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30 Agosto 2023

Le streghe nell’antica Grecia e Roma

le streghe dell'antica Grecia e Roma

L’origine delle streghe nell’antichità greco-romana: tra magia e necromanzia nella misteriosa Tessaglia

Chi è la strega? Esistono molte streghe, in verità. La parola stessa, oggigiorno, nell’immaginario collettivo derivato dalle opere letterarie, assume innumerevoli significati. Ciascuno di noi immagina una strega diversa. Vi è la strega di mestiere (la levatrice, l’erborista, la sverminatrice), quella che se ne intende, insomma; le cui capacità derivano da un’approfondita (e segreta) conoscenza del ciclo vitale degli esseri umani, e del mondo naturale (erbe, intrugli, filtri, pozioni). Vi è la strega che è accusata d’essere tale, ma che in realtà non lo è: la classica fanciulla innocente, perseguitata da folle di contadini superstiziosi coi forconi e inquisitori vari. E vi è anche la strega che è consapevole d’esserlo, che va ai sabba di notte volando con la scopa perché è in combutta col Diavolo, sghignazzando con la tipica risatina. Vi è, poi, la strega mostruosa, orrida quanto crudele, vera e propria creatura soprannaturale, che non appartiene all’umanità, che non è un essere umano, (spesso presente nei film horror) dotata di poteri spaventosi. 

Tanti personaggi, tutti femminili, che rispondono a un unico nome, nonostante le differenze. Perché la parola “strega” non possiede un significato univoco. Nel corso dei secoli, e a seconda dei luoghi geografici, tale significato è mutato, talvolta assumendo una sfumatura diversa, talvolta ribaltando completamente la sua concezione. L’etimologia stessa è fumosa. Difficile stabilire quando si sia diffuso il termine. Molti storici concordano nel farlo risalire al latino strix, striges, ovvero gli uccelli notturni, come i gufi, i barbagianni, che oggi per l’appunto si definiscono strigidi, e che le loro personificazioni, nel folclore greco-romano, rapivano i bambini e addirittura succhiavano sangue umano; credenze che alcuni interpretano all’origine di un’altra figura folcloristica: il vampiro.

In questo calderone di credenze, però, c’è un elemento comune: qualcosa che accomuna le streghe comparse nelle opere antiche e medievali prima della loro rivalutazione tramite le correnti letterarie moderne, il neopaganesimo, l’esoterismo new age… tale caratteristica, presente in ogni strega, era la malvagità. Le streghe erano rappresentate come crudeli soprattutto perché praticavano la magia andando contro le consuetudini religiose o addirittura le religioni stesse (badate bene, non solo la religione cristiana, ma le streghe andavano contro anche ai culti cosiddetti pagani, e agli dèi, come quelli greco-romani, e fra poco lo vedremo).

Praticavano la magia, ma non solo: la loro magia era nera.

La strega praticava la magia nera, nel medioevo definita con un termine specifico: la negromanzia. Dal latino nigrum, che vuol dire nero, oscuro. Un termine che purtroppo, oggigiorno, attraverso i socialmedia pesantemente censori, ostacola la diffusione di gran parte dei miei contenuti (che si fondano proprio su queste tematiche), perché preventivamente oscurato, sui social, sulle piattaforme video, ecc… “negromanzia” non piace ai vari algoritmi nonostante non abbia evidentemente nulla a che fare col motivo per il quale viene censurato. Ma io lo scrivo e lo pronuncio lo stesso. Perché non è impoverendo la lingua in maniera automatizzata, alla cieca, che si conquistano diritti sociali. E poi, in ogni caso, il mio podcast “Storia della Magia” fa comunque migliaia di download ogni giorno, quindi vuol dire che la passione per la storia non può essere frenata dalla censura.

Con la negromanzia salta subito fuori la vicinanza tra la strega e il mondo del sottosuolo, dell’Aldilà. Perché “negromanzia” è un termine latino che come molti altri deriva dal greco, e che quindi ne eredita l’origine concettuale. La negromanzia medievale non è altro che l’evoluzione di una forma divinatoria pagana, ovvero la necromanzia. Dal greco necros (morto) e manteia (divinazione): La divinazione dei morti. O più precisamente, coi morti. Negromanzia e Necromanzia, termini diversi, che non si possono usare come sinonimi, come invece viene fatto oggi, soprattutto per scampare alla censura. Anche perché rispecchiano epoche diverse. Millenni diversi.

Esistevano molte forme di divinazione nell’antica Grecia: dall’ascolto degli oracoli, all’interpretazione delle viscere animali. E poi le forme di predizione legate agli elementi: piromanzia, aeromanzia, idromanzia, geomanzia (fuoco, aria, acqua, terra). Ciascuna di queste arti permetteva di profetizzare gli eventi con l’osservazione e l’interpretazione delle dinamiche naturali, anche semplici: gettare oggetti o ingredienti tra le fiamme per studiarne il movimento, il colore; gettarli nell’acqua per vedere le increspature, il disegno dei cerchi in superficie; smuovere la terra con le mani; oppure alzare lo sguardo al cielo e leggere le nubi, i venti, la pioggia.

E anche la capacità di interpretare movimenti di una bacchetta, la rabdhos (che significa verga, bacchetta, e talvolta anche bastone, inteso come bastone di potere), dando origine alla rabdomanzia (divinazione con la bacchetta). Tra tutte queste forme magiche spicca per inquietudine e indiscutibile fascino narrativo, la necromanzia.

Necromanzia, divinazione antichissima, che deriva dalla Nèkyia, ovvero l’interrogazione dei morti (talvolta effettuata con una discesa vera e propria nel sottosuolo, come fanno alcuni eroi mitologici), che a sua volta deriva da una forma di contatto con l’Aldilà ancora più antica che è la psicagogia, di cui abbiamo un esempio nella tragedia degli Evocatori, di Eschilo del V secolo avanti Cristo. Gli psicagogoi erano gli evocatori di ombre, o spiriti dei defunti, spesso tradotti in italiano semplicemente come “evocatori”, che perseguivano lo scopo di evocare i morti per pacificarli, e non interrogarli: ecco la sostanziale differenza con la necromanzia successiva. Per approfondire queste tematiche, consiglio l’ascolto del mio podcast “Storia della Magia”, disponibile su tutte le piattaforme di streaming.

Dalla tarda antichità in poi cominciarono a diffondersi sempre più storie di streghe. Ma, inizialmente, non erano chiamate così. Un termine con cui venivano identificate potrebbe essere tradotto in italiano più o meno come donne sagaci (“sagae mulieres”, Apuleio, l’asino d’oro) oppure vecchie oscene (Orazio, Epode V su Canidia), oppure maghe, malìe o lamie. Finché non affiorò finalmente anche il termine che diventerà il più utilizzato, assorbendo tutti gli altri.

Plauto, Petronio, Properzio definiscono Striges, Strix, Strigibus le donne che influivano maleficamente sugli uomini, che preparavano intrugli, che compivano orrendi riti con calderoni e cadaveri: un nome che comincia a soppiantare e inglobare tutti gli altri. Questa è la base letteraria da cui ha attinto la figura della strega, nel corso della Tarda Antichità, soprattutto per quanto riguarda le malefiche donne di una regione, in particolare: la Tessaglia.

La Tessaglia, la più grande regione dell’Antica Grecia, celebre per i suoi leggendari cavalli (fra i quali si ricorda Bucefalo, destriero di Alessandro Magno) ma soprattutto per i riti occulti svolti al tramontar del sole, fra orridi sepolcri e tenebrosi boschi di tasso. L’origine della stregoneria sta tutta lì, in quella terra esoterica, dove le storie mitologiche danno vita a personaggi ancora oggi famosi per i loro filtri incantati, rituali di necromanzia e magia nera.

Aglaonice, l’astronoma che sapeva nascondere la luna, descritta da Plutarco1; Erichto, la necromante mangia cadaveri del Farsaglia di Lucano; Canidia, la maga descritta da Orazio, che sacrificava bambini per produrre filtri d’amore2: queste sono solo alcune delle streghe di Tessaglia, donne capaci di poteri sovrannaturali che perfino gli dei temevano.

Nelle “Metamorfosi” di Apuleio, un’opera scritta nel tardo II secolo e chiamata anche “L’asino d’oro”, vengono narrati alcuni brani in cui compaiono queste “donne sagaci”, come vengono definite in questo specifico testo. Un testo spesso associato al “romanzo” per via della scrittura in prosa e dell’intreccio narrativo di una modernità affascinante. Sicuramente un modello d’ispirazione (specialmente per me che amo scrivere narrativa), pieno di dettagli così vividi che si fa fatica a credere che abbia quasi duemila anni.

Il protagonista de L’asino d’oro è un giovane di nome Lucio, appena arrivato in Tessaglia, spinto dalla voglia di conoscere i misteri che caratterizzano la meta più esoterica di tutta la Grecia. Le sue avventure vanno ad abbracciare svariati aspetti della magia antica, a cominciare dalla maledizione che lo condanna a una trasformazione bestiale, in asino: un asino che però conserva la consapevolezza di sé e il raziocinio umano.

All’interno dell’opera sono presenti vere e proprie chicche da letteratura dell’orrore, di cui voglio raccontarne due, in particolare. Si tratta di intermezzi narrativi, racconti nel racconto, narrati da personaggi secondari, come nel caso dello sventurato Telifrone, vittima di una maledizione tra le più orribili mai scritte.

Gli estratti di testo cui farò riferimento provengono dalla volgarizzazione cinquecentesca di Agnolo da Firenzuola, dunque sono conditi di richiami culturali estranei al mondo greco-romano, come termini connessi alla religione cristiana, nomi propri di persona ed espressioni dialettali. Possono essere colti e isolati facilmente, oppure ignorati, non ha importanza ai fini del racconto.

“Essendo io giovanetto andato in Candia (Tessaglia) per alcune mie bisogne, e desiderando eziandio di vedere i famosi luoghi di quella isola, avendola cercata tutta, capitai con pessimo augurio alla Cania; ed essendomi in parte mancato la provvisione del viaggio, mentre che io rifrustando ogni cantone m’andava provvedendo delle cose necessarie alla mia povertà, arrivato a caso in sulla piazza, io vidi un vecchione assai grande starsi in su un petrone, e con chiara voce gridando diceva, che quelli che volessero venire a guardare un morto, dicessero quanto pregio egli volevano. Laonde io, voltomi a un che passava, dissi: Or che è quello ch’io sento? o sogliono fuggire i morti in questo paese? Sta cheto, rispose colui allora, che tu mostri ben d’esser giovane e forestiero, e perciocchè non ti ricordi di essere in Candia, ove le streghe per ogni canto vanno morsicando il viso de’ morti, e con quelle coserelle fanno poscia i loro incantamenti. Ed io a lui: E quanto, se Dio ti guardi, si dà egli per far la guardia a questi morti? La prima cosa, rispose, tu avrai una mala notte, senza posarti pur un attimo d’ora, senza levar mai gli occhi d’addosso al morto, nè voltar le luci, anzi pur torcerle in altra parte; perciocchè queste maledette vecchiarde si trasmutano d’animale in animale, com’elle vogliono, sì nascosamente, ch’elle ingannerebbon gli occhi del Sole e della giustizia; e or sono uccelli, or cani, e poco poi e topi e mosche; e allora con loro empie parole velano gli occhi di queste guardie con nebbia di sonno foltissima, e non sarebbe alcuno che potesse raccontare quante trappole trovano queste male femmine per saziar la loro disonesta rabbia: e nientedimeno, egli non si dà per guiderdone di così faticosa faccenda mai più che la mercede di quattro o al più sei ducati d’oro. Oh (quel che importa più, ed io me n’era quasi scordato), se alcuno non restituisce poscia la mattina il corpo intero siccome egli era, tutto quello che si li trovasse manco, tutto quello è sforzato il guardiano a rappiccargliele col viso suo.”

La prima storia vede il giovane Telifrone partire per la Tessaglia nei panni di un visitatore spiantato, senza soldi. Il suo obiettivo era quello di vedere i famosi luoghi di quell’isola: una sorta di turista antico ante litteram. Giungendo nella piazza di una città, si trovò ad ascoltare un anziano, ritto su un pietrone, che con voce alta si rivolgeva ai passanti offrendo un lavoro particolare: far la guardia a un morto. Telifrone, che aveva bisogno di soldi per proseguire il suo viaggio, chiese che tipo di incarico fosse e se, per caso, in quella regione solevano fuggire via i morti. L’anziano gli rispose di stare attento a quel che diceva, visto che era forestiero. Perché in Tessaglia le streghe vagavano per ogni canto morsicando il viso dei morti, e coi pezzi dei cadaveri ci facevano i loro incantamenti.

Le streghe di Tessaglia erano conosciute per la loro insaziabile fame di carne morta e organi. Per procurarseli vagavano di sepolcro in sepolcro, anche se talvolta preferivano i morti più “freschi”, quelli ancora da seppellire, presentandosi alle cerimonie funebri o al termine dei processi, arrampicandosi sui pali della forca per azzannare i condannati che penzolavano3.

Telifrone, che ancora non credeva molto a queste cose, chiese quanto fosse la paga. Ma l’anziano lo avvertì che, a prescindere dalla paga, sarebbe stata una notte d’Inferno, e che non avrebbe mai potuto distogliere lo sguardo per un solo istante dal cadavere, perché quelle donne sagaci si tramutavano in qualsiasi animale, come uccelli, topi e addirittura mosche, per avvicinarsi agli uomini e colpirli con una nebbia di sonno magica; in modo da razziare le membra del cadavere, indisturbate.

“Avendo io adunque inteso queste cotali cose, non impaurito miga per così gran pericolo, anzi facendo un cuor di leone, me ne andai dal banditore, e dissi: Olà, non chiamar più, ecco il guardiano apparrecchiato: quanti danari si danno? Sei ducati saranno depositati: ma vedi, quel giovane, guarda che tu custodisca con diligenzia da queste male arpie costui, che è figliuolo del primo gentiluomo di questa città. Tu vuoi la baia, non è il vero? dissi allotta, e da’mi ciance: non vedi tu un uomo di ferro, e da non dormir mai, che vede più discosto che Linceo, o Argo? io son tutt’occhi finalmente. Appena aveva io finite queste parole, ch’egli mi prese per mano, e condussemi a una certa casa: nella quale, perciocchè le porte eran serrate, io entrai per uno sportello, dove mi fu mostro una certa stanza che aveva chiuso l’uscio e le finestre, ed era tutta scura; appresso della quale si sedeva una matrona tutta piena di lagrime, e vestita a bruno; a cui disse quegli che mi menava: ecco costui, il quale è condotto alla guardia del tuo marito, venuto senza paura veruna. Alle cui parole ella, mandandosi parte de’ capelli che le pendevano dinanzi, da un lato, e parte dall’altro, nè potendo fra tante lagrime nascondere la sua maravigliosa bellezza, voltamisi, disse: Vedi quel giovane, di far l’uficio tuo vigilantemente. Non aver pensier di nulla, risposi, purchè tu mi usi di soprappiù qualche cortesia. Ed ella, accennando di far ciò che io voleva, subito rizzatasi, mi menò a quella camera dove era il morto, e, in presenza di sette testimoni, levatili d’addosso alcuni sottilissimi veli, me lo scoperse; e posciach’ell’ebbe pianto un pezzo, con gran sollecitudine dimostrandomi le di lui parti per ordine, secondo ch’elle erano scritte in su un foglio, diceva: Ecco il naso intero, ecco gli occhi senza mancamento, ecco gli orecchi sani, ecco le labbra tutte, ecco il mento saldo: voi, gli miei cittadini, ne renderete testimonianza. E avendo dette queste parole, e suggellato quel foglio, volendosi partire, io le dissi: Ordina, Madonna, ch’egli mi sia portato tutte quelle cose che mi fanno bisogno intorno a di ciò. E che cose son queste? diss’ella. Una lucerna assai ben grande, risposi, e olio che basti a far lume sino al giorno, e dell’acqua, con un fiasco di vino, e un bicchiere, e una tavoletta piena di quelle cosette che vi sono avanzate questa sera a cena. Allora ella, scotendo il capo: Deh va via, pazzo: che cena in casa dove si fa bruno? e vuoi le reliquie donde tanti di sono che e’ non ci s’è veduto mai fummo, non che fuoco? e credi tu venire a sguazzar qua, dove non è convenevole fare altro che piagnere e lamentarsi? E così dicendo, voltasi a una sua serva, seguitò: Va portagli dell’olio e una lucerna spacciatamente; e serratolo poi in camera, vientene allora allora.”

A Telifrone tutte queste cose uscirono dalle orecchie quando scoprì che la paga era abbastanza alta. Quindi disse all’anziano di non cercare più nessuno, perché sarebbe stato lui a fare la guardia al morto. Venne scortato in una casa sprangata, con tutte le finestre serrate, all’interno di una stanza buia, dove giaceva il cadavere vegliato da una signora bellissima, vestita a lutto, e col volto bagnato di lacrime: la vedova. Al cospetto di sette testimoni venne rimosso il sudario e messo per iscritto che il cadavere possedeva tutti gli organi, e venne pure stilato un macabro elenco: perché nel caso in cui si fossero presentate le streghe di Tessaglia per derubarlo di qualche pezzo, lo stesso Telifrone, suo guardiano, avrebbe dovuto rimpiazzare le parti mancanti con le proprie.

“Lasciato adunque solo a quel sollazzo di quel corpo morto, strofinandomi gli occhi, per armargli alla veglia, e trastullandomi con alcuna canzonetta, eccoti la notte, ecco le due ore, ecco le quattro, e la paura tuttavia cresceva: e in sulle cinque, allora quando il filatoio girava davvero, eccoti venire una donnola, e pormisi dirimpetto; la quale guardando fiso fiso, non mi levava mai occhi d’addosso. Volete voi altro? che un così picciolo animaletto, per la sua perfidia di quel guardarmi, mi conturbò più che cosa che mi fosse incontrata quella notte! Pur la paura mi diede al fine tanto ardire, che voltandomele con mal piglio, le dissi: Che non ti parti tu, brutta besticciuola, e vatti a riporre co’ topolini simili a te, se tu non vuoi sperimentar le mie forze adesso adesso? Ed ella allora, voltatemi le spalle, sparì via: nè vi andò guari, che egli mi entrò addosso un sonno sì grande, che altri non avrebbe saputo troppo agevolmente discernere chi di noi due che giacevamo, fosse stato il morto; sicchè senza sensi rimaso, e avendo bisogno d’un che guardasse me, me n’era andato altrove; e stetti così tanto, che i galli cantando, facevano la parte della lor guardia: al cui romore destomi tutto pien di paura, me ne andai da quel corpo morto, e levato il velo, e accostato il lume, il guardai con diligenza. E mentre che io mi rallegrava, veggendo che e’ non gli mancava niente, quella meschinella della moglie, co’ testimoni del dì dinanzi, s’entrò in camera tutta affannata, e gittatasi subitamente sopra di quel corpo, e baciatolo infinite volte, così colla lucerna in mano, gli riconobbe tutte le membra sue. Perchè voltasi, dimande di Niccolò, e gli impose, che senza indugio egli desse al buon guardiano la sua mercede: la quale come prima ebbi ricevuta, ella mi disse: Giovane, noi ti ringraziamo sommamente; e in verità, che per questa tua estrema diligenza, noi ti avremo sempre in luogo degli altri famigliari. Ed io che per lo inaspettato guadagno tutto mi stemperava d’allegrezza, abbagliato in quello splendor di que’ ducati, che mi ballavan per mano, risposi: Anzi, la mia padrona, fa stima ch’io sia uno de’ tuoi servi; e facciati pur bisogno dell’opera mia, come ti accorgerai che io ti son sempre per servire fedelissimamente. Appena aveva io finite queste parole, che gli famigliari di casa mi furono intorno alle costole; quello mi percoteva le guance colle pugna, quell’altro mi caricava le spalle colle gomitate, chi mi batteva i fianchi colle palme, altri mi dava de’ calci; molti mi tiravano i capelli, e non mancava chi mi stracciasse la veste; e in guisa del misero Orfeo, tutto fracassato e pieno di sangue fui cacciato di casa.”

Con una sola lampada a olio come strumento per combattere l’oscurità, Telifrone rimase da solo e si preparò a trascorrere la notte di guardia, ai piedi del cadavere. Dopo un bel po’ di tempo passato a cantare canzonette, per tenersi sveglio, si trovò davanti una donnola, entrata da chissà quale pertugio. Spaventato, le gridò contro per cacciarla via e subito un sonno pesante lo colse, costringendolo ad arrendersi alla notte. Telifrone s’addormentò.

Al suo risveglio, terrorizzato, corse a vedere il cadavere, ma scoperto il sudario lo vide ancora intatto: nessun organo mancava all’appello. Nonostante tutto, la sua missione era andata a buon fine. La vedova ricompensò Telifrone, ringraziandolo. E Telifrone, ingenuamente, disse che sarebbe tornato volentieri a lavorar per loro, visto quanto era stato facile. Ma le sue parole suonarono come un augurio di morte nei confronti di un altro membro di quella famiglia, e dunque lo inseguirono fino sull’uscio, pestandolo e picchiandolo, menandogli calci e tirandogli i capelli. Telifrone, tutto fracassato e pieno di sangue, fu cacciato via con le sue monete.

“E mentre che io tutto angoscioso per ricrearmi un poco mi stava su una piazza lì vicina, e che ricordatomi, ma troppo tardi, delle inconsiderate mie parole, da me stesso confessava d’essere stato trattato troppo più modestamente che io non meritava; eccoti arrivare il morto che io aveva guardato, il quale, finito tutte le cerimonie secondo il costume di quella città, era menato per li più celebrati luoghi al sotterratorio con una grandissima pompa. Veniva appresso alla bara un vecchio tutto canuto, pieno di lagrime e di angoscia, e spingendo assai sovente ambe le mani verso il morto corpo, con voce stridente, ma da molti sospiri impedita, gridava: Per la vostra fede, i miei cittadini, per la pubblica pietà soccorrete al morto cittadino, o punite severamente l’empio fallo di questa scellerata e impurissima femmina: questa sola, questa, e niuno altro, per compiacere al suo adultero, e mettere le rapaci unghie nella di lui eredità, ha con veleno ammazzato il misero giovinetto, d’una mia sorella desideratissimo figliuolo. Con questi e altri così fatti rammarichii empieva il vecchione le orecchie di tutti coloro che quivi arrivavano; laonde il popolo, perciocchè la cosa aveva del verisimile, assalito da una fiera crudeltà, gridava ch’ella aveva meritato il fuoco; e instigavano i fanciulli a correre a casa della malvagia donna a lapidarla: la quale, essendosi armata delle donnesche armi, piena di lagrime, con quella più simulata religione che poteva, chiamando Dio e i santi per testimoni, negava aver commesso l’abbominevol peccato. Perchè disse il vecchione: Rimettiamo il giudicio di questa cosa nello arbitrio della divina providenza. Egli ci è Zacla egizio, profeta grandissimo, il quale già si è convenuto meco per ingordissimo pregio di far tornare dal profondo inferno la costui anima, e di nuovo porla entro al morto corpo. E mentre che egli diceva queste parole, egli fece venir quivi nel mezzo un certo giovane, vestito di sacco, colle scarpe di palma, e col capo raso: e avendogli più fiate baciate le mani, e abbracciate le ginocchia: Abbi misericordia, gli disse, sacerdote, abbi misericordia di me per le stelle del cielo, per i mobili angeli, per li naturali elementi, per i taciti silenzi della notte, per gli argini delle rondini, e per le inondazioni del Nilo, per li segreti misteri dell’Egitto, e li cembali di Faro; presta a costui un picciolo spazio di vita, e inspira un poco di luce in quegli occhi, che sono accecati in sempiterno: noi non lo rivogliamo per sempre, nè alla terra neghiamo il suo tributo; ma per sollazzo della vendetta chieggiamo un brevissimo intervallo di vita. Scongiurato il profeta per quella maniera, senza altro dire, pose una erbetta alla bocca del morto giovane tre volte, e un’altra al petto; e poscia voltosi verso l’Oriente, e tacitamente adorata la potenzia dello illustrante Sole, con così venerevole spettacolo trasse tutti i circostanti a vedere un così fatto miracolo. Io mi cacciai là fra la turba, e salito sopra d’un sasso, ch’era vicino alla bara, assai ben sollevato, curiosamente stava riguardando che fine dovesse aver questa faccenda.”

Il nostro se ne andò, quindi, ripensando alle sue sconsiderate parole. Ma poco dopo si vide passare accanto il corteo funebre del cadavere che aveva appena vegliato. Corteo parecchio movimentato, poiché un parente del morto si levò tra la folla per accusare la vedova d’aver avvelenato il marito; il tutto per buscarsi l’eredità. La stessa donna che aveva pagato Telifrone per vegliare, insomma. La folla, scossa da simili parole, si spaccò a metà fra chi patteggiava per la vedova e chi per il parente. Ed è a questo punto che entrò in scena Zacla (o Zachla), sacerdote della dea Iside e necromante. Costui, cultista della religione egizia e mago molto potente (paragonabile alle stesse streghe di Tessaglia), si propose di riportare in vita il defunto per interrogarlo, mettendo in scena un rito necromantico di origini esotiche.

Nel contesto greco-romano tardo-antico, la magia egizia faceva parte del folclore e, soprattutto, del mondo segreto delle religioni misteriche. I sacerdoti, come questo Zacla, erano celebri per i loro presunti poteri, persino tra i romani.

“Vestito di sacco, colle scarpe di palma, e col capo raso, Zacla si avvicinò, pose una erbetta alla bocca del morto tre volte, e un’altra al petto; e poscia voltosi verso l’Oriente, e tacitamente adorata la potenzia dello illustrante Sole, con così venerevole spettacolo trasse tutti i circostanti a vedere un così fatto miracolo.”

Il rituale funzionò. Il cadavere gonfiò il petto, si rizzò a sedere e parlò: “Per quale ragione, nonostante io abbia bagnato le labbra entro alle onde del fiume Lete, e solcata la stigia palude, mi riducete di nuovo in questo spiacevole corpo?” Come da tradizione necromantica, l’anima del defunto non voleva tornare nel vecchio corpo, specialmente se aveva già incominciato il viaggio nelle paludi stigie. Ma Zacla l’egizio, determinato, lo minacciò invocando le furie infernali per tormentarlo, se non avesse rivelato alla folla la causa della sua morte. Allora, il cadavere si rivolse al popolo e confessò: “Io sono stato tolto da questa che voi chiamate vita per gl’inganni della mia novella sposa, e sforzato dal venenoso beveraggio lasciai con violente prestezza vuoto allo adultero suo il santo letto matrimoniale.”

A quel punto, la vedova si scagliò contro il defunto marito, ringhiandogli contro che aveva torto, mentre la folla impazziva, tra chi voleva credere al morto e chi alla vedova. Allora il defunto disse che avrebbe dato a tutti la prova inconfutabile che i morti dicono sempre il vero. Mosse il dito contro il nostro Telifrone, che si era soffermato per assistere allo spettacolo. E disse: “Le streghe dopo aver addormentato il mio guardiano, cominciarono a chiamarmi per nome, ma per un caso eccezionale, il mio nome è lo stesso del guardiano. Il quale, dormendo, si alzò per barcollare verso le streghe e offrir loro i pezzi al posto mio.”

Terrorizzato per questa rivelazione, Telifrone si afferrò il volto, tastandosi il naso, e le orecchie. E con orrore si accorse che si staccavano dalla pelle, poiché le streghe avevano rubato per davvero pezzi del suo corpo, per poi sostituirli con copie di cera. E la storia si conclude così, con un brutale colpo di scena.

“Già si vedea gonfiargli il petto, già era ritornato il polso entro alle vene, ed era già ritornata l’anima al luogo antico. Rizzasi il morto, parla il giovane, e dice: Deh per qual cagione, posciach’io ho bagnate le labbra entro alle onde di Lete, e solcata la stigia palude, mi riducete voi di nuovo per questo picciolo spazio al dispiacevole uficio dell’amara vita? non fate, vi priego, non fate; lasciatemi stare nella mia quiete. Udendo il profeta queste parole, con voce un poco sdegnata disse: Perchè non racconti tu all’aspettante popolo il fatto tutto intero, e apri le segrete cagioni della tua morte? Dunque non credi tu ch’io possa colli miei incanti invocare le furie infernali, e tormentarti le affaticate membra? Perchè egli udendo le minaccevoli parole, rizzatosi di nuovo a sedere in sulla bara, e voltosi al popolo, prese a dire in questa guisa: Io sono stato tolto da questa che voi chiamate vita per gl’inganni della mia novella sposa, e sforzato dal venenoso beveraggio lasciai con violente prestezza vuoto allo adultero suo il santo letto matrimoniale. Allora la gentil moglie tutta divenuta altiera, sacrilegamente e con efficaci parole rispondendo alle accuse del marito, diceva che egli si partiva dalla verità. Il popolo in quel mezzo rugghiava, e chi l’intendeva in un modo, e chi nell’altro: una parte avrebbe voluto che la pessima femmina fusse stata insieme col marito messa così viva a sotterrare: altri diceva che non era da prestar fede alle parole e menzogne di quel corpo morto, nè alle prestigie di quell’Egizio. Ma il giovane colle sue parole prestamente tolse via questa contenzione; e spirando di nuovo più profondamente: Io vi darò, disse, i’ vi darò indubitata chiarezza della pura verità, e dirò cosa che alcun di voi non intese giammai. E dopo queste parole, additatomi, soggiunse: Perciocchè le vecchiarde streghe, desiderose delle mie spoglie, trasformatesi indarno più volte, essendo costui sagacissimo custode del corpo mio, non avevan potuto ingannare la sua diligenza; finalmente avendolo sotterrato in un profondo sonno, non restaron mai di chiamare il mio nome, sintanto che le fredde mie membra obbedissero alle lor voglie: per la qual cosa costui vivo veramente, ma morto nel sonno, avendo il medesimo nome, senza sapere altro, rizzato al suono del nome suo, ancor dormendo, così come fanno l’ombre, ancorchè le porte fusser diligentemente serrate, se ne andò fuori per un picciol pertugio; e quivi gli fu tagliato il naso e gli orecchi, e in mia vece sopportò così brutto macello: ed a cagion che nulla mancasse a questo inganno, formando un poco di cera in quella guisa che erano le troncate parti, a misura gliene rappiccarono: e ora si sta qui il poverello annoverando il pregio della sua non industria ma del suo sminuimento.
Impaurito io adunque per così fatte parole, desiderando chiarirmi s’egli diceva il vero, mi volsi pigliare il naso, ed egli mi cadde: volmisi toccare gli orecchi, ed egli se ne vennero: e mentre che colle dita e colle fise guardature io era per così fatta maraviglia notato da tutti i circostanti, e ognun crepava delle risa del fatto mio, divenuto tutto pieno d’un sudor freddo, me ne scampai il più tosto potei fra i piedi di quelle brigate; e trovandomi poscia e sanza orecchie e sanza naso, e così ridicolo, non mai poscia mi diede il cuore di ritornare a casa mia.”

La seconda storia che ci narra le orribili gesta di quelle che più tardi saranno chiamate streghe di Tessaglia è strutturata con un elemento drammaturgico che oggi definiremmo cliffhanger, o finale in sospeso, poiché nel corso della narrazione, quando tutto sembra essersi risolto per il meglio, viene a galla la verità, rivelando il tragico finale.

“Ma pensa un po’ chi vidi: Socrate, un vecchio amicone. Se ne stava seduto per terra, ravvoltolato a mala pena in un mantellaccio sbrindellato, irriconoscibile, tanto era pallido e smagrito; pareva uno di quei poveri disgraziati perseguitati dalla malasorte che si riducono a chiedere l’elemosina alle cantonate. Nonostante la confidenza e la familiarità, mi avvicinai a lui con una certa titubanza: ‘Ohilà, Socrate,’ gli feci, ‘cos’è questa storia? Com’è che sei in questo stato? Che t’è capitato? A casa ti piangono per morto e ai tuoi figli i giudici hanno già dato un tutore; con tua moglie, che t’ha fatto il funerale e che s’è consumata in lacrime e che per il pianto le si sono seccati gli occhi, i suoi parenti insistono perché si consoli della tua perdita e rallegri la tua casa con nuove nozze. E tu, intanto, te ne stai qui che mi sembri proprio un fantasma. È proprio un avvilimento!’
‘Ah, Aristomene,’ mi rispose, ‘come si vede che non conosci i colpi mancini della fortuna, i suoi capricci, i suoi tranelli’ e, arrossendo per la vergogna, si tirò sulla faccia quel suo mantello sbrindellato; ed io vidi che sotto era nudo dal ventre al pube. Non reggendo alla vista di tanta miseria, gli tesi la mano e feci per tirarlo su. Ma lui, col viso coperto: ‘No, no, che la malasorte continui a godersela la sua vittoria.’
Finalmente riuscii a tirarmelo dietro e intanto gli feci indossare uno dei miei indumenti per coprirlo alla meglio e me lo portai alle terme, rifornendolo di tutto l’occorrente per ungersi e asciugarsi; anzi io stesso lo strofinai ben bene per togliergli quel dito di sudiciume che aveva addosso. Dopo averlo ripulito, benché fossi stanco anch’io, lo portai di peso alla locanda, ché a mala pena si reggeva in piedi, e qui lo ficcai in un letto caldo, gli diedi da mangiare e da bere, lo tenni su con qualche storiella, tanto che in breve ritornò loquace e allegro e si lasciò perfino andare a qualche battuta. A un tratto, però, dette in un sospiro profondo, doloroso, e picchiandosi la fronte con una gran manata: ‘Ma si può essere più iellati di me’ cominciò a lamentarsi ‘se soltanto per aver voluto correre dietro a uno spettacolo di gladiatori di cui, si dicevano meraviglie, mi sono ridotto in questo stato.

Il protagonista del racconto, Aristomene, in viaggio in Tessaglia, incontrò un vecchio amico di nome Socrate (niente a che fare con l’altro Socrate, ben più famoso, che tutti noi conosciamo). Questo Socrate versava in condizioni pietose. “Se ne stava seduto per terra, ravvoltolato a mala pena in un mantellaccio sbrindellato, irriconoscibile, tanto era pallido e smagrito; pareva uno di quei poveri disgraziati perseguitati dalla malasorte che si riducono a chiedere l’elemosina alle cantonate.” Aristomene gli si avvicinò, dicendogli. “Socrate! Cos’è questa storia? Com’è che sei in questo stato? Che t’è capitato? A casa ti piangono per morto e ai tuoi figli i giudici hanno già dato un tutore; con tua moglie, che t’ha fatto il funerale e che s’è consumata in lacrime e che per il pianto le si sono seccati gli occhi, i suoi parenti insistono perché si consoli della tua perdita e rallegri la tua casa con nuove nozze. E tu, intanto, te ne stai qui che mi sembri proprio un fantasma!”

Socrate era stato dato per morto da tutti, infatti. Ma la malasorte lo aveva spinto fino in Tessaglia, dove adesso elemosinava pasti, con un solo mantello sbrindellato a ripararlo dal freddo. Aristomene lo tirò su dal terreno e lo portò prima alle terme, per ripulirlo dal sudiciume, e poi in locanda, per ristorarlo. Ed è a quel punto che Socrate spiegò cosa gli era accaduto.

“Ma si può essere più iellati di me’ cominciò a lamentarsi ‘se soltanto per aver voluto correre dietro a uno spettacolo di gladiatori di cui, si dicevano meraviglie, mi sono ridotto in questo stato. Ricordi che ero andato in Macedonia per il mio lavoro? Ebbene gli affari m’erano andati a gonfie vele e così, dopo nove mesi, stavo tornando a casa, ben fornito di quattrini, quando poco prima di giungere a Larissa, mi venne in mente di fare una capatina a quel famoso spettacolo, ma, in una valle impervia e deserta, fui assalito da una banda di briganti ferocissimi che mi lasciarono completamente al verde: per fortuna non ci rimisi la pelle e riuscii a raggiungere la locanda di una certa Meroe, una donna matura ma ancora belloccia, alla quale raccontai dei miei lunghi viaggi, del mio desiderio di tornare a casa e, infine, della rapina subita. Ella fu molto gentile, mi preparò gratis una graditissima cena e, alla fine, andata in fregola, mi portò a letto con lei. Scalogna maledetta, perché bastò che dormissi una sola notte con lei per impegolarmi in una di quelle relazioni che poi ti tiri dietro per anni: le diedi quei pochi stracci che i briganti mi avevano lasciato addosso, e pefino gli spiccioli che, facendo il facchino (allora ero ancora in gamba) mi venivo guadagnando. Ed ecco in quale stato tu l’hai visto, quella buona donna e la mia cattiva stella, mi hanno ridotto.’”

‘Perdio, te la meriti proprio una fregatura simile” gli disse Aristomene. “e anche di peggio se fosse possibile, dal momento che invece di pensare alla tua casa, ai tuoi figli, ti sei messo a fare il galletto, e con una vecchia baldracca.’

‘Zitto, per carità, zitto’ fece quello tutto spaventato, portando l’indice alle labbra e volgendo il capo all’intorno come per assicurarsi che nessuno ascoltasse ‘non parlare male di quella donna perché è una maga; capace di tirar giù la volta celeste e di sollevare la terra, di far diventare le fonti di sasso e liquefar le montagne, di riportare alla luce gli dei dell’inferno e inabissare quelli del cielo, di spegnere le stelle, di illuminare perfino il Tartaro.”

Aristomene ovviamente non credette a una sola parola. “Ma piantala, dài, con questa messinscena da tragedia, smettila di recitare e parla chiaro.’

‘Vuoi che te ne racconti una o due o anche molte delle cose che ha fatte?” replicò Socrate. ”Con una sola parola ha mutato in castoro un suo amante che s’era messo con un’altra. E sai perché proprio in castoro? Perché questa bestia, quando è inseguita e teme di essere catturata, si stacca da sé i testicoli (e questa è una credenza folcloristica dell’epoca). Questo lei voleva che capitasse anche a quel suo amante che l’aveva piantata per un’altra. ‘E ancora: ha trasformato un oste che era suo vicino e le faceva concorrenza, in un rospo: ora quel povero vecchio sguazza in una botte del suo vino immerso nella feccia fino alla gola e chiama con suoni rochi che vorrebbero essere amabili i suoi avventori di un tempo. ‘Un altro l’ha trasformato in montone: era un avvocato che l’aveva calunniata e da montone ora difende le cause. ‘Alla moglie di un suo amante che le aveva indirizzato una paroletta pepata ha tappato l’utero e poiché quella era incinta le ha bloccato il feto in corpo condannandola a una perpetua gravidanza. La gente ha fatto i conti, dice che sono otto anni ormai che la poveretta si porta dentro quel peso ed è gonfia come se dovesse partorire un elefante.”

‘Per queste e per tante altre vittime l’indignazione popolare crebbe a tal punto che un giorno venne deciso, senza tanti complimenti, di condannarla alla lapidazione. Ma lei con le sue arti magiche prevenne la sentenza; un po’ come la famosa Medea che, ottenuta da Creonte una sola giornata di dilazione, con la fiamma sprigionata da una corona magica mise a fuoco tutta la reggia con dentro lui stesso e la figlia. Così questa Meroe, fatti alcuni sortilegi sopra un sepolcro ed evocando misteriose potenze soprannaturali, chiuse tutti nelle loro case tanto che per due interi giorni nessuno riuscì a sbloccare le serrature, a scardinare le porte, a sfondare le pareti. ‘Questo finché, per consiglio comune, non la supplicarono ad una voce giurandole solennemente che non le avrebbero torto un capello, pronti, anzi, a proteggerla da chi avesse osato qualcosa contro di lei. ‘Solo così’ ella si rabbonì e liberò dall’incantesimo la città. Ma l’ideatore del complotto lasciò serrato in casa e questa, così com’era, pareti, pavimento, fondamenta, di notte tempo, fece volare cento miglia lontano, in un’altra città, posta in cima a una montagna dirupata e priva d’acqua. “

Aristomene, dopo tutte queste storie, cominciò anche lui a provare un po’ di timore. Quindi decise di andarsene a letto col suo ritrovato amico, per poi partirsene subito da quella locanda, al mattino seguente, lasciandosi alle spalle l’odiata Tessaglia. I due si presero una bella sbronza, salirono in camera e dopo aver chiuso la porta coi chiavistelli, oltre ad aver avvicinato il letto all’uscio, addossandovelo bene contro per sigillare, si addormentarono.

“Certo, caro Socrate, che le cose che mi racconti hanno dello straordinario e fanno venire i brividi. M’hai messo un’agitazione addosso, anzi proprio un bello spavento. Altro che pulce nell’orecchio, questo è un colpo di lancia se penso che quella vecchia, valendosi delle sue arti divine può benissimo venire a sapere di questi nostri discorsi.‘Perciò ficchiamoci subito buoni buoni sotto le coperte e, appena ci siamo un po’ tolti di dosso la stanchezza, prima che faccia giorno, filiamocela di qui, quanto più lontano è possibile.’ Gli stavo ancora parlando per convincerlo, che quel buon Socrate già dormiva e russava di grosso, stanco della giornata e intontito dal vino cui non era più abituato. Così, chiusa la porta e bloccati i chiavistelli, anzi avvicinato il letto all’uscio e addossatovelo ben bene contro, mi coricai anch’io.All’inizio, per la paura, non riuscii a chiudere occhio, poi verso mezzanotte mi appisolai. Ma avevo appena preso sonno che con un fracasso tremendo, certo assai maggiore di quello che avrebbero potuto fare dei ladri, i battenti della porta si spalancarono, i cardini si spezzarono e volarono via. Il mio lettuccio, piccoletto com’era e traballante e tarlato per giunta, a quel gran colpo si ribaltò rovinandomi addosso e io, finito per terra, vi rimasi sepolto. Come è vero che certe impressioni, a volte, producono reazioni contrarie. Capita spesso, per esempio, di piangere per la gioia; così, nonostante il terribile spavento io non potetti trattenere il riso vedendomi da Aristomene mutato in tartaruga. Steso per terra, coperto dal provvidenziale lettuccio, sbirciavo cosa stesse accadendo ed ecco che vidi entrare due donne di età piuttosto avanzata: l’una reggeva una lucerna accesa, l’altra una spugna e una spada ignuda. Con quel loro armamentario si avvicinarono a Socrate che se la dormiva placidamente: ‘Caro il mio Endimione’ esclamò quella che portava la spada ‘eccolo qui, sorella Pantia, il mio Ganimede, quello che giorno e notte ha abusato della mia innocenza e che ora non soltanto mi diffama vigliaccamente ma si accinge a squagliarsela. Ma io, allora dovrei fare la fine di Calipso abbandonata dallo scaltro Ulisse e piangere la mia eterna solitudine?’ Poi con la mano tesa indicò me a sua sorella Pantia ‘Ma guardalo là, Aristomene, questo bel consigliere, che ha avuto la bella pensata della fuga e che ora se ne sta mezzo morto accucciato sotto il letto a guardare illudendosi di passarla liscia dopo che mi ha coperto di improperi. Costui te lo servirò dopo a dovere, anzi no, all’istante si dovrà pentire della sua linguaccia e della sua curiosità, questo impenitente ficcanaso.’
Come intesi quelle parole cominciai a sudar freddo e presi a tremare tutto fin nelle viscere, tanto che anche il letto mi si mise a traballar sulla schiena, mentre l’amabile Pantia continuava: ‘Allora, sorella, cominciamo con questo? Facciamo come le Baccanti? Lo riduciamo a pezzettini, oppure lo leghiamo e poi gli tagliamo i testicoli?’
‘Ma no,’ replicò Meroe (a quel che me ne aveva detto Socrate, questo nome le si addiceva proprio), ‘che resti vivo, invece, così getterà una manciata di terra sul corpo di questo miserabile’ e, così dicendo, rovesciata la testa di Socrate da un lato, gli immerse la spada nel collo fino all’elsa; poi accostò alla ferita un piccolo otre e ne raccolse il sangue che sgorgava a fiotti, senza farne cadere nemmeno una goccia. Con questi occhi io vedevo tutta la scena. Poi l’ottima Meroe, per adempiere, credo, in tutto e per tutto al rituale di un sacrificio in piena regola, affondò la mano in quella ferita, frugò dentro fino alle viscere e trasse il cuore di quel povero amico mio che, dalla gola tutta squarciata per la violenza del colpo, ancora mandava una voce, un sibilo indistinto, un gorgoglio.«’O spugna nata dal mare’ intanto cantilenava Pantia e tamponava con la spugna la ferita là dov’era più larga ‘acqua di fiume non sorpassare.’ Compiuta ogni cosa se ne andarono; prima però mi tolsero il letto di dosso, si piazzarono sopra di me a gambe divaricate e mi pisciarono in faccia inondandomi tutto del loro fetore.
Avevano appena varcata la soglia che i battenti della porta si drizzarono e si rimisero intatti al loro posto, i cardini ciascuno nel loro buco, i chiavistelli negli infissi, i catenacci nei loro anelli, tutto come prima. Io solo, invece mi ritrovai disteso per terra senza fiato, nudo e gelato, fradicio per giunta di piscio come se fossi appena uscito dal ventre di mia madre, più morto che vivo, eppure, nonostante tutto, un sopravvissuto, un relitto di me stesso e un sicuro candidato alla croce. ‘Che ne sarà di me’ gemevo ‘quando domani mattina troveranno quest’uomo scannato? Chi mi crederà quando racconterò per filo e per segno come sono andate le cose? Avresti per lo meno potuto gridare, mi ribatteranno, chiedere aiuto se ti mancava il coraggio, grande e grosso come sei, di tener testa a una donna. Ma come, si sgozza un uomo sotto i tuoi occhi e tu te ne stai in silenzio a guardare? E poi come mai delinquenti di tal razza non hanno fatto fuori anche te? Perché nella loro ferocia ti avrebbero risparmiato? Un testimone per giunta così compromettente del loro delitto? Comunque visto che sei scampato alla morte, va a fare compagnia all’amico tuo.’
Questi pensieri rimuginavo dentro di me e intanto cominciava a far giorno. La cosa migliore era quella di filarmela prima che venisse chiaro, fare della strada anche se le gambe mi tremavano. Così presi il mio sacco, infilai la chiave nella serratura e, gira e rigira, dovetti fare una fatica boia prima di riuscire ad aprire quella porta sicura e amica che durante la notte s’era spalancata da sé.
‘Ohilà, dove sei?’ cominciai a gridare, ‘aprimi il portone, che voglio andarmene prima di giorno.’
II portinaio che era disteso giusto dietro l’uscio della locanda, mezzo addormentato mi fece: ‘Ma come? Vuoi metterti in cammino a quest’ora di notte? Non sai che le strade sono infestate dai briganti? Se hai scelto di morire perché hai la coscienza sporca io non sono mica tanto, grullo da fare la stessa fine per causa tua.’
‘Tra poco è giorno,’ gli risposi ‘e poi, ché cosa possono prendergli i briganti a un viandante così al verde come me? Ma ti rendi conto, balordo che sei, che nemmeno dieci campioni di lotta possono spogliare uno che è già nudo?’ Ma quello, voltandosi dall’altra parte, morto di sonno e intontito com’era, mi rimbeccò: ‘E che ne so io se tu non hai scannato il tuo compagno di viaggio col quale sei giunto ier sera, ed ora cerchi di metterti in salvo?’ Allora sì che la terra mi parve spalancarsi sotto i piedi e io precipitare giù fin nel Tartaro in bocca all’affamato Cerbero; e capii che la buona Meroe non per misericordia aveva risparmiato la mia gola ma per riservarmi, nella sua ferocia, alla croce. Così tornai in camera pensando al modo più spiccio di darmi la morte. Ma non mettendomi la sorte a portata di mano alcuna arma mortale se non il mio letto, così a lui mi rivolsi: ‘Caro lettuccio mio che dividesti con me tutti i miei guai, che sei stato testimone oculare di quanto è accaduto stanotte, tu che solo potrei citare a prova della mia innocenza, porgimi l’arma liberatrice che mi mandi alla svelta all’inferno.’
Così dicendo sciolsi la reticella di corda che formava il piano del letto e legatone un capo a una trave che sporgeva sopra la finestra, feci con l’altra estremità un nodo scorsoio, salii sul letto ormai votato alla morte e infilai la testa nel cappio. Ma non appena, con una pedata, scaraventai lontano il sostegno che mi sorreggeva perché, per il peso del corpo, il cappio stringesse la gola e mi togliesse il respiro, la corda, marcia com’era, si spezzò ed io precipitai addosso a Socrate che giaceva lì accanto e con lui rotolai per terra.
In quel mentre irruppe in camera il portinaio, urlando: ‘Dove diavolo sei tu che, in piena notte, avevi tanta furia di partire e ora te ne sei tornato a russare fra le coperte?’
In quel momento, non so se per il mio ruzzolone o per il gran baccano di quell’uomo, Socrate saltò su esclamando: ‘Quanta ragione hanno quei viaggiatori che non possono soffrire gli albergatori. Questo rompiballe ti vien dentro magari con l’intenzione di fregare qualcosa, e col suo blaterare mi sveglia, sfinito com’ero, proprio nel sonno migliore.’”
‘Ohilà, dove sei?’ cominciai a gridare, ‘aprimi il portone, che voglio andarmene prima di giorno.’
II portinaio che era disteso giusto dietro l’uscio della locanda, mezzo addormentato mi fece: ‘Ma come? Vuoi metterti in cammino a quest’ora di notte? Non sai che le strade sono infestate dai briganti? Se hai scelto di morire perché hai la coscienza sporca io non sono mica tanto, grullo da fare la stessa fine per causa tua.’
‘Tra poco è giorno,’ gli risposi ‘e poi, ché cosa possono prendergli i briganti a un viandante così al verde come me? Ma ti rendi conto, balordo che sei, che nemmeno dieci campioni di lotta possono spogliare uno che è già nudo?’ Ma quello, voltandosi dall’altra parte, morto di sonno e intontito com’era, mi rimbeccò: ‘E che ne so io se tu non hai scannato il tuo compagno di viaggio col quale sei giunto ier sera, ed ora cerchi di metterti in salvo?’ Allora sì che la terra mi parve spalancarsi sotto i piedi e io precipitare giù fin nel Tartaro in bocca all’affamato Cerbero; e capii che la buona Meroe non per misericordia aveva risparmiato la mia gola ma per riservarmi, nella sua ferocia, alla croce. Così tornai in camera pensando al modo più spiccio di darmi la morte. Ma non mettendomi la sorte a portata di mano alcuna arma mortale se non il mio letto, così a lui mi rivolsi: ‘Caro lettuccio mio che dividesti con me tutti i miei guai, che sei stato testimone oculare di quanto è accaduto stanotte, tu che solo potrei citare a prova della mia innocenza, porgimi l’arma liberatrice che mi mandi alla svelta all’inferno.’
Così dicendo sciolsi la reticella di corda che formava il piano del letto e legatone un capo a una trave che sporgeva sopra la finestra, feci con l’altra estremità un nodo scorsoio, salii sul letto ormai votato alla morte e infilai la testa nel cappio. Ma non appena, con una pedata, scaraventai lontano il sostegno che mi sorreggeva perché, per il peso del corpo, il cappio stringesse la gola e mi togliesse il respiro, la corda, marcia com’era, si spezzò ed io precipitai addosso a Socrate che giaceva lì accanto e con lui rotolai per terra.
In quel mentre irruppe in camera il portinaio, urlando: ‘Dove diavolo sei tu che, in piena notte, avevi tanta furia di partire e ora te ne sei tornato a russare fra le coperte?’
In quel momento, non so se per il mio ruzzolone o per il gran baccano di quell’uomo, Socrate saltò su esclamando: ‘Quanta ragione hanno quei viaggiatori che non possono soffrire gli albergatori. Questo rompiballe ti vien dentro magari con l’intenzione di fregare qualcosa, e col suo blaterare mi sveglia, sfinito com’ero, proprio nel sonno migliore.’”

Allo scoccare della mezzanotte, però, la porta venne tirata giù con un gran trambusto, il letto in cui dormiva Aristomene si ribaltò e lo stesso Aristomene finì sul pavimento, con il letto sopra la schiena. Ed ecco che dall’uscio spalancato entrarono “due donne di età piuttosto avanzata: l’una reggeva una lucerna accesa, l’altra una spugna e una spada sguainata.” Costoro erano Pantia e la stessa Meroe, che finora aveva ascoltato con i suoi poteri soprannaturali i discorsi tra i due ingenui, ed era giunta per la vendetta.

“Eccolo qui, sorella Pantia” disse Meroe, indicando Socrate per terra, privo di sensi. “Il mio Ganimede, quello che giorno e notte ha abusato della mia innocenza e che ora non soltanto mi diffama vigliaccamente ma si accinge a squagliarsela. Ma io, allora dovrei fare la fine di Calipso abbandonata dallo scaltro Ulisse e piangere la mia eterna solitudine?’

Nel veder Socrate addormentato, Meroe lo apostrofa in vari modi, rifacendosi a specifici episodi mitologici. Per prima cosa lo chiama Endimione, paragonandolo al bellissimo ragazzo condannato all’eterno sonno di giovinezza della divinità lunare Selene. Poi lo chiama Ganimede, eroe troiano definito da Omero come il più bello di tutti i mortali del suo tempo (anche se Omero ne definisce molti di eroi bellissimi, ciascuno che sembrerebbe essere il più bello di tutti). Infine lo paragona a Ulisse, che abbandona Calipso per svignarsela. Si tratta ovviamente di prese in giro, poiché la bellezza del povero Socrate non era di certo paragonabile a tali leggende mitologiche.

Poi con la mano tesa, Meroe indicò Aristomene a sua sorella Pantia ‘Ma guardalo là, Aristomene, questo bel consigliere, che ha avuto la bella pensata della fuga e che ora se ne sta mezzo morto accucciato sotto il letto a guardare illudendosi di passarla liscia dopo che mi ha coperto di improperi. Costui te lo servirò dopo a dovere, anzi no, all’istante si dovrà pentire della sua linguaccia e della sua curiosità, questo impenitente ficcanaso.’

Allora Pantia aggiunse; “Allora, sorella, cominciamo con questo? Facciamo come le Baccanti? Lo riduciamo a pezzettini, oppure lo leghiamo e poi gli tagliamo i testicoli?”

“Ma no”, disse Meroe. “Che resti vivo, invece, così getterà una manciata di terra sul corpo di questo miserabile.” Così dicendo, rovesciata la testa di Socrate da un lato, gli immerse la spada nel collo fino all’elsa; poi accostò alla ferita un piccolo otre e ne raccolse il sangue che sgorgava a fiotti, senza farne cadere nemmeno una goccia. Mettendo in atto un rituale di sacrificio in piena regola, Meroe affondò la mano in quella ferita, frugò dentro fino alle viscere e trasse il cuore del povero Socrate che, dalla gola tutta squarciata per la violenza del colpo, ancora mandava una voce, un sibilo indistinto, un gorgoglio.

«’O spugna nata dal mare’ intanto cantilenava Pantia e tamponava con la spugna la ferita là dov’era più larga ‘acqua di fiume non sorpassare.’ 

Compiuta ogni cosa se ne andarono; prima però tolsero il letto di dosso da Aristomene, si piazzarono sopra di lui a gambe divaricate e gli pisciarono in faccia inondandolo del loro fetore.”

Aristomene rimase disteso per terra, senza fiato, nudo e fradicio di pipì, più morto che vivo, nonostante tutto. Dopodiché la soglia si riaggiustò all’istante. I battenti della porta si drizzarono e si rimisero intatti al loro posto, così come i cardini volarono ciascuno nel loro buco, i chiavistelli negli infissi, i catenacci nei loro anelli: tutto come prima.

Aristomene cadde nello sconforto. ‘Che ne sarà di me’ gemeva ‘quando domani mattina troveranno quest’uomo scannato? Chi mi crederà quando racconterò per filo e per segno come sono andate le cose? Avresti per lo meno potuto gridare, mi ribatteranno, chiedere aiuto se ti mancava il coraggio, grande e grosso come sei, di tener testa a una donna. Ma come, si sgozza un uomo sotto i tuoi occhi e tu te ne stai in silenzio a guardare? E poi come mai delinquenti di tal razza non hanno fatto fuori anche te? Perché nella loro ferocia ti avrebbero risparmiato? Un testimone per giunta così compromettente del loro delitto? Comunque visto che sei scampato alla morte, va a fare compagnia all’amico tuo.’

Insomma, Aristomene temeva che non gli avrebbero creduto, e che lo avrebbero accusato d’omicidio. Tentò quindi di scappare, ma il guardiano della locanda si accorse che c’era qualcosa che non andava e salì fino in camera. I due cominciano a discutere, e fra le grida, inaspettatamente, Socrate si risvegliò. Stava bene e la sua gola non portava alcun segno del sacrificio. Che si fosse trattato di un incubo?

“Anch’io balzai in piedi, preso da una gioia insperata: ‘Eccolo, bravo portinaio, eccolo qui l’amico mio, il mio fratellino, quello che tu, stanotte, ubriaco fradicio com’eri, andavi insinuando che avevo assassinato.’ E, intanto, baciavo e abbracciavo Socrate che però, protestando, mi respingeva con violenza schifato dal fetore di piscio che quelle streghe mi avevano lasciato addosso: ‘Va via’ mi diceva ‘che puzzi peggio di un fondo di latrina.’ Poi, scherzandoci su, mi chiese la ragione di quel fetore. Io, poveretto, gli inventai una frottola per sviare il discorso e con una manata sulle spalle: ‘Che aspettiamo ad andarcene?’ gli dissi ‘Perché non approfittiamo del fresco del mattino?’ Presi quel po’ di roba che avevo, pagai il conto all’albergatore e ci mettemmo in cammino.
Avevamo già fatta un bel po’ di strada e il sole, ormai alto, illuminava ogni cosa all’intorno. Io, intanto, non facevo che guardare con curiosità e apprensione la gola del mio compagno, là dove avevo visto penetrare la spada e mi dicevo: ‘Ma guarda un po’ che matto. Ne devi aver scolati di bicchieri ed essere stato ben sbronzo per fare sogni così assurdi. Eccotelo qua Socrate, sano e vegeto. E dov’è la ferita, dove la spugna e quell’orribile piaga sanguinante?’ Poi rivolto a lui: ‘Non hanno mica torto quei gran dottori quando dicono che chi mangia molto e alza troppo il gomito poi fa brutti sogni. Prendi me, per esempio ieri sera mi son lasciato andare alle libagioni e così ho passato una notte infernale, piena di incubi spaventosi, tanto che mi sembra ancora di esser tutto imbrattato di sangue umano.’
‘Ma che sangue e sangue,’ mi sogghignò, ‘pieno di piscio sei. Però ho fatto un sogno anch’io mi pareva che mi sgozzassero; sentivo un gran dolore qui alla gola e come se mi strappassero il cuore; pure ora mi manca il respiro, mi tremano le ginocchia e mi par di cadere. Sento proprio il bisogno di mettere qualcosa sotto i denti per riprendere le forze.’
‘Eccoti servita la colazione’ e, detto fatto, mi tolsi il sacco dalle spalle e gli offrii del pane con del formaggio. ‘Anzi,’ gli feci, ‘sediamoci la, sotto quel platano.’
Così facemmo e anch’io trassi fuori qualcosa da mangiare per me e intanto lo osservavo. Ed ecco che mentre mangiava avidamente lo vidi, tutto a un tratto, impallidire, farsi livido livido come uno stecco. Man mano che perdeva colore io rivedevo l’orribile scena della notte e, per lo spavento, il pezzo di pane che avevo messo in bocca, benché piccolo, mi si piantò nel gozzo, tanto che non riuscivo a mandarlo né su né giù.
Non passava di lì molta gente e questo accresceva il mio terrore. Chi avrebbe creduto che di due compagni uno era morto senza che l’altro ne sapesse nulla? Socrate, intanto, che s’era ingozzato di pane e aveva fatto fuori quasi tutto il formaggio, ora si sentiva bruciare dalla sete. Poco lontano dal nostro platano scorreva un filo d’acqua ma così lento da formare una pozza limpida e chiara come argento o vetro.
‘Eccoti là dell’acqua’ gli dissi ‘bianca come il latte.’
Egli si alzò, s’accostò alla riva là dove questa era più bassa e fece per inginocchiarsi e bere con avidità ma non aveva ancora accostato le labbra all’acqua che il collo gli si aprì in un largo e profondo squarcio e ne venne fuori la spugna e un po’ di sangue. Era morto, e sarebbe caduto in acqua se io, appena in tempo, afferrandolo prontamente per un piede, non lo avessi tirato su a fatica. E lì, su quella riva, come potetti, date le circostanze, piansi l’infelice compagno: scavai una fossa nella sabbia e ve lo chiusi per sempre. Ero pieno di paura, temevo guai peggiori e così mi misi a fuggire qua e là per luoghi desolati e deserti e, quasi avessi sulla coscienza un delitto, lasciai la mia patria, la mia casa e scelsi un volontario esilio.”

Lieto che tutto fosse andato per il verso giusto, Aristomene convinse Socrate a fuggir via il prima possibile, all’alba. Raccolsero i loro averi e s’incamminarono in strada. Aristomene non faceva che osservare la gola dell’amico, e pensare che avevano proprio ragione i dottori, quando sconsigliavano di bere troppo. Una sbronza così non l’aveva mai presa, infatti, e mai aveva avuto visioni così terribili, di notte. L’amico Socrate, però, si lasciò andare a una rivelazione terribile, mentre viaggiavano. Ovvero che quella stessa notte aveva sognato d’essere stato sgozzato. D’aver sentito un dolore alla gola, e che proprio in quel momento, mentre camminava, si sentiva molto debole.

I due, decisero quindi di riposare ai piedi di un albero, con pane e formaggio. Socrate trangugiò tutto quanto, facendosi via via sempre più pallido. Poi, con la gola riarsa dalla sete, si allontanò verso un ruscello che scorreva lì vicino, limpido e puro. S’accostò alla riva, là dove questa era più bassa, e fece per inginocchiarsi e bere con avidità ma non appena accostò le labbra all’acqua, il collo gli si aprì in un largo e profondo squarcio liberando la spugna con un po’ di sangue. Era morto.

Il rituale delle due streghe di Tessaglia aveva fatto diventare il povero Socrate un non-morto a tutti gli effetti, che prima di avvicinarsi all’acqua del fiume si era potuto godere un’ultima colazione a base di pane e formaggio, trangugiata avidamente per lenire quella spossatezza tipica delle anime che si apprestano a immergersi nelle paludi stige. La formula, infatti, recitata dalla strega Pantia, “Spugna nata dal mare, acqua di fiume non sorpassare” non era altro che una condanna a morte, compiuta dinnanzi a un rivolo d’acqua, dove il povero Socrate trovò la morte. La simbologia richiama le acque degli Inferi, che scorrono sotto forma di fiumi, e che Dante Alighieri raccoglie assieme in un’intera palude, la palude stigia.

Aristomene, pieno di dolore, scavò una fossa vicino al corso d’acqua, seppellì il suo amico, e se ne andò dalla Tessaglia, vagando per luoghi desolati e deserti e, quasi avesse sulla coscienza un delitto, lasciò scelse un volontario esilio.

Questo episodio, narrato all’interno dell’Asino d’Oro, è uno dei miei preferiti. Infatti nel mio romanzo, “La Stirpe delle Ossa”, l’intreccio narrativo si snoda attorno a eventi magici pregni di simbologia legata al mondo naturale e, nella fattispecie, proprio a una palude, in un susseguirsi di colpi di scena esoterici, a cavallo tra la vita e la non-vita.

Se questo episodio ti ha appassionato, mi raccomando, seguimi e condividi questo racconto. Ricorda che le mie storie proseguono sotto forma di romanzo, come il primo che ho pubblicato, “La Stirpe delle Ossa”, che puoi acquistare in tutte le librerie e gli store online, Amazon compreso. Alla prossima.

  1. Plutarco, Coniugalia praecepta, De defectu oraculorum
  2. Orazio, Epodo V
  3. Farsaglia, Lucano, libro VI, I secolo
Lorenzo Manara
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