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15 Febbraio 2023

Il cacciatore infernale: Herne the hunter

herne the hunter

William Shakespeare ci racconta una storia di fantasmi e cavalieri neri: Herne the hunter, il cacciatore infernale della wild hunt

“C’è una vecchia leggenda che racconta di Herne il cacciatore, un tempo guardiacaccia nella foresta di Windsor, che d’inverno, a mezzanotte, s’aggira intorno a una quercia con delle corna ramificate in testa. La sua apparizione fa disseccare le piante, porta infermità al bestiame, e tramuta in sangue il latte delle vacche. Camminando, il fantasma trascina una catena, con fragore tetro ed orrendo. D’un tale spirito avrete udito anche voi e saprete come i vecchi, nella superstiziosa lor follia, abbiano tramandato come vera questa storia di Herne il Cacciatore…”

Le allegre comari di Windsor. William Shakespeare

Nel folklore medievale europeo sono numerose le storie di fantasmi: defunti che vagano sulla terra, irrequieti, spesso vestiti con gli abiti di quando erano ancora vivi, compresi quelli militari: talvolta indossano l’armatura, impugnano la spada, e montano persino un destriero… infernale, naturalmente.

Un cronista del XII secolo di nome Eccheardo d’Aura, ci racconta nella sua opera di un avvistamento nei pressi della città di Worms, in Germania. La comunità locale si fece spettatrice di un evento straordinario: una lunghissima colonna di cavalieri era emersa all’improvviso da una montagna, in marcia verso una destinazione sconosciuta. L’esercito era enorme e la sua natura soprannaturale chiara a tutti: erano apparsi dal nulla come degli spiriti. Un coraggioso abitante della zona, armato di fede cristiana, si avvicinò all’armata di cavalieri fantasma per chiedere loro cosa volessero. Lo fece in nome del Dio Onnipotente da cui sperava di ottenere tutta la protezione nec[[essaria a fronteggiare quella possibile minaccia dell’Aldilà. E i cavalieri, molto cordialmente, risposero.

“Noi non siamo, come pensi, delle illusioni. Piuttosto, siamo le ombre dei cavalieri che di recente sono stati uccisi. Le armi, le armature e i cavalli che prima erano i nostri strumenti per il peccato sono ora gli strumenti del nostro tormento. In verità, stiamo bruciando, anche se non puoi vederlo con i tuoi occhi corporei.”

Eccheardo d’Aura, Chronicon Uraugiensis

Un altro cronista, nel XI secolo, Rodolfo il Glabro, ci racconta di un simile avvistamento cui fu spettatore un prete di un piccolo villaggio francese della Borgogna: al calare del crepuscolo, appena le tenebre della notte ammantarono le campagne, una colonna di cavalieri apparve da nord, al galoppo, armati di ferro. Cavalcavano a spron battuto verso ovest e non appena il prete spaventato chiamò i servi per mostrar loro l’accadimento, l’armata scomparve nel nulla. L’autore della cronaca commenta così:

“Questo fatto dovrebbe essere ricordato con la massima attenzione: ogni volta che prodigi così evidenti vengono mostrati a persone che sono ancora vive e nel corpo … non rimangono in vita a lungo.”

Rodulfus Glaber, The Five Books of Histories

Coloro che si imbattono in queste apparizioni dall’Oltretomba, se sopravvivono, “non rimangono in vita a lungo”. I redivivi incutevano terrore nel Medioevo, così come ancora oggi, basti pensare alle opere narrative, ed erano di certo pericolosi, tuttavia la loro apparizione era considerata anche un cattivo presagio. Un esempio di quanto fossero letali queste manifestazioni dall’Aldilà lo troviamo in un’altra cronaca, quella di Orderico Vitale del XII secolo.

Nella notte del primo gennaio dell’anno 1091, data estremamente significativa per via della sua valenza esoterica, un prete di nome Gualchelinus fu testimone della comparsa di un’infinita colonna di cavalieri. Costoro montavano destrieri neri, senza stemmi o insegne, armati come se stessero andando in gu[[erra. Ed era proprio così, poiché facevano parte della masnada di Hellequin, il condottiero d’Oltretomba. Il prete si avvicinò alla schiera dannata e finì per essere aggredito da quattro di quei cavalieri neri. Uno di essi lo afferrò per la gola, dimostrando di essere capace di compiere atti materiali: entità dunque in grado di manipolare la materia terrena, al contrario dei fantasmi immateriali come li intendiamo noi oggi.

Dopo esser stato preso per il collo, stretto dalla presa infernale di un cavaliere nero, il povero prete si ammalò e rimase a letto per una settimana, portando con sé un segno inequivocabile dell’incontro con l’esercito dei morti. Era stato marchiato dalle mani incandescenti del cavaliere nero. Lo stesso autore della cronaca riferisce di aver visto con i suoi occhi quell’orrenda bruciatura sul collo, testimonianza incontrovertibile del racconto, la notte in cui si spalancarono le porte dell’Oltretomba.

La guerra e la caccia sono due attività unite da un fortissimo legame, e accompagnano le popolazioni dell’umanità intera fin dalla preistoria. Questo binomio compare anche in questi resoconti, dando origine a un grande mito del folclore medievale, quello della caccia selvaggia: schiere di guerrieri lanciati in un eterno gioco guerresco, a metà fra la pratica venatoria e l’arte militare vera e propria. Una delle prime descrizioni di caccia selvaggia, tra le più dettagliate, è presente in un manoscritto della cronaca anglosassone del XI secolo.

“I cacciatori erano scuri, enormi e brutti; e i loro cani erano tutti bruni, con gli occhi spalancati e brutti. E montavano cavalli scuri e cervi scuri. Questo è stato visto proprio nella città di Peterborough, e in tutti i boschi di quella stessa città a Stamford. E i monaci udirono suonare il corno nella notte. Testimoni attendibili, che li osservarono, dissero d’aver percepito circa venti o trenta suonatori di corno. Ciò fu visto e udito per tutta la Quaresima fino a Pasqua. Così giunsero, ma della loro partenza non possiamo ancora dire nulla. Dio provveda.”

The Anglo-Saxon Chronicle

Ed è proprio a partire da questi frammenti di testi medievali che lo scrittore più celebre di tutti i tempi prese spunto per narrare la storia di un cavaliere della caccia selvaggia. Sto parlando di William Shakespeare e del suo cacciatore infernale: Herne the hunter.

Nell’opera “Le allegre comari di Windsor” compare la leggenda di Herne, un cacciatore al servizio di re Riccardo II (1367-1400, il figlio del “Principe Nero”). Durante una battuta di caccia Herne fu trafitto dalle corna di un cervo, lo stesso che stava inseguendo, e si trovò dissanguato, in fin di vita. Poco prima di morire, si rivolse a uno stregone che lo guarì dalla ferita ma lo lasciò con una maledizione.

Da quel momento, Herne fu costretto a portare sulla testa delle corna, simili a quello del cervo che lo aveva ferito, finendo dannato come in una sorta di contrappasso dantesco, assumendo quindi le sembianze di un essere mostruoso, dal corpo umano e la testa bestiale.

Non sappiamo se Shakespeare abbia trascritto un mito preesistente o se invece si sia inventato tutto. La figura dell’uomo cervo potrebbe provenire dalle leggende di origine germanica, giunte in Britannia nell’Alto Medioevo con l’arrivo degli angli e dei sassoni. Oppure, potrebbe essere una reminiscenza del mondo celtico, e del dio-cervo Cernunnos.

Il fatto che il cacciatore si sia unito alla preda tramite un legame di sangue, trasformandosi in un essere bestiale, è un elemento che ritroviamo nelle storie antiche e medievali, come nel celebre Sigurd, o Sigfrido, l’eroe ammazzadraghi della tradizione norrena. Poiché Sigurd, dopo aver trafitto al cuore il gigantesco drago serpentiforme Fafnir, s’immerse nel sangue mostruoso per acquisirne le virtù, fisiche e conoscitive. E sarebbe pure divenuto immortale, se non fosse che una foglia gli si era posata sulla schiena, tra le scapole, impedendogli di bagnarsi col sangue proprio in quell’esatto punto: un punto debole e mortale, come il tallone d’Achille o il malleolo del gigante Talo.

Tuttavia, Shakespeare va oltre la mitologia, donando alla storia del cacciatore infernale una parvenza di realismo, poiché Herne nelle sue nuove sembianze ferali si scontra con i membri della sua comunità, i quali non hanno alcuna intenzione di accoglierlo nuovamente tra loro. Anzi, lo trattano come un mostro, dandogli persino la caccia. Herne the hunter, disperato, si rifugia nel bosco, allontanato, umiliato, e solo. E non trovando alcun conforto nella sua nuova vita maledetta, decide di abbandonarsi al destino cui aveva tentato di scampare. Si appende per il collo a una quercia, e muore.

La storia, però, non finisce qui. Poiché la sua morte, come le molte altre presenti nelle cronache medievali, non è definitiva. Herne talvolta viene avvistato di notte, mentre vaga nel bosco con le sue corna di cervo, da solo o in compagnia di altri cavalieri infernali, scortati da diabolici segugi in un’eterna caccia selvaggia. Incontrarlo è letale, e nel caso si sopravviva, presagio di sventura.

Nel mio ultimo romanzo, La Stirpe delle Ossa, il protagonista Riccardo di Malarocca, signore di un malandato feudo italiano, incorre in una maledizione molto simile a quella di Herne the hunter, che lo porterà ad avvicinarsi sempre di all’abisso della non-vita. Se vuoi saperne di più, trovi il libro in tutte le librerie e gli store online.

E mi raccomando, seguimi, così non perderai l’occasione di vivere le prossime leggende affilate. Ciao.

Lorenzo Manara
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