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7 Giugno 2023

Il giuoco della pugna con sassaiola

gioco della pugna con sassaiola a Siena

La mortale sassaiola avvenuta a Siena nel 1317: quando i “terzi” cittadini si sfidarono a un gioco della pugna un po’ troppo spinto

Il 12 febbraio dell’anno 1317, ovvero il giorno dello “unbrigaiuolo”, a Siena si celebrò il carnevale nella maniera più sanguinaria della storia italiana: facendo a botte. Ma non un combattimento sportivo come lo erano le molte varianti torneistiche medievali della giostra che da queste parti conosciamo ormai bene, ad esempio il pas d’arme, la lotta, il duello, bensì una battaglia vera e propria, tra due schiere di cittadini, a torso nudo, poi finito in sassaiola1.

Le rispettive schiere che si sfidarono quel giorno di febbraio corrispondevano a due “terzieri” di Siena: il terzo chiamato “San Martino” e il terzo chiamato “Città”. Siena, infatti, come tutti gli altri comuni italiani, era suddivisa in parti; in questo caso tre, come lo era anche Firenze e i centri urbani di simili dimensioni, fino ad arrivare a sei parti, come nel caso di Milano. Terzieri, sestrieri… una suddivisione necessaria al livello amministrativo, di governo della città, la cui utilità più evidente era proprio quella della guerra, e più specificamente della chiamata alle armi.

Perché la guerra c’era sempre, per un motivo o per l’altro, su tutto il territorio italiano. Siena, ad esempio, “dal 1203 al 1350 non ha conosciuto tre anni consecutivi di pace, impegnata, spesso contemporaneamente, in guerre su più fronti per 150 anni”2. L’organizzazione cittadina, quindi, rispondeva alle esigenze di una realtà spietata, che richiedeva interventi continui, rapidi e risolutivi, mantenendo al tempo stesso l’impronta economica di città medievali che, rispetto alla media occidentale, erano tra le più ricche del mondo conosciuto.

Perché la guerra c’era sempre, ma bisognava anche lavorare: far soldi. Ed ecco che la suddivisione in parti, terzieri e sestrieri, permetteva di portare avanti con successo entrambe le cose. Quando si rendeva necessario che le milizie comunali scendessero in campo, il governo stabiliva quale terziere dovesse partecipare alla battaglia, solitamente una scelta basata su una rotazione, per fare un po’ per uno, oppure per sorteggio laddove non era possibile rispettare i turni. Anche nel caso in cui la mobilitazione dell’esercito durasse più di un certo periodo, in genere 15-20-30 giorni, si poteva richiedere l’intervento del terziere successivo, mandando a casa coloro che avevano appena combattuto (a casa e a lavorare, naturalmente).

Si trattava della tipologia di chiamata alle armi più frequente, anche se non era l’unica. Poiché certe modalità permettevano di radunare l’esercito su scala più ridotta, e più rapidamente, come la cosiddetta “cavallata”: una vera e propria cavalcata, come suggerisce il nome, a cui partecipavano un ristretto numero di cavalieri per poche giornate d’ingaggio, talvolta affiancati anche da fanti. Interventi rapidi per risolvere questioni scottanti nell’immediato.

Oppure, quando la guerra raggiungeva scale importanti e la posta in gioco era alta, il governo poteva stabilire la mobilitazione di tutte le parti della città, radunando così l’exercitus generalis, ovvero l’esercito nella sua interezza.

Ogni cittadino maschio che non fosse esentato come prevedeva la legge doveva rispondere alla chiamata alle armi, pena una multa tarata sul livello di benessere dell’inadempiente e, spesso, anche sul numero di giorni di mobilitazione non rispettati. Un cavaliere che rifiutava la chiamata, con destriero da guerra obbligatoriamente registrato presso il comune (equum pro comuni), avrebbe pagato una multa molto più salata rispetto a un qualsiasi fornaio con lancia e scudo pavese. 

Ad esempio, durante una spedizione nella Maremma Toscana del 1260, una delle aree da cui ho tratto ispirazione per l’ambientazione del mio romanzo “La Stirpe delle Ossa” le multe per i cavalieri che non rispettavano la chiamata alle armi ammontavano a 10 lire, mentre per i fanti erano di 5 lire, da moltiplicarsi per ogni giorno di assenza. Una multa altissima per un umile lavoratore, come un bracciante agricolo, che per pagare quelle 5 lire moltiplicate per chissà quanti giorni di assenza avrebbe dovuto lavorare per anni. Cifra poi raddoppiata per il cavaliere che, tuttavia, se fosse stato abbastanza ricco, avrebbe potuto combattere meno giorni della chiamata, pagando i restanti in multa. Oppure, ancora meglio, avrebbe potuto pagare qualcun altro per condurre il suo destriero da guerra registrato in battaglia. Tutte pratiche largamente in uso nelle città italiane medievali.

In particolari circostanze, quando il governo necessitava di uomini da schierare in battaglia, anche coloro che ne avrebbero fatto a meno pagando la multa, poteva stabilire che chiunque non si fosse presentato sul campo non sarebbe potuto essere eletto a nessuna carica pubblica e non avrebbe potuto ricevere alcun tipo di pagamento dal Comune. Sanzioni gravose, soprattutto per la vita socio-politica (e gli affari) dei cavalieri, ovvero gli uomini più importanti della comunità.

L’elevata ricchezza rispetto alla media europea e la precisa organizzazione comunale permettevano alle città italiane di schierare eserciti ingenti, che talvolta potevano rivaleggiare addirittura con interi regni. Agli inizi del Trecento, ad esempio, l’esercito di Siena poteva schierare in battaglia circa 300 cavalieri e 3000 fanti. La Firenze del 1364 schierò contro Pisa 4000 cavalieri e 11000 fanti3; siamo sullo stesso ordine di grandezza delle armate inglesi e francesi nel corso della guerra dei Cent’Anni, o poco ci manca. L’esercito di re Enrico V d’Inghilterra, ad esempio, radunato per una delle battaglie più celebri della storia medievale, Azincourt, viene stimato dai cronisti attorno ai 15.000 armati… la stessa cifra che la sola Firenze riuscì a mettere in campo contro Pisa nel 1364. Singole città in grado di scatenare guerre come facevano i re.

Ed ecco perché quel 12 febbraio dell’anno 1317, ovvero il giorno dello “unbrigaiuolo”, a carnevale, due dei terzieri senesi si schierarono in piazza del Campo per fare un grande “giuoco della pugna” con tanto di sassaiola finale. Il bellicoso contesto cittadino italiano con le sue parti comunali divise per la battaglia (e abituate alla battaglia), pronte alla competizione quotidiana persino in assenza di minacce esterne, prevedeva che nei momenti di pace si facesse comunque la guerra, anche inventandosela.

“Come el dì dello unbrighaiuolo si fece grande giuocho a le pugna, Samartino e Città, anni domini mcccxvii, xii di feraio.
E nel tempo della detta signoria, essendo la città in pace e in tranquillità, venne el tempo dello unbrigaiuolo, ed essendo ognuno in festa, per amore del charnasciale diliberoro molti  gentiluomini di volersi espogliare e fare a le pugna l’una parte cho’ l’altra. E metendosi in ponto e vennero in Champo cho’ molti espogliati e cho’ molte schiere. E chome furo in Chanpo tutte le butighe si serrarono e ogniuno de’ butighai s’acccostò a la sua parte a fare e spalle; e ogniuno a schiera combattevano in modo e in forma che nessuno non poteva acquistare l’una parte l’altra ; ed erano tanto angharati che nessuno si voleva partire. E cominciarono a fare a’ sassi e molti ne ruppero el chapo. E fu tanta la gente che correva cho’ sassi, che era una maraviglia. E veduto questo, Ottaviano de la Brancha da Ghobio potestà, e ancho e’ signori Nove fecero comandare che ognuno dovesse tornare a casa sua, sotto la pena de’ loro arbitrio. E non giovando el bando, che tutta volta moltiplicava la gente cho’ sassi in modo e in forma, che ogni uomo se ne maravigliava, soprattutto quelli che stavano a vedere. E dubitando el potestà che la terra non andasse a romore, uscì fuori co’ la sua gente e cominciò a volere spartire e mandare la gente ognuno alle loro case: ma e’ non fu ubbidito. E ancho cominciarono a venire de’ sassi verso lui e anche alla sua fameglia ne fu rotto el chapo, e per questo el potestà molto se ne scandalizzò, e se non fosse che venne la notte vi sarebbe stato molto grande male. E tutta questa battaglia fu a piè el palazo de’ signori. E la mattina seguente era a piè del palazo tanti sassi che avrebbero fatto una mezza casa: e costoro e’ detti sassi a levare via, otto lire da l’operaio del comune, e quasi a ogni uomo gli pareva una maraviglia tanti sassi vedere a piè del palazzo, che pareva che vi fossero piovuti. E dicesi che per questa battaglia de’ sassi ci morirono dieci persone, ma più di cento ne furono ferite. E anche per questo molti ne vennero in grande inimicizia, e in questo modo per quella volta si fece sì bello giuoco, ma non per molti.”

Cronaca senese di autore anonimo (forse Agnolo di Tura), anni 1316-1317, a cura di Alessandro Lisini e Fabio Iacometti

Lo schieramento del terzo di San Martino si radunò in piazza dinnanzi al terzo rivale di Città; tutti “espogliati”, ovvero disarmati, a torso nudo per impedire che qualcuno nascondesse del ferro sotto le vesti. Le botteghe chiusero tutte, serrando gli ingressi, e una folla si assiepò attorno alla piazza per assistere all’imminente mattanza. Gli uomini delle due schiere si mossero l’uno contro l’altro e il “giuoco della pugna” incominciò.

Uno scontro sanguinoso, a calci, pugni e testate, che si protrasse a lungo, per tutta la giornata. I partecipanti erano così infuriati, presumibilmente per via di inimicizie e rivalità pregresse, che non vollero smettere neppure quando richiamati dall’autorità. La mischia dilagava in piazza e dai cazzotti si passò poi alle sassate. Entrambi gli schieramenti diedero inizio a una micidiale sassaiola, spaccando ossa e teste, macchiando piazza del Campo di sangue. I partecipanti correvano di qua e di là portando sassi, e moltissimi caddero colpiti, senza rialzarsi.

Visto come il giuoco della pugna era ormai degenerato, il podestà con l’appoggio del governo dei Nove fu costretto a intervenire con la guardia armata, timoroso che l’episodio potesse sfociare in una rivolta cittadina. Ma nonostante l’arrivo dei soldati, quei sanguinari lottatori non vollero smettere di menarsi. Anzi, cominciarono a far piovere sassi contro i soldati e lo stesso podestà, tanto che ad alcuni della sua “fameglia” fu rotto il capo. Dove il termine utilizzato dal cronista “fameglia” credo stia a indicare i famigli, ovvero i seguaci armati: insomma, alcuni degli stessi soldati investiti dalla letale tempesta di sassi si trovarono con la testa rotta.

E sembrerebbe che niente e nessuno riuscisse a fermare quel “giuoco della pugna” trasformatosi in scontro all’ultimo sangue, se non le tenebre stesse. Poiché dopo il tramontare del sole e il calare della notte, la folla cominciò a disperdersi, e il “giuoco” si concluse.

“La mattina seguente era a piè del palazzo tanti sassi che avrebbero fatto una mezza casa. (…) e pareva che vi fossero piovuti.”

Queste le parole della cronaca per descrivere lo spettacolo all’indomani della pugna, in una piazza del Campo stracolma di sassi. Così tanti che un operaio del comune fu pagato la bella cifra di 8 lire per portarli via. Il cronista conclude il resoconto dicendo che quel giorno, per colpa della sassaiola, furono ferite più di cento persone e che ne siano morte dieci.

Si concluse così la festa di carnevale del 12 febbraio anno 1317, in piazza del Campo a Siena; “uno bello giuoco, sì, ma non per molti”, soprattutto quelli che ci son morti. Secondo alcuni storici si è trattato di un episodio facente parte di una più ampia crisi sociale, di natura politica: vera e propria rivolta organizzata spacciata per gioco. Infatti, il podestà divenuto così facilmente bersaglio della sassaiola potrebbe essere la conseguenza di una vera e propria congiura mascherata da carnevalata.

In ogni caso, questo episodio dice molto sulla tradizione rionale italiana, fatta di suddivisioni interne alle stesse città, competizioni, gare, rituali. Dal calcio storico fiorentino, alle corse con le statue dei santi in groppa, passando per giostre, cortei, feste: tutte eredità culturali, ancora oggi vivissime nel nostro paese, e che nella stragrande maggioranza dei casi nascono proprio da divertenti (e macabri) fatti medievali come questo giuoco della pugna del 1317. Siena è l’esempio lampante di come la rivalità interna, delle contrade, sia parte integrante delle tradizioni popolari, e il Palio è uno degli eventi che meglio rappresenta la vicinanza della nostra epoca con quella medievale.

Se questa storia ti ha appassionato, ricorda che le Leggende Affilate proseguono nei miei romanzi, come l’ultimo pubblicato “La Stirpe delle Ossa”, che puoi acquistare in tutte le librerie e gli store online, Amazon compreso.

  1. Cronaca senese di autore anonimo (forse Agnolo di Tura), anni 1316-1317, a cura di Alessandro Lisini e Fabio Iacometti
  2. M. Merlo • Renitenza alla leva a Siena tra il XIII e la prima metà del XIV secolo
  3. Nuova Cronica, Giovanni Villani
Lorenzo Manara
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