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20 Luglio 2021

La leggenda del cavaliere errante

il cavaliere errante dal mito alla storia

Dalla storia ai poemi epico-cavallereschi medievali: il mito del cavaliere errante, l’eroe girovago in cerca d’avventure e quest da risolvere

Sir Galvano smonta da cavallo e atterra nella melma ai piedi del castello di Green Chapel. S’incammina verso l’ingresso con la schiena curva, appesantita dall’armatura di ferro che porta con sé da giorni. Ha dovuto affrontare un viaggio lungo e pericoloso, fra cavalcate interminabili e duelli di spada. Ma adesso potrà finalmente sfilarsi la sudicia maglia di ferro, togliersi le scarpe impregnate di pioggia e godere dell’ospitalità del signore del castello il quale, a dirla tutta, non è così lieto di accogliere un valoroso cavaliere errante…

Il ciclo bretone, o materia di Bretagna, è una delle saghe più celebri della storia della letteratura. Ne abbiamo parlato tante volte, qui sul blog, ma la mole di materiale fantastico contenuto nelle migliaia di pagine scritte nel corso dei secoli è pressoché infinito. I cavalieri della tavola rotonda infatti si danno un gran da fare, sempre a spasso per il mondo, tutti impegnati in quella o quell’altra missione: la cerca, o quest.

Neppure io ho saputo resistere al fascino del ciclo arturiano. Nel mio ultimo romanzo “La Stirpe delle Ossa” compare la figura del cavaliere errante in tutto il suo realismo storico. Un ruolo che va oltre i confini della finzione letteraria per rappresentare i contorti meccanismi della società medievale (contorti per noi, ovviamente). Già, perché il cavaliere errante non è solo un elemento narrativo del ciclo arturiano. Esisteva davvero. Anche se non come ci si aspetterebbe…

Il cavaliere errante ha trascorso la giovinezza imparando l’arte della guerra assieme agli altri cavalieri, tra le mura del castello paterno o in quello dei parenti. E’ andato a cavallo migliaia di volte, ha cacciato nel bosco e si è allenato con la spada1. A differenza dei compagni più fortunati, però, appena varcata la soglia dell’età adulta, ha dovuto abbandonare la sicurezza di casa per intraprendere un viaggio alla ricerca d’ingaggio o, più semplicemente, di fortuna. Ma qual era la causa che scatenava questo impulso d’avventuriero? Be’, l’amore ovviamente, il grande tema dell’epica cavalleresca. Anche se nel mondo reale la questione assumeva tratti decisamente più pratici.

E’ infatti impossibile parlare di cavalieri erranti senza citare l’amore che move il sole e l’altre stelle. Un amore che, in contrasto con quello puro e cortese della letteratura, risponde a caratteristiche strategiche ben precise, guidate dal denaro. Proprio per questo motivo gruppi di giovanotti, alcuni portatori di cognomi d’insospettabile buona famiglia, montavano in sella in cerca di un futuro migliore. La verità è che non potevano fare altrimenti.

Il patrimonio di famiglia nella società aristocratica medievale soffriva molto la suddivisione ereditaria. Dall’anno Mille in poi divenne sempre più difficile “sistemare” i figli per chiunque fosse dotato di proprietà, soldi e un titolo nobiliare, oppure solo una di queste tre cose. Immaginate un signorotto proprietario di un castello, di alcuni terreni dati in concessione ai villani, del bosco da cui trae profitto per il pascolo dei porci e del fiume pieno di anguille che i pescatori affollano di gabbie e trappole dopo aver pagato regolare gabella. Si tratta di una situazione che accomunava molti feudi dell’Europa centrale e che ho deciso di rappresentare tale e quale nel mio romanzo. Gli ammazzamenti in sella a destrieri coperti di ferro, i perfidi intrighi e le stregonerie più oscure dilaniano una terra sconvolta dalla guerra e dalle rivalità famigliari, terra che risponde al nome di Malarocca.

Ecco, immaginate il signore di Malarocca, seduto davanti al grande camino del salotto al primo piano del suo torrione. Prendiamolo come esempio per capire la sua mentalità (nessuno spoiler sul romanzo, ovviamente). Il signore di Malarocca sta riflettendo sul da farsi, perché è ormai vecchio e deve garantire un futuro a tutti i suoi figli. Facciamo finta che ne abbia tre: due maschi e una femmina. E’ sicuro che tutti i beni immobili andranno al primogenito, colui che prenderà in gestione le proprietà. Ma gli altri due?

La figlia è meglio che non erediti nessun bene immobile, neppure una porzione. Perché se anche si trattasse di frazioni di patrimonio all’apparenza sacrificabili (come un mulino o un pezzo di bosco), tali beni entrerebbero a far parte del patrimonio dello sposo, chiunque egli sia, il quale li tramanderebbe ai propri figli formando nuclei famigliari a sé stanti, ben lontani dalla discendenza originaria. Nel giro di poche generazioni l’eredità si polverizzerebbe tra i vari rami della famiglia, sempre più numerosi e sempre più poveri.

Sono molti gli episodi di spezzettamento del patrimonio famigliare a discapito del lignaggio. Nel Piemonte trecentesco ad esempio, nella regione del Canavese, la suddivisione ereditaria aveva portato a una tale ramificazione famigliare che le proprietà erano sparse per il territorio a macchia di leopardo. Alcuni castelli nemici erano così vicini fra loro “che nessuno poteva dubitare si trattasse di due castelli dello stesso borgo2.

Immaginate quanto potesse essere difficile convivere con dei vicini che tassavano i vostri villani perché sconfinati in territorio “nemico” durante il pascolo. Oppure di contadini che sposavano contadine appartenenti all’altra fazione: a chi devono obbedienza? E le tasse a chi le devono pagare? Tutto questo caos dava origine a malcontento, esplosioni di violenza e vere e proprie faide generazionali.

Ecco perché è decisamente sensato che le figlie si facciano monache o finiscano in sposa a qualche cavaliere senza portare nient’altro che la dote: una sorta di compensazione alla mancata partecipazione ereditaria, talvolta piuttosto consistente visto che avrebbe dovuto rimpiazzare i beni immobili. Ma il secondo figlio? Cosa succede all’ultimo della cucciolata?

I maschi che non sono primogeniti è meglio che stiano al loro posto per gli stessi motivi. Perché il patrimonio deve restare unito, indivisibile perfino tra fratelli, con la differenza sostanziale che le figlie si accompagnano a una dote e quindi possono cercarsi un buon partito con cui sistemarsi (solitamente più povero), i figli maschi invece no. Costoro in alcuni casi erano tenuti celibi e perfino espulsi dalla casa paterna, alla ricerca di una nuova sistemazione3. Perché poteva rivelarsi parecchio difficile gestire due, tre, cinque figli maschi insoddisfatti, addestrati alla guerra, e pronti a scannarsi l’un l’altro per l’eredità. Cosa che avviene ancora oggi, anche se al posto delle spade si usano gli avvocati.

La situazione paradossale che andò a crearsi in determinati contesti, come ad esempio nella Francia del Nord nel corso del XII secolo4, era quello di un gran numero di donzelle da maritare e ben pochi maschi ereditieri; perché i primogeniti formavano statisticamente una percentuale più piccola rispetto alla gran massa di secondi, terzi, decimi o ventesimi figli: ovvero quelli rimasti senza un briciolo di terra e pronti a menar di spada per ritagliarsi il loro posto nel mondo. E’ proprio questo il motivo che ha spinto gli Altavilla (i normanni Hauteville) ad attraversare mezza Europa e conquistare il sud Italia: un gruppo di fratelli costretti a lasciare la propria casa poiché rimasti senza eredità.

Il cavaliere errante dunque era spesso l’ultimo figlio rimasto a bocca asciutta, senza terra e senza nemmeno una moglie che lo portasse da qualche altra parte a fare il genero. Tutto ciò di cui disponeva era uno o due cavalli, il suo armamento da guerra e qualche servente. Se era fortunato poteva farsi aiutare da un altro cavaliere nella stessa condizione, formando così una banda d’avventurieri sgangherata. Perché la realtà che si prefigurava non era certo fatta di imprese eroiche con l’armatura scintillante indosso e la borsa piena di monete. La borsa era anzi probabilmente vuota, e l’armatura graffiata dall’usura e opacizzata. Insomma, invece di paladini da canzoni di gesta quei cavalieri girovaghi erano più simili a “poveracci che non avevano altra risorsa che l’ingaggio mercenario presso qualche potente”5.

Quello del cavaliere errante è quindi un ruolo apparso quando la società aristocratica medievale ha cominciato a imporre un rigido controllo sul lignaggio. Se invece il signore del castello decideva di suddividere l’eredità tra i figli, e magari anche tra le figlie, allora perfino il settimo figlio di sette figli poteva ritagliarsi un posticino da qualche parte nelle terre di famiglia, senza alcun bisogno di montare in sella in cerca d’avventure. Avventure che finora ho chiamato con un termine così evocativo, ma che nella realtà dei fatti non erano altro che mansioni di guerra retribuite: roba da mercenari, come dice F. Cardini.

Perché di qualcosa si deve pur mangiare. E un cavaliere che abbandona il castello per cercare fortuna ha due scelte: trovarsi un altro castello o entrare a far parte di una compagnia mercenaria. L’ideale infatti è di trascorrere meno tempo possibile a “errare” senza meta, in sella al destriero, nella natura selvaggia. Il destino dei cavalieri girovaghi era molto probabilmente quello di finire a far parte della masnada di un signore in quanto uomini d’arme specializzati, meglio pagati rispetto alla soldataglia di guarnigione. E nella maggior parte dei casi non potevano aspirare a niente di meglio.

E Ser Galvano? Il cavaliere errante della tavola rotonda giunto fino al castello di Green Chapel dopo tanto peregrinare? Abbiamo cominciato questo articolo proprio con lui, appena smontato di sella, arrivato finalmente a destinazione. Egli è un eroe della letteratura, il suo scopo è quello di attendere ai propri doveri morali e restare con la sopravveste pulita, senza macchia. E’ proprio per questo che si è lanciato in questa ultima missione, una cerca pericolosa, la più pericolosa fra tutte le “quest” mai intraprese dai paladini di re Artù. Ser Galvano (Gawain nell’originale) ha fatto tanta strada per farsi uccidere. Perché ha giurato di farlo, e la dignità vale più di ogni altra cosa, perfino della vita.

Un anno prima si era presentato alla corte di Re Artù un misterioso gigante. Aveva la pelle verde e una grande ascia affilata in pugno. I cavalieri erano balzati in piedi per affrontarlo, ma lui non aveva intenzioni bellicose. Almeno non nel senso tradizionale del termine. Era giunto fino a Camelot per proporre una sfida a chiunque fosse stato così coraggioso da accettarla. Egli voleva essere colpito con quella stessa ascia, il colpo più forte che fossero stati in grado di fendere, ma a una condizione: se fosse rimasto in vita, il gigante avrebbe restituito il colpo, esattamente un anno e un giorno dopo6.

A quel punto si fece silenzio a Camelot. Il gigante era forse immune ai colpi d’ascia? Aveva imbastito tutto ciò per ottenere una facile vittoria? Domande inutili da porsi, perché coloro che occupavano la tavola rotonda non avevano certo paura di morire, e quindi la sfida venne accettata senza esitazione dal più importante di tutti: re Artù in persona.

All’ultimo istante, però, si fece avanti Galvano, nipote del re. Non poteva permettere che il sovrano di Camelot rischiasse la vita per una cosa così stupida. L’avrebbe rischiata lui, che era più giovane e perfino più coraggioso. Impugnò l’ascia del gigante e menò un colpo formidabile: la testa della creatura si staccò dal collo, rotolò a terra, e il gigante senza fare una piega la raccolse. Sollevandola in aria parlò con quella stessa testa mozzata alla corte di Camelot al completo (c’era pure Ginevra, alquanto turbata dalla scena): “Ci vediamo fra un anno, Ser Galvano”.

E’ per questo che il nostro eroe si trova a Green Chapel, sporco e stanco, esattamente un anno dopo aver mozzato la testa del gigante: per onorare il giuramento e vedersi restituire il colpo d’ascia, dritto alla base del collo. Il gigante verde infatti non è altri che il signore del castello di Green Chapel, travestito magicamente, che lo aspetta mentre affila il ferro sulla pietra.

Galvano s’inginocchia, porge il collo e chiede di farla finita alla svelta. Il gigante però non ha intenzione di colpirlo davvero. Si ferma, con l’ascia a mezz’aria, perché ritiene che il giuramento sia già stato assolto. Galvano non capisce. Che vuol dire tutto ciò? Niente, spiega il gigante. Si è trattata di una farsa per mettere alla prova i cavalieri della tavola rotonda. E spaventare un po’ Ginevra. Perché Morgana proprio non la sopporta, quella lì. La causa di tutto quel casino era dunque fata Morgana. In fin dei conti però è meglio così. Ser Galvano può tornarsene a Camelot un po’ imbronciato, ma ancora vivo.

Quello del cavaliere errante è un mestiere duro e le soddisfazioni non sono granché. Meglio starsene comodamente a oziare nel castello, godendosi l’eredità. Anche se la guerra è sempre dietro l’angolo e bisogna tenersi pronti. Un po’ come accade nelle terre di Malarocca, dove le vicende del mio romanzo prendono una brutta piega…

Restate da queste parti per non perdere nessuna storia fantastica, neppure l’uscita del mio prossimo libro. A rileggerci!

(Illustrazione di Isabella Manara)

  1. L’addestramento prevedeva il continuo ripetersi di esercizi di abilità e resistenza, fra i quali l’interessante gioco di destrezza che era necessario per montare in sella, ovvero di saltare in groppa armati con la maglia di ferro senza toccare la staffa, impresa che richiedeva addestramento lungo e rigoroso, vedi l’articolo su Guglielmo Il Maresciallo
  2. Alessandro Barbero, Una rivolta antinobiliare nel piemonte trecentesco: il tuchinaggio del Canavese
  3. come accadeva nel XII secolo nell Francia del Nord, al tempo dei “giovani cavalieri”, Georges Duby, Medioevo maschio
  4. Medioevo maschio, Georges Duby
  5. Franco Cardini, Il senso della Crociata, 2002
  6. nel mondo celtico con l’espressione “un anno e un giorno” si indicava semplicemente un anno. Il loro sistema di datazione era molto complesso, ancora oggi oggetto di studi
Lorenzo Manara
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