ayasaluck e nominò En Berenguer de Rocafort siniscalco dell’esercito; e come sconcertarono i Turchi della banda di Atia, i quali, uniti una seconda volta a tutti i Turchi, furono vinti e ben diciottomila uccisi alla Porta di Ferro.
Mi congedai subito dal Granduca e dalla Compagnia e mandai venti cavalli ad uso di En Rocafort, perché cavalcasse e venisse da me nella città di Efeso, altrimenti chiamata Theologos in greco; e subì molto pericolo da molti attacchi de’ Turchi. E vennero con lui ben cinquecento almugavar; gli altri rimasero nella città di Ani con l’ammiraglio En Ferran de Ahones, a causa dei turchi che ogni giorno facevano incursioni. E quando furono quattro giorni nella città di Efeso, il Granduca venne con tutto l’esercito e ricevette il detto En Berenguer de Rocafort e lo fece siniscalco dell’esercito, come era stato En Corberan de Alet, e gli affidò la figlia che era stata fidanzata del detto En Corberan; e si insediò subito. E subito il granduca gli diede cento cavalieri e gli fece dare quattro mesi di paga. E così il Granduca rimase nella detta città otto giorni, e poi venne con tutto l’esercito nella città di Ani e lasciò En Pedro de Aros nella città di Tiro come capitano, e gli lasciò trenta cavalieri e cento uomini a piedi . E quando il Granduca entrò nella città di Ani, l’ammiraglio e tutti i marinai e tutti quelli che erano venuti con En Rocafort, uscirono armati per riceverlo; il Granduca ne ebbe grande piacere, perché avevano così rinforzato il suo esercito. E mentre il granduca era in Ani, rinfrescò tutta la Compagnia di paga. E, un giorno, si levò il grido d’allarme che i turchi della banda di Atia stavano facendo irruzione nella huerta di Ani. E l’esercito uscì in modo tale che giunsero ai Turchi e li attaccarono; così, in quel giorno, uccisero mille cavalieri turchi e ben duemila uomini a piedi. E gli altri fuggirono; se la sera non li avesse sorpresi, sarebbero stati tutti uccisi o fatti prigionieri. E così la Compagnia tornò nella città di Ani con grande gioia e allegria e con grande guadagno che aveva fatto. E così il Granduca rimase con l’ospite nella città di Ani per quindici giorni interi.”
Ruggero da Fiore con la sua Compagnia Catalana percorse in lungo e in largo l’Anatolia occidentale occupata dai turchi, i quali, città dopo città, tentavano di resistere all’invasione dell’ex-templare italiano e dei suoi sanguinari almogaveri. Efeso, Ani, Tiro: le battaglie si susseguirono giorno dopo giorno, regalando una vittoria dopo l’altra ai mercenari dell’imperatore. Il granduca non perse mai uno scontro e, stando ad alcuni storici, non fu neppure clemente, poiché uccideva i vinti e reprimeva le sommosse nel sangue, sterminando e saccheggiando per ottenere grandiosi bottini e pagare gli affamati masnadieri del suo seguito. Non sappiamo quanto fossero spregevoli questi uomini, nella realtà effettiva, poiché Ramon Muntaner non fa alcuna menzione del lato truce di Ruggero da Fiore. Ci troviamo di fronte agli scritti di un cronista sicuramente di parte nel redigere l’avventurosa biografia ma, a onor del vero, si tratta dell’unico testimone oculare. La verità, dunque, non la sapremo mai, come sempre.
“E poi fece tirare fuori lo stendardo e volle completare una visita in tutto il Regno d’Anatolia; sicché l’esercito giunse fino alla Porta di Ferro, che è un monte su cui c’è un passo chiamato Porta di Ferro, e che è alla divisione dell’Anatolia e del Regno d’Armenia. Quando fu alla porta di ferro, i turchi di quella banda di Atia che era stata sconfitta ad Ani, e tutti gli altri turchi che erano rimasti delle altre bande, erano tutti riuniti su un monte; ed erano in tutto diecimila cavalieri e ventimila uomini a piedi. E in ordine di battaglia, all’alba, che era il giorno di Santa Maria d’agosto, marciarono contro il Granduca e subito furono pronti i Franchi con grande gioia e allegria; sembrava che Dio li stesse sostenendo. E gli almugavar gridarono: “Sveglia il ferro!” E subito il Granduca con la cavalleria attaccò i cavalieri e En Rocafort e gli almugavar attaccarono gli uomini a piedi. E lì avresti potuto vedere prodezze d’armi come l’uomo non aveva mai visto. Cosa devo dirti? La battaglia fu molto crudele, ma alla fine i Franchi gridarono tutti insieme: “Aragona! Aragona!” e poi ebbero una tale vittoria che sconfissero i Turchi. E così, uccidendoli e raggiungendoli, li inseguirono fino al tramonto, e la notte fermò l’inseguimento. Tuttavia caddero in tutto dei cavalieri turchi più di seimila, e di quelli a piedi oltre dodicimila. E così, quella notte, la Compagnia trascorse una buona notte, perché i Turchi persero tutte le provviste e il bestiame. E il giorno dopo i Franchi perquisirono il campo; in tutto l’ospite rimase in quel luogo otto giorni per cercare nel campo delle tessere, e il guadagno che fecero fu infinito.”
I turchi sopravvissuti alle varie battaglie e incursioni degli almogaveri, si unirono in un grande esercito alla Porta di Ferro, un passo di montagna che divideva l’Anatolia dall’Armenia: 10.000 cavalieri e 20.000 fanti, per un totale di 30.000 uomini. Il 15 d’agosto dell’anno 1304, giorno di santa Maria, all’alba, i 30.000 turchi si ordinarono in schiere da battaglia contro la Compagnia Catalana, la quale era pronta ad accoglierli con “grande gioia e allegria”.
Gli almogaveri, galvanizzati nell’avvicinarsi di una grande battaglia campale, gridarono “Sveglia il ferro!”, e si lanciarono contro il nemico, cavalieri contro cavalieri, fanti contro fanti, in una mischia di cui purtroppo non conosciamo i dettagli. Ramon Muntaner è un cronista dalla scrittura sbrigativa riguardo i fatti d’arme, di certo meno particolareggiata di Giovanni Villani, i cui scontri di spada e lancia sono veri racconti appassionanti (fra cui consiglio la lettura di uno dei più affascinanti: “La battaglia di Cascina”).
Al grido di “Aragona! Aragona!” gli almogaveri schiacciarono il nemico e lo inseguirono oltre il tramonto, fino a tarda notte, quando l’oscurità impediva ogni tipo di combattimento. Quel giorno caddero più di 18.000 turchi: 6.000 cavalieri e 12.000 fanti. Il bottino fu talmente grande, che l’armata di Ruggero da Fiore dovette fermarsi per otto giorni, nel campo nemico, per razziare e spogliare i corpi, “e il guadagno che fecero fu infinito”.
CCVIII “Come l’imperatore di Costantinopoli mandò a dire al Granduca di lasciare tutto e tornare a Costantinopoli per venire ad aiutarlo contro l’imperatore Lantzaura che si era ribellato all’Impero. Allora il Granduca proclamò che ognuno doveva seguire il suo stendardo, e andò alla Porta di Ferro e vi rimase tre giorni e poi si preparò a tornare nella città di Ani. Ma mentre tornava ad Ani, gli vennero messaggeri dall’imperatore, dai quali gli fece sapere che doveva lasciare tutto e tornare a Costantinopoli con tutto ciò che aveva perduto; perché l’imperatore di Lantzaura, padre della granduchessa, era morto e aveva lasciato il suo impero ai suoi due figli, che erano fratelli della granduchessa e nipoti dell’imperatore. Ma il loro zio, fratello del padre, si era ribellato all’Impero, e quindi l’imperatore di Costantinopoli (perché l’impero di Lantzaura apparteneva ai suoi nipoti) inviò messaggeri a questo zio dei suoi nipoti che si era ribellato, per dirgli di lasciare il Impero a questi bambini, che erano suoi nipoti e ai quali apparteneva. Ma gli fece una risposta molto crudele, tanto che ne seguì una grande guerra tra l’imperatore di Costantinopoli e colui che si era fatto imperatore di Lantzaura. L’imperatore di Costantinopoli veniva ogni giorno sconfitto e quindi mandò un messaggero al Granduca per venire in suo aiuto.”
Subito dopo la battaglia della Porta di Ferro giunsero dei messaggeri dell’imperatore, i quali pregarono Ruggero da Fiore di tornare a Costantinopoli con urgenza, poiché il padre di Maria, la sposa di Ruggero, era morto, lasciando la dinastia degli Asen di Bulgaria nel caos.
I fratelli di Maria avrebbero dovuto prendere il posto del padre appena scomparso, tuttavia si era fatto avanti lo zio, impossessandosi con la forza del territorio bulgaro. L’imperatore aveva tentato di farlo ragionare e, dopo un fermo rifiuto, aveva perfino mandato suo figlio Michele IX a combattere, senza tuttavia ottenere alcun successo (come sempre). Per questo, la Compagnia Catalana doveva fare dietrofront, mettere in pausa la crociata con i turchi, e occuparsi della faccenda bulgara. Faccenda che riguardava da vicino la moglie di Ruggero e, di conseguenza, Ruggero stesso.
CCIX “Come il Granduca, dopo aver ricevuto il messaggio dell’imperatore di Costantinopoli, tenne un consiglio per considerare ciò che doveva fare, durante il quale fu convenuto che sarebbe dovuto a tutti i costi andare ad assistere l’imperatore. Ma il Granduca era molto dispiaciuto di dover abbandonare, in quel tempo, il Regno d’Anatolia, che aveva completamente conquistato e liberato dai suoi guai e dalle mani dei Turchi. E dopo aver ricevuto il messaggio e le pressanti suppliche dell’Imperatore, radunò un consiglio e raccontò a tutta la Compagnia il messaggio che aveva ricevuto, e che li pregò di consigliarlo su ciò che doveva fare. E alla fine gli diedero consiglio che, con ogni mezzo, andasse a soccorrere l’imperatore nel suo bisogno e poi, in primavera, sarebbero tornati in Anatolia. E questo il Granduca riteneva un buon consiglio e riconosceva che la Compagnia lo aveva consigliato bene. E subito si prepararono a prepararsi, ad attrezzare le galee e a mettervi tutto ciò che avevano preso. E l’esercito prese la strada per la costa, sicché le galee stavano ogni giorno presso l’esercito e il Granduca lasciava in ogni luogo una buona guarnigione, sebbene un piccolo presidio sarebbe bastato, perché avevano spazzato via i Turchi in modo tale che quasi nessuno osava mostrarsi in tutto il regno, sicché questo regno fu completamente restaurato.”
Appresa la notizia, Ruggero da Fiore convocò il consiglio della Compagnia Catalana, poiché di abbandonare l’Anatolia appena conquistata non ne aveva granché intenzione. Le ribellioni erano all’ordine del giorno, le questioni di paga e saccheggio di un’armata così vasta cominciavano a creare malcontento tra la popolazione e i turchi avrebbero potuto riorganizzarsi: tutta la fatica fatta fino a quel momento poteva essere spazzata via con facilità. Il consiglio, però, suggerì a Ruggero di seguire l’imperatore poiché, dopotutto, era lui che pagava.
Il granduca fece quindi salpare le navi della sua flotta, cariche del bottino conquistato fino a quel momento, e la sua grande compagnia cominciò a marciare indietro, verso Costantinopoli, seguita da vicino, lungo la costa, dalla flotta. Furono presidiati i luoghi più importanti per lasciare delle buone guarnigioni, nel caso fossero tornati i turchi, tuttavia si trattava di una precauzione eccessiva poiché, come dice il cronista, i turchi erano stati annientati, “e nessuno osava mostrarsi in tutto il regno, sicché questo regno fu completamente restaurato.”
“E quando ebbe messo in ordine tutto il paese, fece i suoi viaggi a Boca Daner e quando venne a Passaquia, mandò un legno armato a Costantinopoli, dall’imperatore, per chiedergli cosa voleva che facesse. E quando l’imperatore seppe che l’esercito de’ Franchi era a Passaquia, ne fu molto gioioso e contento e fece fare una grande festa a Costantinopoli e mandò a dire al Granduca di passare a Gallipoli e di alloggiare i suoi seguaci nella penisola di Gallipoli. E questa penisola ha una lunghezza complessiva di quindici leghe piene e non è in nessun luogo più larga di una lega; il mare lo circonda da ogni parte; ed è la penisola più fornita del mondo, tanto di buon pane, quanto di buoni vini e di una grande abbondanza di ogni frutto. All’ingresso della penisola dalla terraferma c’è un buon castello chiamato Examille, che significa sei miglia, e si chiama così, perché in quel luogo la penisola non è larga più di sei miglia. E questo castello sta nel mezzo, a difesa di tutta la penisola, e da un lato della penisola c’è Boca Daner e, dall’altro, il Golfo di Saros, e poi, all’interno della penisola, ci sono le città di Gallipoli e di Potamos e di Sexto e Maditos; ognuno di questi è un luogo importante, e oltre a questi luoghi ci sono molti manieri e feudi. E così il granduca distribuì tutto il suo esercito in mezzo a questi manieri che sono forniti di tutto e hanno convenuto che ognuno dovrebbe pagare il suo ospite per ciò che voleva e dovrebbe fare i conti e tenere i conti.”
La Compagnia Catalana raggiunse lo stretto dei Dardanelli per poi approdare nella penisola di Gallipoli: terra ricca e fornita di “di buon pane, quanto di buoni vini e di una grande abbondanza di ogni frutto”. L’imperatore chiese a Ruggero di attendere in questa penisola, lunga e stretta, ben fortificata, dove gli almogaveri poterono dividersi fra i manieri e le città, nell’attesa di muovere guerra allo zio della sposa di Ruggero per riportare pace nelle terre bulgare. Ma la guerra non arrivò.
CCX “Come quando l’imperatore Lantzaura seppe dell’arrivo del Granduca, trattò con l’imperatore di Costantinopoli, dicendo che avrebbe fatto tutto ciò che desiderava. E come sorse l’odio tra l’imperatore di Costantinopoli e il Granduca. E quando ebbe sistemato tutto l’esercito, andò con cento cavalieri a Costantinopoli per vedere l’imperatore e mia signora sua suocera e sua moglie, e quando entrò a Costantinopoli gli fu fatta una grande festa e grande onore lui. E mentre era a Costantinopoli, il fratello dell’imperatore Lantzaura, che faceva guerra all’imperatore, come hai sentito prima, sapeva che il Granduca era venuto con tutto il suo esercito e riteneva persa la sua causa. E subito mandò i suoi messaggeri all’imperatore e fece tutto ciò che l’imperatore volle; e così l’imperatore ottenne, per mezzo dei Franchi, tutto ciò che voleva in questa guerra. E fatta questa pace, il Granduca chiese all’imperatore di pagare la Compagnia. E l’imperatore disse che l’avrebbe fatto; e fece coniare denaro come il ducato di Venezia, che vale otto commensali di Barcellona. E ne fece anche fare alcuni chiamati vincilions, ma non valevano tre commensali ciascuno, e voleva che fossero attuali al valore di quelli che valevano otto commensali; e ordinò a tutti di prendere dai Greci cavalli o muli o viveri o altro, e di pagare in quella moneta. E ciò fece per malvagità, cioè per creare odio e rancore tra il popolo e l’ostia; poiché non appena ebbe ottenuto il suo desiderio in tutte le guerre, volle che i Franchi fossero tutti uccisi o portati fuori dall’Impero.”
Non appena Ruggero da Fiore, granduca e conquistatore dell’Anatolia, giunse a Costantinopoli con cento suoi cavalieri per incontrare l’imperatore e farsi spiegare meglio la faccenda bulgara, accadde che lo zio di Maria, ribelle degli Asen, si arrese all’istante. Poiché quest’ultimo aveva saputo dell’arrivo della compagnia, ed era bastata la loro sola presenza per sconfiggerlo.
L’imperatore di Costantinopoli, a questo punto, nel giro di un anno, aveva ottenuto tutto quello che voleva. I turchi erano sconfitti e la pace degli alleati bulgari assicurata. Tuttavia, rimaneva un solo grande problema da risolvere: Ruggero da Fiore e la sua Compagnia Catalana. Poiché, esattamente come era accaduto in Sicilia, l’Impero Romano d’Oriente cominciava a temere quegli stessi mercenari, coraggiosi e inarrestabili, che avevano appena sgominato i nemici, ma che stavano diventando una presenza ingombrante, oltre che estremamente onerosa.
Le invidie, gli intrighi di palazzo e le spregiudicate mosse politiche che contraddistinguevano i bizantini, emersero ancora una volta in superficie quando l’imperatore decise di cominciare a “chiudere i rubinetti”: le montagne d’oro che riversava nei forzieri della Compagnia Catalana, si ridussero. L’ultimo pagamento avvenne in moneta “deprezzata”, e anche in “cavalli o muli o viveri o altro”, presi contro la volontà della popolazione. Una mossa che, secondo Ramon Muntaner, mirava a screditare il granduca presso i greci, costretti a privarsi dei loro beni per pagare i soldati, “poiché non appena ebbe ottenuto il suo desiderio in tutte le guerre, volle che i Franchi fossero tutti uccisi o portati fuori dall’Impero.” Insomma, l’enorme somma richiesta per le paghe arretrate della compagnia, non fu pagata.
Forse Ruggero aveva già capito di essere caduto nel mirino di quegli avvelenatori vestiti d’oro, che cospiravano nel palazzo imperiale e che avevano cominciato a riflettere su come liberarsi di lui. O forse no. In ogni caso, era diventato un uomo così potente che perfino gli alleati avevano paura della spada dei suoi almogaveri.
CCXI “Come il nobile En Berenguer de Entenza venne in Romania con la sua Compagnia e fu fatto Granduca da Ruggero. Il Granduca ha rifiutato di prendere questi soldi. E mentre questa lite era in corso, En Berenguer de Entenza venne in Romania e condusse trecento cavalieri pieni e mille almugavar pieni. E quando venne a Gallipoli, trovò che il granduca era a Costantinopoli, e gli mandò due cavalieri a chiedergli che cosa voleva che facesse. E il Granduca mandò a dirgli di venire a Costantinopoli. E quando venne a Costantinopoli, l’imperatore lo accolse molto bene, e il granduca lo accolse ancora meglio. E quando fu lì un giorno, il Granduca andò dall’imperatore e gli disse: “Signore, questo ricco hom è uno dei più grandi nobili di Spagna al di sotto del grado di figlio di un re, ed è uno dei più abili cavalieri del mondo ed è per me un fratello. Ed è venuto a servirti, per tuo onore e per amor mio, per cui devo dargli una notevole soddisfazione, e così, col tuo permesso, gli darò il bastone e il berretto di Granduca, e d’ora in poi lo sia Gran Duca.” E l’imperatore si disse contento, e quando vide la generosità del granduca, che era pronto a spogliarsi dell’ufficio di granduca, si disse che la sua generosità gli doveva giovare. E così il giorno dopo, davanti all’imperatore e ad un’intera corte, il Granduca si tolse il berretto da Granduca e lo mise sul capo di En Berenguer de Entenza, e poi gli diede il bastone e il sigillo e lo stendardo dell’ufficio. Al che tutti si sono meravigliati.”
Nel frattempo, il cavaliere Berenguer de Enteca, uno dei gran signori spagnoli che avevano ammirato le imprese di Ruggero da Fiore in Oriente, giunse a Costantinopoli con 300 cavalieri e 1000 almogaveri, probabilmente per ritagliarsi anche lui un pezzetto di gloria e bottino. Ruggero, che aveva intenzione di tenersi stretto un alleato politico così influente in Spagna, decise di togliersi il bastone e il cappello da granduca per donarli a Berenguer. Lo fece dinnanzi alla corte, accrescendo la propria reputazione presso gli almogaveri. Però, molto probabilmente, non si trattava di un’ingenua regalia. Poiché l’imperatore, subito dopo, insignì Ruggero di un titolo ben superiore a quello di Granduca: evento che forse i due avevano già concordato da tempo.
Ruggero da Fiore, divenne “Cesare dell’Impero Romano”.
CCXII “Come alla fine dei quattrocento anni durante i quali l’Impero era stato senza Cesare fratello Ruggero fu fatto Cesare dall’imperatore di Costantinopoli e come svernò a Gallipoli e di comune accordo passò in Anatolia.
E appena fatto ciò, l’imperatore, alla presenza di tutti, fece sedere fratello Ruggero davanti a lui e gli diede il bastone e il berretto e lo stendardo e il sigillo dell’Impero, e lo rivestì delle vesti che gli appartenevano all’ufficio e lo fece Cesare dell’Impero. E un Cesare è un ufficiale che siede su una sedia vicino a quella dell’Imperatore, solo mezzo palmo più in basso, e può fare quanto l’Imperatore nell’Impero. Può elargire doni in perpetuo e può disporre del tesoro, imporre tributi e può applicare la domanda e impiccare; e, infine, tutto ciò che l’imperatore può fare, lo può fare anche lui. E ancora, firma “Cesare del nostro impero” e l’imperatore gli scrive “Cesare del tuo impero”. Cosa devo dirti? Non c’è differenza tra l’imperatore e il Cesare, tranne che la sedia è mezzo palmo più bassa di quella dell’imperatore e l’imperatore indossa un berretto scarlatto e tutte le sue vesti sono scarlatte e il Cesare indossa un berretto blu e tutte le sue vesti sono blu con uno stretto bordo dorato. E così fratello Ruggero fu fatto Cesare, e succede che, per quattrocento anni, non c’era stato Cesare nell’impero di Costantinopoli, per cui l’onore era tanto maggiore. E quando tutto ciò fu fatto con grande solennità e con grande festa, En Berenguer de Entenza fu chiamato d’ora in poi Granduca e fratello Ruggero Cesare.”
Nonostante i mancati pagamenti, le invidie di palazzo, e la troppa polvere nascosta sotto il tappeto, Ruggero da Fiore ricevette il bastone, il berretto, lo stendardo e il sigillo dell’Impero. La carica di Cesare era la più alta raggiungibile da un ministro dell’Impero d’Oriente che non fosse membro della famiglia stessa (ovvero il Sebastocrator, il secondo titolo più alto, dopo l’imperatore stesso). Ramon Muntaner si sbaglia quando scrive che non vi era mai stato un Cesare da 400 anni. Nel corso del tempo era stato conferito più volte e da più persone contemporaneamente. Fu detenuto nel 1186 da Corrado del Monferrato, a capo della spedizione a Costantinopoli nel 1203, e sotto Alessio III (1195-1203) le più alte cariche venivano pubblicamente vendute (E. Pere: La caduta di Costantinopoli).
Le generose parole del cronista vengono quindi rovinate dal contesto storico della corte imperiale, dove anche una mossa all’apparenza straordinariamente gratificante, come quella della nomina a Cesare, poteva nascondere una minaccia. E’ possibile, infatti, che l’imperatore Andronico II Paleologo si fosse stretto al petto Ruggero da Fiore, seduto sullo scranno al suo fianco, più basso “solo di un palmo”, solo per rispondere al detto “tieniti stretto gli amici, ma ancor più i nemici”. Soprattutto in un momento in cui, l’erario versava in una condizione disastrosa.
“E con grande esultanza tornarono a Gallipoli, alla Compagnia, e il Cesare portò con sé la mia signora sua suocera, e la mia signora sua moglie e due fratelli di sua moglie, di cui il primogenito era imperatore di Lantzaura . E quando giunsero a Gallipoli si organizzarono per passarvi l’inverno, perché il giorno di Ognissanti era già passato. E con grande allegria il Cesare trascorse l’inverno con la mia signora sua moglie e la mia signora sua suocera e con i suoi cognati, e così fece il Granduca. E quando avvenne che avevano celebrato la festa della Natività, il Cesare andò a Costantinopoli per concordare con l’imperatore ciò che dovessero fare, perché si avvicinava la primavera; ma il Granduca rimase a Gallipoli. E quando Cesare fu a Costantinopoli, fece passare lui e il granduca nel regno d’Anatolia; ed era così stabilito tra il Cesare e l’imperatore, che l’imperatore gli avrebbe dato tutto il regno dell’Anatolia e tutte le isole della Romania e che sarebbe dovuto passare in Anatolia, e che avrebbe distribuito le città e i paesi e i castelli tra i suoi vassalli; e che ciascuno di loro gli desse un certo numero di cavalli armati in modo che l’imperatore non avesse bisogno di dare alcun compenso. E così si preparò per andare; e da quell’ora l’imperatore non poteva pagare alcuno de’ Franchi, ma doveva provvedere a loro il Cesare. Tuttavia, l’imperatore dovette prima dare la paga per sei mesi, poiché così era stato stabilito nel patto. E così il Cesare prese congedo dall’imperatore e l’imperatore gli diede quella moneta cattiva per pagare la sua compagnia. E il Cesare lo prese, poiché pensava che, mentre doveva passare in Anatolia, il dispiacere del popolo rimasto in Romania non lo avrebbe danneggiato. E così, con questo denaro, venne a Gallipoli e cominciò a distribuire con esso il compenso e con esso ogni uomo pagava il suo ospite.”
Ruggero da Fiore, Cesare dell’Impero, assieme al suo fratello d’armi Berenguer de Entenza appena nominato granduca, tornò nella penisola di Gallipoli, chiusa fra lo stretto dei Dardanelli e il golfo di Saros. Gli uomini della Compagnia Catalana lo accolsero con una gran festa, tuttavia erano ben consapevoli delle tensioni politiche che aleggiavano su Costantinopoli. Secondo alcuni storici, a quel punto gli almogaveri avrebbero potuto attraversare Gallipoli ed entrare a Costantinopoli, così come avevano fatto svariati “franchi” nel corso del Medioevo, divenuti poi nemici e saccheggiatori. Tuttavia, non avvenne niente di tutto questo. Ruggero da Fiore svernò in quelle terre fertili, piene di ricche città e vino, costretto a pagare di tasca sua gli uomini, il vitto e l’alloggio, laddove non era già stato preso con la forza.
Dopo il Natale del 1304, Ruggero da Fiore fu chiamato a Costantinopoli per stipulare un nuovo accordo. Visto che l’imperatore non era in grado di pagare il suo Cesare, e l’armata di coraggiosi sanguinari cominciava a rumoreggiare, sempre più pericolosa, si prospettò una nuova possibilità per l’ex templare, pirata e condottiero: il dominio di una signoria feudale su tutta l’Anatolia e le isole di Romania, da suddividere tra i suoi vassalli e cavalieri, e da governare in autonomia. L’imperatore, annusando l’imminente punto di rottura, propose a Ruggero da Fiore di diventare un potente signore in grado di incassare tasse, tributi, muovere guerra e far tutto quel che riteneva necessario senza più dipendere dai pagamenti delle casse imperiali. La storia del giovane mozzo sulla nave templare stava per dare inizio a una nuova dinastia, che avrebbe consacrato Ruggero da Fiore fra le leggende più straordinarie d’epoca medievale.
Però, venne stroncata dall’invidia, e dall’odio.
CCXIII “Come il Cesare decise di andare a congedarsi da Skyr Miqueli, nonostante sua suocera e sua moglie che erano sicuri dell’invidia che Skyr Miqueli provava nei suoi confronti.
E mentre questa paga veniva distribuita, il Cesare disse a mia signora sua suocera e mia signora sua moglie che voleva andare a congedarsi da Skyr Miqueli, figlio maggiore dell’imperatore. E sua suocera e sua moglie gli dissero di non andarci per nessun motivo; poiché sapevano che gli era molto ostile ed era così invidioso che, sicuramente, se il Cesare fosse andato in un luogo in cui Skyr Miqueli aveva il potere maggiore, lo avrebbe distrutto con tutti coloro che sarebbero venuti con lui. Ma alla fine il Cesare disse che nulla gli avrebbe impedito di andare, che sarebbe stata una grande vergogna per lui partire dalla Romania e andare nel regno dell’Anatolia con l’intenzione di rimanere a combattere i Turchi e non congedarsi, e sarebbe preso in cattiva parte. Cosa devo dirti? Sua suocera, sua moglie e i suoi cognati furono così afflitti, che radunarono tutto il consiglio dell’esercito e non gli fecero dire per nessun motivo di intraprendere quel viaggio. Ma parlarono invano, perché niente gli avrebbe impedito di andare. Quando sua suocera, sua moglie e i suoi cognati videro che non se ne sarebbe astentato per nessun motivo, gli dissero di dare loro quattro galee perché volevano andare a Costantinopoli. E il Cesare chiamò l’ammiraglio, En Ferran de Ahones, e gli disse di portare sua suocera, sua moglie e suoi cognati a Costantinopoli. E la moglie del Cesare non passò con lui in Anatolia, poiché era incinta di sette mesi e sua madre desiderava che giacesse a Costantinopoli. E fu ordinato che, quando la dama fosse stata consegnata, andasse con dieci galee, dove sarebbe stato il Cesare. E così la signora rimase a Costantinopoli e a tempo debito ebbe un bellissimo figlio che era ancora vivo quando iniziai questo libro. Perciò devo cessare di parlarvi della signora e di suo figlio e devo rivolgermi a voi per parlarvi del Cesare.”
Ottenuto il titolo di Cesare e il dominio dell’Anatolia appena riconquistata ai turchi, Ruggero da Fiore prese l’incomprensibile decisione, sulla quale gli storici s’interrogano tutt’oggi, di recarsi ad Adrianopoli, per prendere congedo dal figlio dell’imperatore Andronico II, Michele IX Paleologo, colui che più di tutti odiava quell’italiano venuto a conquistare l’Impero romano d’Oriente, pezzetto dopo pezzetto, spadata dopo spadata. A nulla valsero le preghiere della moglie, Maria, che “gli disse di non andarci per nessun motivo”, poiché era risaputo che gli era ostile, ormai lo sapevano anche i soldati più umili della Compagnia Catalana. Il consiglio stesso della compagnia, con tutti i suoi capitani e cavalieri, lo pregò di non andare. Ma Ruggero non li ascoltò. Forse voleva stringere un ultimo accordo prima di stabilirsi in Anatolia e regnare in tranquillità.
CCXV “Come il Cesare venne nella città di Adrianopoli per congedarsi da Skyr Miqueli, che fece uccidere lui e tutto il suo seguito da Gircon, capo degli Alani; non più di tre sono fuggiti; e come mandò uomini a Gallipoli per razziare il paese e per distruggere la compagnia del Cesare. Ora mi rivolgerò a voi per parlarvi del Cesare, che si preparò con trecento cavalieri e mille uomini a piedi per andare ad Adrianopoli a trovare Skyr Miqueli, primogenito dell’imperatore, nonostante tutti i suoi amici e vassalli. E questo fece per la grande lealtà del suo cuore e per il grande amore e fedeltà verso l’imperatore e suo figlio. E pensava che, come era pieno di ogni lealtà, così lo erano anche l’imperatore ei suoi figli; ma era proprio il contrario e questo sarà dimostrato più avanti, come sentirete. E quando il Cesare si separò dall’esercito, lasciò, come capo e capo, il granduca En Berenguer de Entenza e En Berenguer de Rocafort come siniscalco dell’esercito.”
Nell’aprile del 1305, Ruggero da Fiore partì per Adrianopoli con 300 cavalieri e 1000 almogaveri, lasciando la moglie Maria a Costantinopoli, incinta di sette mesi. Il comando della Compagnia Catalana, rimasta nella penisola di Gallipoli, venne affidato al granduca dell’Impero, Berenguer de Entenza, coadiuvato dal siniscalco Berenguer de Rocafort: i suoi due più grandi alleati e compagni d’arme spagnoli.
“E così, con i suoi viaggi, giunse alla città di Adrianopoli, e il figlio dell’imperatore, Skyr Miqueli, gli uscì incontro e lo ricevette con grandi onori; e questo fece l’empio per vedere con quale compagnia veniva. E quando fu entrato ad Adrianopoli, il figlio dell’imperatore rimase con lui, in mezzo a grande gioia e allegria che gli fece il Cesare, e lo stesso Skyr Miqueli fece per lui.”
Giunto dinnanzi alle mura di Adrianopoli, il figlio dell’imperatore, Michele IX, lo accolse fuori dalla città con tutti gli onori. Il motivo per cui lo incontrò fuori, secondo il cronista, era per osservare la compagnia con la quale era venuto Ruggero, stimarne le forze, e mettere in atto il suo piano.
“E quando rimase con lui sei giorni, il settimo Skyr Miqueli fece lo stesso per lui. E dopo essere rimasto con lui sei giorni, il settimo Skyr Miqueli convocò ad Adrianopoli Gircon, capo degli Alani, e Melech, capo dei Turcopoli, in modo che fossero in tutto novemila cavalieri. E quel giorno invitò il Cesare a un banchetto. E quando ebbero mangiato, questo Gircon, capo degli Alani, entrò nel palazzo in cui erano Skyr Miqueli, sua moglie e il Cesare; e sguainarono le spade e massacrarono Cesare e tutti quelli che erano con lui;”
Il quattordicesimo giorno di permanenza ad Adrianopoli, dopo feste e banchetti, Michele IX convocò Georgios, capo degli Alani, un popolo nomade e guerriero delle terre orientali, e Melech, capo dei Turcopoli, i mercenari al soldo dei bizantini che avevano abiurato la religione islamica, mettendo assieme una forza complessiva di 9.000 cavalieri. Quello stesso giorno, il capo degli Alani entrò nel palazzo con i suoi soldati, durante un banchetto, e sguainò la spada contro l’inerme Ruggero da Fiore, per eseguire lo spietato ordine di Michele IX.
Dopo una vita di avventure fra traversate in mare, guerre, bottini e un regno conquistato con la fatica e il ferro affilato, Ruggero da Fiore venne assassinato durante la festa tenuta in suo onore, e tutto il seguito di almogaveri che lo avevano accompagnato ad Adrianopoli fu sterminato con lui.
La storia di quel fanciullo di Brindisi, cresciuto come mozzo tra le navi in partenza per le crociate e divenuto Cesare dell’Impero romano d’Oriente, si concluse così, in una pozza di sangue.
“E poi, per tutta la città, uccisero tutti quelli che erano venuti con Cesare; non più di tre scamparono che salirono in un campanile. E di questi tre, uno era En Ramon, figlio di En Gilabert Alquer, cavaliere di Catalogna, nativo di Castellon de Ampurias; e l’altro figlio di un cavaliere catalano, chiamato G. de Tous, e l’altro Berenguer de Roudor, che era di Llobregat. E questi furono assaliti nel campanile e si difesero tanto bene che il figlio dell’imperatore disse che sarebbe stato peccato se fossero stati uccisi; e così diede loro un salvacondotto, e solo loro fuggirono.”
Adrianopoli si tinse del sangue degli almogaveri, dei quali non ne sopravvisse nessuno a parte tre cavalieri di Catalogna, che riuscirono a salire sulla cima di un campanile e si difesero strenuamente, senza mai cedere. Michele IX decide di lasciarli in vita, tanto si erano battuti bene, e furono gli unici della Compagnia Catalana a fuggire dalla città, quel giorno di morte.
“Di nuovo il detto Skyr Miqueli commise un delitto maggiore, perché aveva disposto di mandare i Turcopoli con una parte degli Alani a Gallipoli; e ordinò che, il giorno in cui fu ucciso Cesare, saccheggiassero Gallipoli e tutti i feudi. E noi avevamo messo all’erba i cavalli e la gente era ai manieri. Cosa devo dirti? Ci trovarono così alla sprovvista e presero tutti i cavalli che avevamo nei manieri e uccisero più di mille persone, così che non ci rimanevano più di duecentosei cavalli e non più di tremilatrecentosette uomini d’armi, tra cavalli e fanti, marinai e marittimi. E subito ci assediarono e tanti vennero su di noi, c’erano ben quattordicimila cavalieri, tra Turcopoli, Alani e Greci, e trentamila uomini a piedi.”
Secondo la cronaca di Ramon Muntaner, Michele IX, dopo aver assassinato Ruggero da Fiore, volle liberarsi della sua intera masnada. Il piano per sterminare la Compagnia Catalana fu messo in atto fuori dalle mura di Adrianopoli, fino alla penisola di Gallipoli, dove giunsero le forze degli Alani, dei Turcopoli e dei Greci tutte assieme, armate e pronte alla battaglia. Ed erano un’armata grandissima: “quattordicimila cavalieri, tra Turcopoli, Alani e Greci, e trentamila uomini a piedi”.
La Compagnia Catalana, sparsa per le città e gli insediamenti della regione, fu attaccata da coloro che, fino a quel momento, erano stati alleati. I manieri vennero assediati, i destrieri da guerra, che si trovavano al pascolo, rubati: l’assalto colse così impreparati gli almogaveri, rimasti senza il loro condottiero, e ne morirono più di 1000 in un solo giorno. Il tradimento del figlio dell’imperatore aveva tinto l’impero di rosso, e lasciato la compagnia con soli 3307 uomini d’arme, “tra cavalli e fanti, marinai e marittimi”, e soli 206 destrieri da guerra.
“Il Granduca, cioè En Berenguer de Entenza, ordinò che facessimo una fossa e vi chiudessimo tutto il raval di Gallipoli, e così facemmo. Cosa devo dirti? Rimanemmo lì per quindici giorni interi, e due volte al giorno litigavamo corpo a corpo con loro, e ogni giorno era la nostra sfortuna essere i perdenti. Cosa devo dirti? Mentre eravamo così assediati, En Berenguer de Entenza aveva equipaggiato cinque galee e due legni e, malgrado tutti quelli che erano lì, disse che voleva andare a fare un’incursione, per ottenere ristoro di viveri e denaro per l’azienda. E tutti gli dissero che questo non si doveva fare, ma che era meglio che restassimo tutti insieme a combattere coloro che ci tenevano assediati. E lui, cavaliere esperto e saggio com’era, vedeva il rischio della battaglia e per nessun motivo vi acconsentì; ma pensò che avrebbe fatto un’incursione in direzione di Costantinopoli, e quando l’avesse fatta sarebbe tornato subito a Gallipoli. Così alla fine dovette fare come voleva e con lui si imbarcarono tanti che rimasero a Gallipoli solo En Berenguer de Rocafort, che era siniscalco dell’ospite, e io, R. Muntaner, che ero comandante a Gallipoli. E non rimasero con noi più di cinque cavalieri, cioè En G. Sischar, cavaliere di Catalogna, e En Ferran Gordi, cavaliere d’Aragona, e En Juan Peris de Caldes di Catalogna e En Ximeno de Albero. E passammo in rassegna quanti eravamo quando En Berenguer de Entenza era partito da Gallipoli, e trovammo che erano, fra cavallo e fanti, millequattrocentosessantadue uomini d’arme, di cui duecentosei a cavallo , poiché non avevamo più cavalli e milleduecentocinquantasei uomini a piedi. E così rimanevamo pieni di guai perché, ogni giorno, litigavamo corpo a corpo con quelli fuori dalla mattina fino all’ora del vespro.”
Il granduca Berenguer de Entenza, ovvero il fedelissimo compagno d’armi del defunto Ruggero da Fiore, nonché gran signore spagnolo e nuovo condottiero della Compagnia Catalana, ordinò di arroccarsi a Gallipoli, scavando una lunga fossa tutto intorno. Gli almogaveri si radunarono lì, assediati dalle forze soverchianti messe in piedi dal figlio dell’imperatore, e combatterono strenuamente, giorno dopo giorno, per non permettere al nemico di concludere l’orrendo piano ordito contro di loro.
L’autore della cronaca, Ramon Muntaner, da questo punto in poi comincia a parlare in prima persona, poiché si trovava proprio lì, a Gallipoli, in veste di comandante, al fianco del granduca, del siniscalco Berenguer de Rocafort e dei soli quattro gran signori spagnoli rimasti, fra tutti quelli che erano partiti per trovare gloria e fortuna in Oriente: G. Sischar, cavaliere di Catalogna, Ferran Gordi, cavaliere d’Aragona, Juan Peris de Caldes di Catalogna e Ximeno de Albero. In tutto le loro forze erano composte da 1462 cavalieri, di cui solo 206 a cavallo, poiché avevano perduto gran parte dei cavalli, e 1256 almogaveri a piedi, per un totale di 2718 uomini contro i 44.000 di Michele IX.
A questo punto, però, la storia di Ramon Muntaner contrasta con l’opinione di molti storici, i quali ritengono che gli almogaveri non fossero rimasti con le mani in mano nell’apprendere la notizia dell’assassinio di Ruggero da Fiore, ma che avessero dato inizio a una grande operazione di vendetta, la cosiddetta “vendetta catalana”. Molti affermano che la compagnia riversò la propria furia sulla penisola di Gallipoli, per poi saccheggiare e devastare l’intera Tracia. Michele IX potrebbe essersi mosso con un tale esercito per fermare la sanguinosa vendetta, e tentare di sbandare una volta per tutte quei mercenari che non ne volevano sapere di abbandonare la Grecia.
“Ora smetterò di parlarti di noi a Gallipoli, perché saprò bene come tornarvi, e vi parlo di En Berenguer de Entenza che andò a prendere la città di Eregli, che è distante da Costantinopoli ventiquattro miglia, e vi fece tanto guadagno, che fu infinita. E questa città è quella in cui si trovava Erode, che fece uccidere alcuni dei bambini. E io deve raccontarti un miracolo manifesto. Vale a dire, in quel luogo, Eregli, c’è una baia che arriva fino all’isola di Marmara, dove si estrae tutto il marmo di Romania. E in quella baia ci sono due belle città, una chiamata Panido e l’altra Rodosto. E tu devi sapere che in quella città di Rodosto il più grande delitto commesso contro di noi che sia mai stato commesso contro qualcuno. E perché tu sappia qual è stato il delitto te lo dirò.”
Il granduca Berenguer de Entenza riuscì a equipaggiare cinque galee e due navi da trasporto, per tentare l’impresa impossibile di salpare dalla penisola di Gallipoli, assediata in ogni parte e percorsa dal nemico, compiendo una rapida incursione nella Propontide, mar di Marmara, vicino Costantinopoli, e guadagnare gli alimenti necessari a sopravvivere sotto assedio. Gli almogaveri rimasti glielo sconsigliarono fortemente, ma lui sapeva bene che senza cibo non si può combattere. Dunque, salpò con una parte dell’esercito per fare quello che la Compagnia Catalana sapeva fare meglio di qualunque altra cosa: la pirateria. Ma dei vecchi nemici si stavano facendo avanti per dare anche loro una pugnalata al cuore della compagnia del defunto Cesare.
CCXVIII “Come En Berenguer de Entenza dopo aver saccheggiato Eregli incontrò diciotto galee genovesi, dalle quali fu fatto prigioniero per la sua fiducia alla loro parola; e come io, Ramon Muntaner, volevo dare diecimila hyperpers d’oro affinché fosse liberato attraverso di me.
E quando En Berenguer de Entenza ebbe saccheggiato la città di Eregli, che fu una delle grandi imprese del mondo, tornò con grande guadagno. E così, mentre tornava da Gallipoli, diciotto galee genovesi stavano andando a Costantinopoli e stavano per entrare nel Mar Nero, e gli andarono incontro al largo tra Planido e Capo Ganos. Ed En Berenguer de Entenza notò gli inseguitori, e portando a riva le prue delle sue galee, rimase con le poppe delle cinque galee verso il mare. E i Genovesi lo salutarono e poi andarono da lui su una chiatta per dargli un salvacondotto. E il comandante delle galee lo invitò a pranzare nella sua galea e En Berenguer de Entenza, con sua disgrazia, si fidava di loro e andò alla galea del comandante. E mentre stavano pranzando, e il seguito di En Berenguer de Entenza era disarmato, due galee andarono e presero le quattro galee e fecero prigionieri tutti i seguaci che erano in esse e uccisero più di duecento persone. Ma una galea, in cui si trovavano En Berenguer de Vilamari e altri cavalieri, non si sarebbe arresa. Cosa devo dirti? Su questa galea il combattimento fu tanto grande che morirono ben trecento genovesi e quelli della galea furono uccisi, nessuno scampò. E così, vedendo che banchetto sapevano fare i genovesi a En Berenguer de Entenza, lo portarono prigioniero a Costantinopoli, lui e tutti i suoi seguaci che erano vivi; e presero tutto ciò che En Berenguer de Entenza aveva guadagnato a Eregli. Perciò sono stolti tutti i signori e gli altri uomini che si affidano a qualunque uomo dei Comuni. Un uomo che non sa cosa sia la fede, non può mantenerla. Così portarono via En Berenguer de Entenza e tutto il suo popolo prigionieri, e lo trattarono con grande disprezzo a Pera, che è una città genovese di fronte a Costantinopoli. E vi rimase quattro mesi, finché le galee furono andate nel mare grande e tornarono fuori, e poi lo portarono con loro a Genova, passando per Gallipoli. E ho voluto dare diecimila iperperi d’oro, di cui ciascuno vale dieci sueldos del Barcellona, affinché ce lo lasciassero, ma non lo fecero. E quando abbiamo visto che non potevamo averlo a nessun prezzo, gli ho dato mille iperperi d’oro, perché avesse qualcosa da spendere. E così lo portarono con loro a Genova. E quindi devo cessare di parlarvi di En Berenguer de Entenza, perché saprò bene come tornare da lui a tempo e tempo opportuno e mi rivolgerò a parlare di noi stessi che siamo rimasti a Gallipoli.”
L’avventura di Berenguer de Enteza viene narrata più avanti nella cronaca, al capitolo CCXVIII, che io ho anticipato qui per seguire un ordine cronologico. Berenguer saccheggiò la Propontide, accumulando bottino e viveri, tuttavia venne intercettato da una flotta di 18 galee genovesi, più di tre volte superiori in numero, che lo circondarono e lo trassero a bordo su una zattera, con promesse amichevoli. Tuttavia, quando il granduca della Compagnia Catalana salì a bordo della galea genovese, le altre 17 diedero guerra alle 5 galee degli almogaveri, i quali vennero massacrati, anche se riuscirono a portare all’Inferno con loro 300 genovesi.
Berenguer de Enteza venne quindi fatto prigioniero, nonostante successivamente lo stesso Ramon Muntaner arrivò ad offrire 10.000 iperperi, la moneta d’oro di Costantinopoli, per il rilascio. I genovesi, però, non accettarono.
CCXVI “Come la compagnia del Cesare decise di sfidare l’imperatore e di metterlo sotto accusa per malafede e per ciò che aveva fatto; e come l’imperatore di Costantinopoli fece uccidere En Ferran de Ahones, l’ammiraglio, con tutti i Catalani e gli Aragonesi che erano a Costantinopoli.
È vero che quando Cesare era morto, e ci avevano assaliti e ci avevano tenuti assediati a Gallipoli, convenimmo che, prima di fare del male all’imperatore, lo avremmo sfidato e messo sotto accusa per malafede e per ciò che aveva fatto a noi; e che questa accusa, e poi la sfida, sia fatta a Costantinopoli, in presenza del Comune di Venezia e con tutte le lettere pubbliche. E fu ordinato che En Sischar, cavaliere, ed En Pedro Lopis, un adalil, e due comandanti e due nostromo, vi andassero con una chiatta di venti remi, a nome di En Berenguer de Entenza e di tutta la Compagnia. E così fu fatto e andarono a Costantinopoli. E in presenza del suddetto Comune sfidarono l’imperatore e poi lo accusarono di malafede e si offrirono di combattere dieci contro dieci o cento contro cento, perché erano pronti a provare che aveva avuto perfidamente il Cesare e tutte le altre persone con lui uccise, e avevano attaccato la Compagnia senza sfidarla, e il suo buon nome ne era stato macchiato, e d’ora in poi lo avrebbero rinnegato. E di questo fecero lettere pubbliche, divise da A.B.C. Una metà presero con sé e lasciarono l’altra metà in affidamento al detto Comune. Ma l’imperatore adduceva la scusa di non averlo fatto. Guarda come poteva trovare scuse; e lo stesso giorno fece uccidere tutti i Catalani e gli Aragonesi che erano a Costantinopoli con En Ferran de Ahones, ammiraglio.”
Il consiglio della Compagnia Catalana deliberò per accusare l’imperatore in presenza di Venezia, come giudice neutrale, per malafede, sfidandolo a un duello di Dio (Ordalia) cento contro cento, o dieci contro dieci. L’ambasceria degli almogaveri si recò a Costantinopoli, con le lettere pubbliche e ufficiali garantite da Venezia. L’imperatore, però, non li accolse bene.
CCXVII “Come furono fatti prigionieri e massacrati nella città di Rodosto i messaggeri inviati all’Imperatore per sfidarlo; e del miracolo della baia di Marmara, dove un gran numero di Babi sono stati uccisi da Erode.
E fatto ciò, si staccarono dall’Imperatore e gli chiesero che desse loro una guida che li guidasse finchè furono a Gallipoli; e così diede loro la guida. E quando giunsero alla città di Rodosto, la guida li fece prendere tutti, ventisette furono, catalani e aragonesi; e li tagliarono tutti in quarti e i quarti furono appesi. E puoi immaginare quale crudeltà aveva fatto l’imperatore a questi che erano stati messaggeri. Ma fatti coraggio, perché sentirai più avanti che, di questo, tale vendetta è stata presa dalla Compagnia, con l’aiuto di Dio, che una tale vendetta non era mai stata fatta prima. In quel golfo avviene il miracolo che vi troverete sempre striature di sangue, grandi quanto il ponte di una barca; alcuni sono più grandi, altri più piccoli. E questo abisso è sempre pieno di queste striature di sangue fresco, ma quando sarai fuori da questo abisso non ne troverai. E i marinai raccolgono questo sangue e lo portano con sé da un capo all’altro del mondo come reliquie. E questo è causato dal sangue dei bambini che fu sparso in quel luogo, e così, da quel momento in poi, è lì e sarà sempre lì. E questa è la vera verità, perché ne ho raccolti alcuni con le mie stesse mani.”
Gli ambasciatori degli almogaveri furono massacrati, e divisi in quattro parti, ciascuna appesa nella pubblica piazza. 27 uomini, fra catalani e aragonesi, una crudeltà che il consiglio della Compagnia Catalana decise che avrebbe punito col ferro affilato, assieme al grande torto dell’assassinio di Ruggero da Fiore.
CCXIX “Come, udito della presa di En Berenguer de Entenza e della morte dei messaggeri di Gallipoli, radunammo un consiglio per considerare cosa dovevamo fare, nel quale si decise di affondare le galee e tutte le navi in modo che nessuno potesse scappare o fuggire senza combattere. È vero che quando abbiamo saputo che En Berenguer de Entenza era stato fatto prigioniero e che tutti quelli che erano con lui sono stati uccisi o presi, siamo stati molto angosciati, e così siamo stati anche quando abbiamo saputo della morte di Sischar e degli altri messaggeri avevamo inviato all’imperatore. E, un giorno, abbiamo riunito un consiglio per discutere cosa dovremmo fare. E come vi ho già detto, trovammo che di noi non restavano più di duecentosei cavalli e milleduecentocinquantasei piedi. E le opinioni a cui arrivammo furono due: alcuni dicevano che dovevamo andare, con tutto ciò che possedevamo, all’isola di Mitilene, che è un’isola buona e fertile; e che avevamo ancora quattro galee piene e dodici legni armati e molte chiatte e una nave, a due piani, in modo che potessimo imbarcarci ed essere salvati; e poi da quell’isola dovremmo muovere guerra all’imperatore. E l’altra opinione era questa, che sarebbe stato per noi una grande disgrazia aver perso due signori e che tante persone degne fossero uccise per un così grande tradimento senza che noi le vendicassimo o morissero come loro; che non ci sarebbero persone al mondo che non avrebbero il diritto di lapidarci, se non lo facessimo, soprattutto perché eravamo persone di tale fama, e poiché la destra era dalla nostra parte; e quindi era meglio morire in onore che vivere nel disonore. Cosa devo dirti? La fine del consiglio fu che decidemmo di combattere e di intraprendere la guerra, e che ogni uomo che avesse detto il contrario doveva morire. Cosa devo dirti? Per maggior sicurezza decidemmo di togliere subito due assi dal fondo di ciascuna delle galee e dei legni e delle chiatte e della nave, in modo che nessuno potesse contare di poter scappare, e affinché ognuno si preparasse a fare il suo meglio. E questa fu la fine del consiglio. E così siamo andati subito ad affondare tutte le navi. E subito ebbi un grande stendardo fatto di san Pietro di Roma, da mettere sopra la nostra torre; e avevo uno stendardo reale fatto del signore di Aragona, e un altro del Re di Sicilia, e un altro di San Giorgio; e questi tre dovevamo portare in battaglia e quella di San Pietro doveva essere posta sulla torre principale. E così, tra quel giorno e l’altro, furono fatte.”
Il consiglio della Compagnia Catalana, ormai rimasto del solo siniscalco Berenguer de Rocafort, decise di togliere due assi dal fondo di ciascuna nave, per affondare le imbarcazioni che si trovavano a Gallipoli, affinché nessuno potesse tirarsi in dietro. Si trattava forse di una contromisura dopo ciò che era successo con Berenguer de Enteza, appena catturato dai genovesi, e tacciato, silenziosamente, di vigliaccheria? L’autore Muntaner non lo esplicita in modo chiaro, ma potrebbe essere un buon motivo per una così drastica scelta.
Il consiglio scelse di vendicare fino alla morte il “così grande tradimento”. Poiché non ci sarebbe stata persona al mondo che non avrebbe avuto diritto di lapidarli se non l’avessero fatto, soprattutto perché erano persone “di tale fama”, quindi meglio “morire che vivere nel disonore”. Gli stendardi del signore di Aragona, del Re aragonese di Sicilia e lo stendardo di san Giorgio furono preparati per la grande battaglia decisiva.
CCXX “Come la Compagnia decise di combattere coloro che Skyr Miqueli aveva inviato contro Gallipoli; e come la Compagnia li sconfisse e uccise ben ventiseimila cavalieri e fanti.
E quando venne il venerdì, e l’ora dei vespri, ventitré giorni prima di san Pietro in giugno, ci radunammo tutti con le armi alla porta di ferro del castello, e io feci salire dieci uomini sulla torre principale; e un marinaio, di nome En Berenguer de Ventayola, che era di Llobregat, cantò l’inno del beato San Pietro e tutti risposero con le lacrime agli occhi. E quando ebbe cantato l’inno, mentre si levava lo stendardo, una nuvola venne su di noi, e ci coprì d’acqua, mentre eravamo in ginocchio, e ciò durò quanto il canto della Salve Regina. E quando ciò fu fatto, il cielo tornò limpido come prima; e tutti ne ebbero una grande gioia. E abbiamo ordinato che, di notte, ognuno si confessasse e al mattino, all’alba, andasse alla comunione, e al tramonto, quando il nemico sarebbe venuto a combattere corpo a corpo, fossimo pronti ad attaccare; e così abbiamo fatto.”
Venerdì 6 giugno 1305, ventitré giorni prima del giorno di san Pietro, all’ora dei vespri, la Compagnia Catalana si radunò in armi davanti alla porta di ferro del castello di Gallipoli, dove aveva luogo il quartier generale degli almogaveri. Un marinaio cantò l’inno del beato san Pietro e tutti si emozionarono, con le lacrime agli occhi, anche perché furono testimoni di un piccolo miracolo: una nuvola scaricò loro addosso una breve pioggia mentre erano in ginocchio, dell’esatta durata dei canti liturgici. Non appena le preghiere furono concluse, la pioggia cessò e il cielo tornò limpido. Quella notte ognuno si confessò per prendere comunione al mattino seguente, e prepararsi all’incontro con il grande esercito di Michele IX, accampato su un monte a breve distanza (circa due miglia): la vendetta catalana stava per compiersi.
“E affidammo lo stendardo del signore re d’Aragona a En Guillem Peris de Caldes, cavaliere di Catalogna, e lo stendardo del re di Sicilia a En Ferran Gori, cavaliere; e lo stendardo di San Giorgio lo affidammo a En Eximeno de Albero, ed En Rocafort affidò il suo stendardo al figlio di un cavaliere, chiamato Guillem de Tous. E così abbiamo ordinato la nostra battaglia in questo modo, che non abbiamo formato né avanguardia né centro né retroguardia, ma abbiamo messo i cavalieri a sinistra e i fanti abbiamo messo a destra. E ciò che avevamo ordinato il nemico sapeva; ed è vero che il nemico era in tende vicino a noi, su un monte tutto di terreno arato, distante da noi circa due miglia.”
Il giorno dopo, di sabato, la Compagnia Catalana, con i soli 206 cavalieri montati e 1256 fanti almogaveri si schierò in formazione da battaglia fuori dalla grande fossa fatta scavare da Berenguer de Enteza, senza formare “né avanguardia né centro né retroguardia”: ovvero i cavalieri a sinistra e i fanti a destra. I soldati erano troppo pochi per tentare elaborate tattiche e troppo galvanizzati. La loro causa era giusta, non c’era bisogno di tattiche e strategie complicate: quei pirati che avevano terrorizzato per anni il Mediterraneo erano pronti a morire per vendicare i torti subiti.
“E quando venne la mattina, che era sabato, ventidue giorni prima della festa di san Pietro di giugno, giunsero a ottomila cavalieri, ed eravamo pronti per la battaglia; e lasciarono dietro di loro duemila cavalieri con gli uomini a piedi nelle tende, perché erano sicuri che la vittoria era già loro. E quando fu sorto il sole, eravamo fuori delle trincee, tutti preparati per il combattimento, ordinati come vi ho già detto. E avevamo ordinato che nessuno si muovesse finché non fosse stato detto il Bona Paraula, che fu detto da Berenguer de Ventayola; e quando fu detto che le trombe e le nacchere avrebbero dovuto suonare e avremmo dovuto attaccare tutti insieme. E così fu fatto, e il nemico stette, lancia sulla coscia, schierato per l’attacco.”
L’esercito di Michele IX, composto da Alani, Turcopoli e Greci, schierò 8.000 cavalieri, lasciandone 2.000 di retroguardia all’accampamento, assieme agli uomini a piedi, poiché erano completamente sicuri della vittoria. Gli 8.000 cavalieri si misero in attesa, “lancia sulla coscia”, e non appena il marinaio almogavero cantò il Bona Paraula, suonarono trombe e nacchere per dare inizio all’assalto.
“E quando furono fatti i segnali che furono ordinati, attaccammo tutti insieme nello stesso luogo, e penetrammo così in mezzo alle schiere che sembrava che tutto il castello stesse crollando. E similmente attaccarono con grande vigore. Cosa devo dirti? Per il loro peccato, e per nostro buon diritto, furono sconfitti; e dopo che la loro avanguardia fu sconfitta, tutti subito si voltarono e attaccammo in modo tale che nessuno là alzò la mano senza percuotere la carne, e così arrivammo fino al monte su cui era il loro esercito. E se mai hai visto gente venire incontro ai loro amici, con un bel viso, per aiutarli, lì hai visto l’ospite, cavallo e fanti, fare così; così che, a quel punto, temevamo di avere molto da fare.”
La Compagnia Catalana, in completa inferiorità numerica, si lanciò all’attacco in mezzo alle schiere nemiche con tanta foga e vigore da sconfiggerne l’avanguardia. Non appena l’avanguardia bizantina si voltò per fuggire, gli almogaveri diedero inizio a uno spietato inseguimento. I fedeli di Ruggero da Fiore spinsero il nemico così vigorosamente che nessun alano, turcopolo o greco poté “alzare la mano senza toccare la carne”.
L’inseguimento giunse fino ai piedi del monte su cui era stato montato l’accampamento nemico, entro il quale si trovavano ancora numerose forze che avrebbero potuto, da sole, lanciare il contrattacco e ribaltare completamente la situazione.
“Ma una voce si levò in mezzo a noi, perché tutti noi gridammo, quando arrivammo ai piedi della montagna: “Su! a loro! Aragona! Aragona! San Giorgio! San Giorgio!” E noi prendemmo nuovo coraggio e tutti continuammo ad attaccarli vigorosamente; e così sono stati sconfitti e quindi non dobbiamo fare altro che colpire. Cosa devo dirti? Finché fu giorno l’inseguimento durò, per un totale di ventiquattro miglia. La notte era buia prima che li lasciassimo e dovevamo tornare nella notte; ed era mezzanotte prima che tornassimo a Gallipoli. E il giorno dopo abbiamo passato in rassegna la nostra compagnia e abbiamo scoperto che non avevamo perso più di un cavaliere e due a piedi.”
Una voce si levò in mezzo agli almogaveri, al grido di “Su! a loro! Aragona! Aragona! San Giorgio! San Giorgio!”, infondendo coraggio nei masnadieri sanguinari e spingendoli alla scalata del monte, su, in cima all’accampamento, per sferrare l’ultimo grandioso attacco. L’esercito bizantino venne sconfitto nel suo stesso accampamento e si diede alla fuga. L’inseguimento prese piede per 24 miglia, e durò ben oltre il tramonto. Gli almogaveri tornarono al castello di Gallipoli quando era ormai notte fonda, scoprendo di aver perso solo un cavaliere e due fanti in tutta la giornata. Il nemico, invece, era stato decimato di 600 cavalieri e 20.000 a piedi.
“E abbiamo perquisito il campo. E, sicuramente, abbiamo scoperto che, in tutto, avevamo ucciso seicento cavalieri e oltre ventimila a piedi. E questa era l’ira di Dio su di loro, perché non potevamo certo immaginare di aver ucciso così tanti, anzi pensavamo che si fossero soffocati a vicenda. E così pure molti morirono su chiatte, di cui molte furono spiaggiate lungo la riva che furono abbandonate, e le lanciarono e poi vi fecero salire tanta gente che, quando furono fuori in mare, si capovolsero e tutti annegarono, e così molti uomini sono stati persi.”
Ramon Muntaner redige un resoconto di battaglia che vede, al termine dello scontro, solo 3 perdite per gli almogaveri a fronte delle più di 20.000 perdite tra le schiere dei bizantini. Cifre fantasiose, simili a quelle riportate nelle canzoni di gesta del ciclo Carolingio e dei paladini di Orlando, o nella storia dei Re Britanni di Monmouth, dove si racconta di Artù e della sua spada Caliburn.
Questa, secondo l’autore, fu la Vendetta Catalana, “l’ira di Dio” contrapposta alla sanguinaria rappresaglia fatta di saccheggi e stermini contro la popolazione di Tracia e Tessaglia che molti storici prendono per vera. Ramon Muntaner, presente alla battaglia, dice di meravigliarsi egli stesso di aver ucciso così tanti nemici, “anzi, pensavamo che si fossero soffocati a vicenda.” I vinti, in rotta, raggiunsero il mare, lanciati su delle chiatte che, capovolte per il troppo peso e la foga, ne fecero annegare moltissimi.
“Cosa devo dirti? Il guadagno che abbiamo ottenuto in questa battaglia è stato così grande che non poteva essere contato. Restammo lì otto giorni perlustrando il campo; non c’era altro da fare che portare via l’oro e l’argento che queste persone portavano su di sé, perché tutte le cinture dei cavalieri e le spade, le selle e le redini e tutte le loro armature erano guarnite d’oro e d’argento, e tutti portavano denaro, gli uomini a piedi lo stesso; e quindi ciò che si guadagnava lì era infinito. E così, allo stesso modo, arrivammo lì vivi con tremila cavalli pieni, gli altri furono uccisi o se ne andavano per il campo di battaglia trascinandosi dietro le viscere. E così abbiamo preso così tanti cavalli che ce n’erano tre per ogni uomo. E mentre si perquisiva il campo avevo preso in pietà quattro Greci, che trovai in una casa, ed erano dei poveri che erano stati a Gallipoli. E ho detto loro che li avrei trattati molto bene se fossero divenuti le mie spie. E furono d’accordo con grande gioia ed io li vestii molto bene alla maniera greca e diedi a ciascuno di loro uno dei nostri cavalli, che avevamo appena preso, ed essi giurarono che mi avrebbero servito bene e lealmente. E subito ne mandai due ad Adrianopoli per vedere che cosa faceva il figlio dell’imperatore, e gli altri due li mandai a Costantinopoli. E in pochi giorni tornarono quelli che erano andati dal figlio dell’imperatore, e dissero che marciava contro di noi con diciassettemila cavalli e centomila piedi pieni, e che era già partito da Adrianopoli.”
La Compagnia Catalana restò sul campo di battaglia per otto giorni, guadagnando un bottino “così grande che non poteva essere contato”. Le cinture dei cavalieri, le spade, le selle, le redini, le armature: tutto era guarnito d’oro e d’argento. E poi il denaro portato indosso da cavalieri e fanti era pari a un tesoro inimmaginabile. Perfino i cavalli vinti al nemico erano moltissimi: 3.000 in tutto, così tanti che ve n’erano 3 per ogni soldato Almogavero.
Ramon Muntaner, nel corso del saccheggio, s’imbatté in alcuni greci che prese a pietà. Li vestì bene, donò loro dei cavalli e li fece giurare fedeltà, poiché intendeva mandarli come spie ad Adrianopoli, dove soggiornava Michele IX, l’assassino. I greci ubbidirono e tornarono pochi giorni dopo, avvertendo Muntaner che il figlio dell’imperatore si era messo in marcia con 17.000 cavalieri e 100.000 fanti, dritto contro di loro. Michele IX era ancora una pericolosa minaccia, il bersaglio numero uno della Vendetta Catalana: la guerra non era ancora finita.
CCXXI “Come la Compagnia, venendo a conoscenza dell’arrivo di Skyr Miqueli, primogenito dell’imperatore di Costantinopoli, acconsentì ad attaccare la sua avanguardia che sconfisse; e come Skyr Miqueli sia scappato, ferito al volto da un pugnale.
Su questo ci siamo riuniti tutti in consiglio e abbiamo discusso sul da farsi, e, alla fine, il concilio ha detto che Dio e il beato monsignore San Pietro e San Paolo e San Giorgio, che ci avevano dato questa vittoria, ci avrebbero dato la vittoria su quell’uomo malvagio che aveva così perfidamente ucciso Cesare; e così, che non si tratterebbe per nessun motivo a Gallipoli; che Gallipoli era un luogo forte e che avevamo guadagnato tanto, che il nostro coraggio poteva indebolirsi, e per non lasciarci assediare per nessun motivo. E, ancora, che il figlio dell’imperatore non potrebbe venire con tutto l’esercito radunato, piuttosto gli converrebbe formare un avanguardia, e che dovremmo incontrare l’avanguardia e attaccarla, e se la sconfiggessimo, tutti sarebbero sconfitti. E siccome noi non potevamo salire al Cielo né scendere negli abissi, né andar via né per mare né per terra, ne conseguiva che dovevamo passare per le loro mani, e così era bene che il nostro coraggio non fosse indebolito da ciò che non avevamo guadagnato né dalla forza che vedevamo prima di noi. E così abbiamo pensato di marciare verso di loro e questo è stato concordato.”
La Compagnia Catalana si riunì in consiglio per decidere il da farsi. Michele IX stava marciando contro di loro, alla testa di un esercito colossale. “Quell’uomo malvagio che aveva così perfidamente ucciso Cesare” non poteva restare impunito. Doveva essere sconfitto, e lo sarebbe stato proprio durante quella lunga marcia, quando il suo immenso esercito era suddiviso in reparti distanti svariate leghe l’uno dall’altro, ciascuno con la propria linea di rifornimenti e il proprio itinerario da percorrere, per non esaurire le risorse della regione tutte in una volta.
Gli almogaveri sapevano bene quanto fosse complessa l’organizzazione di un’armata. Loro stessi erano esperti nell’approvigionamento, manutenzione, distribuzione paghe, derrate alimentari e dell’allestimento di campi. Per questo individuarono il punto debole del nemico proprio nel numero: Michele IX, durante la marcia, si sarebbe trovato con l’avanguardia, distante dagli altri gruppi che componevano quell’esercito colossale.
Gli almogaveri, esperti di guerra, pirateria e saccheggio, organizzarono un’incursione mirata a mozzare la testa del lungo serpente nemico: vinto lui, l’intero seguito si sarebbe dato alla fuga.
“E lasciammo cento uomini e donne nel castello e ci avviammo. E dopo che avevamo fatto tre viaggi, come avvenne per piacere a Dio, dormimmo ai piedi di una montagna e, dall’altra parte dormiva il nemico, e una parte non sapeva nulla dell’altra fino a mezzanotte, quando vedemmo una grande luce dai fuochi che avevano acceso. E noi mandammo due greci che avevamo presi come esploratori a portare notizie e venimmo a sapere che il figlio dell’imperatore vi alloggiava con seimila cavalieri e che, di buon mattino, sarebbero partiti per Gallipoli; e che il resto dell’esercito, per mancanza d’acqua, era distante da loro circa una lega, ma veniva. E il figlio dell’imperatore giaceva in un castello che c’era in quella pianura, chiamato Apros, un castello molto buono e forte, con una grande città. E fummo molto contenti quando sapevamo che c’era un castello e una città, poiché ritenevamo che la mancanza di Spirito di queste persone fosse tale che avrebbero aspettato finché non avremmo raggiunto il castello o la città di Apros.”
Lasciati 100 uomini a Gallipoli, dopo tre giorni di viaggio la Compagnia Catalana raggiunse i piedi di una montagna al di là della quale si trovava la città di Apros, all’interno della quale Michele IX sostava con 6.000 cavalieri dell’avanguardia. Il resto dell’esercito si trovava indietro, a una lega di distanza.
“E quando venne l’alba ci confessammo tutti e andammo alla Santa Comunione, e tutti ci armammo in assetto di battaglia per salire sul monte che era terra arata. E quando fummo in cima e fu giorno, quelli dell’oste ci videro e pensarono che stessimo venendo ad arrenderci alla mercé del figlio dell’imperatore. Ma pensava che non fosse una cosa da poco; piuttosto, indossò l’armatura completa, perché era un abile cavaliere; non voleva che niente fosse quello, ma non era leale. E così, ben vestito egli stesso, venne verso di noi con tutto quel seguito, e noi verso di lui. E quando arrivammo all’attacco, una delizia molti dei nostri almugavar smontarono dai loro cavalli, perché erano più audaci a piedi che a cavallo; e tutti noi attaccammo molto vigorosamente, e similmente loro.”
All’alba gli almogaveri si confessarono, presero comunione, e salirono sulla cima del monte, in armi, dove furono avvistati dai soldati di Michele IX, nella piana di sotto. Il nemico, vedendoli così pochi, pensò che stessero venendo per parlamentare, forse per arrendersi, ma il figlio dell’imperatore non era così sciocco da incontrarli senza precauzioni.
I bizantini andarono incontro agli almogaveri, anche loro vestiti di guerra, compreso Michele, con l’armatura completa e, come preventivato, non ci fu alcuna discussione. I catalani e gli aragonesi al suono di trombe e nacchere si lanciarono all’assalto, a piedi e cavallo, e i bizantini fecero lo stesso.
“Cosa devo dirti? piacque a Dio che questa avanguardia fosse sconfitta come nell’altra battaglia, eccetto il figlio dell’imperatore, il quale, con un centinaio di cavalieri, andò a combattere tra noi, tanto che ferì in uno dei suoi attacchi, un marinaio chiamato Berenguer Ff. che era su un cavallo prezioso che aveva preso nella prima battaglia e indossava anche bellissime corazze, che aveva ottenuto nello stesso modo; ma non portava scudo, perché non sapeva maneggiarlo a cavallo. E il figlio dell’imperatore pensò che fosse un uomo di grande importanza, e gli diede un colpo con la spada sul braccio sinistro e lo ferì alla mano.”
La battaglia infuriava e Michele IX si lanciò nella mischia coi suoi cavalieri. Scorse un almogavaro che montava un destriero prezioso, con armatura bellissima, e “Il figlio dell’imperatore pensò che fosse un uomo di grande importanza”. Ma in realtà quell’almogavaro era un marinaio divenuto ricchissimo grazie alla precedente battaglia, così come lo erano diventati molti altri semplici masnadieri nelle sue stesse condizioni. Il fatto che non fosse un vero cavaliere, è testimoniato dall’assenza dello scudo, “perché non sapeva maneggiarlo a cavallo”. Qualunque vero cavaliere sarebbe stato in grado di portare lo scudo a cavallo, proprio come viene insegnato in gioventù assieme al maneggio della lancia, della spada, e delle tecniche fondamentali dell’arte del combattimento in sella.
Michele IX ingaggiò un duello di spada col semplice almogavaro vestito da gran signore, e gli assestò un colpo alla mano.
“Ed egli, vedendosi ferito, ed essendo giovane e animoso, gli andò vicino e, con un pugnale che aveva, gli diede ben tredici colpi. Con uno lo ha ferito al volto ed era abbastanza sfigurato, e poi lasciò cadere lo scudo e cadde da cavallo. E i suoi uomini lo portarono fuori dalla mischia che era grande (e non sapevamo che fosse lui) e lo misero nel castello di Apros.”
L’almogavaro ferito dal figlio dell’imperatore, “essendo giovane e animoso”, rispose all’assalto cavalleresco come meglio sapeva fare: estrasse il pugnale, si avvicinò in corpo a corpo e affondò la lama tredici volte.
Michele IX, assalito dal masnadiere vestito come un nobile (ma che combatteva alla stregua di un pirata), fu ferito al volto tanto da rimanere “abbastanza sfigurato”. Lasciò cadere lo scudo e cadde da cavallo. I suoi lo soccorsero all’istante e lo portarono fuori dalla grande mischia, fino al castello, in mezzo alla confusione. Nessuno si accorse che l’assassino di Cesare era vinto.
“E poi la battaglia fu durissima fino a notte fonda. E Dio, che fa bene ogni cosa, dispose in modo tale che tutti si scompigliassero intorno al castello e tutti fuggissero ad esso chi poteva raggiungerlo. Ma, per quanto molti fuggissero, tuttavia morirono di loro più di diecimila cavalli e un’infinità di uomini a piedi; ma dei nostri non furono uccisi più di nove cavalli e ventisette fanti. E così, quella notte, siamo rimasti sul campo di battaglia, tutti in armatura, e il giorno dopo, quando abbiamo pensato che ci avrebbero dato di nuovo battaglia, non abbiamo trovato nessuno di loro nel campo. E siamo andati al castello e l’abbiamo attaccato e siamo rimasti lì per otto giorni interi. E perlustrammo il campo e portammo via con noi dieci carri pieni, ciascuno trainato da quattro bufali, e tanto bestiame che copriva la terra. E avevamo ottenuto guadagni infiniti, molto più che nella prima battaglia. E da quell’ora tutta la Romania fu conquistata e noi avevamo messo tanta paura nei loro cuori, che non potevamo gridare “Franchi” che erano subito disposti a fuggire. E così, con grande gioia, tornammo a Gallipoli. E poi, ogni giorno, facevamo incursioni e razziavamo fino alle porte di Costantinopoli. Avvenne un giorno che un almugavar a cavallo, chiamato Perico de Naclara, avesse perso in gioco, e lui e due figli che aveva, prese le armi e senza altra compagnia, andarono a piedi a Costantinopoli. E trovò in un giardino dell’imperatore due mercanti genovesi che tiravano quaglie; e li prese e li portò a Gallipoli e ottenne tremila iperperi d’oro, come riscatto, e un iperper vale due sueldos di Barcellona. E tali incursioni venivano fatte ogni giorno.”
La battaglia proseguì fino al tramontare del sole. I bizantini furono sconfitti e cominciarono a fuggire. Molti si rifugiarono nel castello, molti altri invece si allontanarono del tutto. Le perdite del nemico vengono stimate da Muntaner in più di 10.000 cavalieri e “un’infinità di fanti”, mentre le perdite degli almogaveri, ricalcando le tradizioni letterarie dell’epica cavalleresca, furono di 9 cavalieri e 27 fanti.
La Compagnia Catalana restò tutta la notte sul campo, in armatura, attendendo il giorno e un aspettato contrattacco delle forze nemiche, ancora ingenti. Ma non avvenne niente di tutto ciò. L’esercito di Michele IX si disperse. Perciò gli almogaveri mossero contro il castello di Apros, lo conquistarono, sterminarono e saccheggiarono, aggiungendo ricchezze su ricchezze, tanto da portar via “dieci carri pieni, ciascuno trainato da quattro bufali, e tanto bestiame che copriva la terra”.
Michele IX era sconfitto, e l’intera Tracia assoggettata a quei masnadieri degli almogaveri, che da quel momento in poi diedero inizio a una famelica scorreria che durò mesi, se non anni, devastando la terra dei bizantini fino alle porte di Costantinopoli, dove l’imperatore Andronico II stava rinchiuso, inerme. La Vendetta Catalana fu consumata lentamente, incursione dopo incursione, “e avevamo messo tanta paura nei loro cuori, che non potevamo gridare “Franchi” che erano subito disposti a fuggire.”
CCXXII “Come la Compagnia saccheggiò le città di Rodosto e di Panido. e come fecero a Rodosto ciò che era stato fatto ai loro messaggeri; e come si trasferirono a Rodosto ea Panido e come En Ferran Ximeno de Arenos venne a soccorrerli. E quando tutto ciò fu finito e la terra era stata razziata ogni giorno, la Compagnia decise di andare a saccheggiare la città di Rodosto, dove i nostri messaggeri erano stati uccisi e acquartierati e gli alloggi gettati nel caos. E come hanno deciso, così è stato fatto. Andarono una mattina all’alba e, con tutta la gente che trovarono in quella città, uomini, donne e bambini, fecero quello che avevano fatto ai messaggeri; poiché nessun uomo sulla terra avrebbe desistito. Ed è stato sicuramente un atto molto crudele, tuttavia hanno portato a questa vendetta.”
Dopo aver devastato la regione, gli almogaveri, ormai in preda a una frenesia sanguinaria incontrastabile, mossero verso la città di Rodosto, dove a suo tempo l’ambasceria che avrebbe dovuto sfidare l’imperatore fu catturata e squartata. Per vendicarsi, la Compagnia Catalana mise in piedi una punizione crudele, poiché una mattina, all’alba, entrarono in città e sterminarono la popolazione per fare loro ciò che avevano fatto ai messaggeri, “uomini, donne e bambini”.
Ramon Muntaner, qui, ammette le crudeltà dei suoi compagni d’arme, e la narrazione della sua cronaca torna in terza persona plurale. Egli non dice d’essere stato presente, né di aver messo mano alla spada, quel giorno. Anzi, più avanti specifica di essere rimasto a Gallipoli con i marinai, 100 almogaveri e 50 cavalieri.
“E fatto ciò, andarono a prendere un’altra città, che è distante dall’altra mezza lega e si chiama Panido. E quando ebbero prese queste due città, pensarono bene che vi si trasferissero tutti con le mogli, i figli e le amanti, tranne io, che rimasi a Gallipoli con i marinai e con cento almugavar e cinquanta cavalieri. E così fecero, si trasferirono a Panido e a Rodosto perché queste città erano a sessanta miglia da Costantinopoli. E quando la Compagnia fu così stabilita, En Ferran Ximeno de Arenos (che si era separato dal Granduca ad Artaqui il primo inverno a causa di dissensi che aveva avuto con lui, ed era andato dal duca di Atene che gli mostrò molto onore) seppe che eravamo stati così vittoriosi sui nostri nemici; così, cavaliere com’era esperto, credendo che ci fosse bisogno di una compagnia, venne da noi dalla Morea con una galea e portò ottanta uomini, catalani e aragonesi. E tutti furono molto contenti e tutti ne fummo ristorati, e tutti gli davamo tanto che lui e la sua compagnia erano molto ben montati, e li provvedevamo bene di tutte le cose, come avremmo fatto per mille, se ci erano stati mille.”
La Vendetta Catalana dilaniò l’Impero Romano d’Oriente per molto tempo, ancora. Quei masnadieri di terra e di mare si sparsero per tutta la Grecia e l’Anatolia, ammazzando e predando, finché l’impeto non scemò e le ragioni iniziali furono messe da parte. All’interno della stessa Compagnia Catalana si crearono dissensi, e i cavalieri che un tempo erano stati fratelli ai comandi di Ruggero da Fiore, finirono per separarsi, giurando fedeltà all’uno e all’altro signore, oppure tornandosene in Sicilia o nella stessa Spagna.
Michele IX fu costretto a dedicarsi a molte altre questioni di politica estera, per tenere in piedi l’impero traballante che si avviava verso una naturale conclusione. Finché, debilitato nello spirito e nel corpo (anche per via della coltellata presa in pieno volto dall’umile almogavaro vestito da gran cavaliere) morì di ictus svariati anni dopo. Anche se qualcuno afferma che sia morto dal dispiacere quando fu assassinato uno dei suoi figli.
Iscriviti alla newsletter per non perdere i racconti degli episodi storici più emozionanti, qui, sul blog, e restare aggiornato sulle mie ultime uscite in libreria, fra cui “La Stirpe delle Ossa”, un romanzo che racchiude le grandi tematiche del sacrificio, dell’eroismo e dell’avventura. E “La Canzone dei Morti“.
- Nella cronaca originale è chiamato Frare Vassayll: titolo, quello di “frare” che, posto prima del nome, nell’armata spagnola è assimilabile al cappellano militare (capellán militar). Considerato che egli era fratello sergente dell’ordine monastico templare, ho deciso di tradurre “frare” nell’italiano “fratello”, allo stesso modo di fratello Ruggero da Fiore. ↩
- Alan J. Forey, The Templars and the sea ↩
- L’influsso delle marinerie nordiche sullo sviluppo del naviglio mediterraneo: un tema controverso, Antonio Musarra ↩
- La marina da guerra genovese nel tardo medioevo. In cerca d’un modello, Antonio Musarra. ↩
- Acri, 1291. Antonio Musarra ↩
- “Arricchitosi in Acri in mezzo alle sventure dei fratelli, cacciato dal gran maestro dell’Ordine per misfatti e per invidie” Cronache catalane del secolo XIII e XIV, una di Raimondo Muntaner, l’altra di Bernardo d’Esclot. Prima traduzione italiana di Filippo Moisè ↩
- Le morti più bizzarre del medioevo - 24 Novembre 2024
- La Spada magica di Cesare - 10 Novembre 2024
- John Rackam Alias Calico Jack - 7 Luglio 2024