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3 Ottobre 2022

Gli Almogavari: incursori, pirati e diavoli

almogavari

Dalle montagne spagnole ai mari del sud Italia e dell’Asia Minore: gli Almogavari, i feroci guerrieri che incendiarono il Mediterraneo

“Ora questi soldati che sono chiamati Almogavari sono uomini che vivono per nient’altro che la guerra, e non abitano in paesi né in città ma in montagne e nelle foreste. E combattono continuamente con i Saraceni e fanno incursioni nella loro terra per un giorno o due, saccheggiando e prendendo prigionieri molti Saraceni, e similmente i loro beni con cui vivono. E soffrono molte difficoltà che altri uomini difficilmente potrebbero sopportare… E questi uomini sono estremamente forti e sono veloci a fuggire o a perseguire.”

Cronaca di Bernat Desclot, 28-9

Gli Almogavari erano guerrieri originari della Spagna orientale, che nel corso del tempo si diffusero in Catalogna, Aragona e Navarra ingrossando le loro fila grazie a volontari di tutte le nazioni cristiane e perfino arabe. Furono loro che, nel XIII secolo, si riversarono nel Regno di Sicilia per combattere gli angioini sotto la guida di Ruggero da Fiore, il condottiero italiano fondatore della Compagnia Catalana e di una flotta che mise a ferro e fuoco il Mediterraneo.

Almugavar è una parola araba (‘mughaver’ e con l’articolo ‘al-mughaver’) dall’arabo al-mogàuar (“predatore, devastatore”), un termine usato per descrivere gruppi di uomini che periodicamente si impegnavano in incursioni nel territorio musulmano, saccheggi e rapimenti. Dalla stessa radice derivano le parole ‘algara’, ‘algarada’, ovvero un’incursione e, quindi, ‘almugavar’, ovvero il soldato impiegato nelle incursioni1. Ma come apparivano questi guerrieri spesso paragonati a “diavoli” d’Inferno?

Secondo la Cronaca di Bernat Desclot, i guerrieri Almogavari vestivano una specie di mantello e calzoni fatti di pelle, indossavano sandali di ruvido cuoio e si proteggevano le gambe con delle “antiparas”, ovvero delle mezze ghette che coprivano la parte anteriore della gamba, anch’esse di pelle, così come lo zaino o borsa in cui trasportavano il pasto quotidiano. In testa indossavano un copricapo simile a una cuffia imbottita, secondo alcuni un vero e proprio elmo di ferro, con cui fasciavano i capelli lunghi come quelli “dei barbari di un tempo”: perché non li tagliavano mai, né si radevano mai.

Attaccata alla cintura, gli Almogavari portavano una cinghia di cuoio da cui pendeva un coltello dall’aspetto crudele, la cui potenza viene descritta da Ramon Muntaner, quando in uno scontro con i francesi il cronista stesso vide un almogavaro menare una formidabile coltellata sullo schiniero di un cavaliere nemico, tranciandogli d’un pezzo l’armatura con tutta la gamba, e penetrando perfino di “mezzo palmo nel fianco del cavallo”.

Oltre al coltellaccio, le armi degli Almogavari consistevano in una corta lancia e di tre o quattro giavellotti che portavano a tracolla. Combattevano generalmente a piedi, anche se alcuni di loro possedevano un cavallo. La loro forza risiedeva nell’attacco a sorpresa e nell’imboscata. Liberi dal peso delle armature che caratterizzavano la guerra del tardo Medioevo, gli Almogavari eccellevano nel lancio di giavellotti, affilati e potenti, che secondo alcune cronache erano in grado di perforare le armature del nemico, presumibilmente quelle a maglia di ferro, magari grazie alla sezione triangolare della punta simile a quella di uno stocco, anche se non sappiamo di preciso come fossero fatti.

L’organizzazione degli Almogavari prevedeva una gerarchia semplice, suddivisa in tre ranghi principali: almogàver, almogaten e adalil, paragonabili rispettivamente ai ranghi di soldato semplice, sergente e capitano2. Solitamente organizzati in piccoli gruppi da cinque a quindici uomini, gli Almogavari vivevano quella che all’apparenza sembrerebbe una democrazia militare, o almeno una meritocrazia, grazie alla possibilità di avanzamento gerarchico, al cameratismo e agli ingenti bottini conquistati sul campo, che permettevano anche al soldato d’estrazione più povera di diventare improvvisamente benestante, se non ricco.

Gli Almogavari erano spietati sul campo di battaglia. Usavano scagliare giavellotti contro i destrieri dei nemici poiché sapevano bene che, una volta gettato a terra, qualunque cavaliere diventava vulnerabile, per quanto corazzato. Secondo alcuni storici, nelle occasioni in cui un almogavaro era a cavallo, teneva la lancia con l’estremità inferiore infilata nella staffa, sorreggendola col piede, per dirigere la punta verso il basso in modo da trafiggere il petto del destriero avversario durante la prima carica3.

Nella battaglia di Gagliano (Sicilia) contro i trecento cavalieri francesi scelti che si facevano chiamare i Cavalieri della Morte, più di cento di loro caddero vittima di queste tattiche.

“E la battaglia fu molto crudele, e gli almugavar scagliarono i dardi in modo che fosse opera del diavolo quello che facevano, perché alla prima carica più di cento cavalieri e cavalli francesi caddero a terra morti. Poi spezzarono le lance corte e sventrarono i cavalli, e giravano in mezzo a loro come se camminassero in un giardino. E il conte Galceran e don Blasco andarono agli stendardi de’ Francesi in modo tale che li gettarono tutti a terra, e allora tu potessi vedere prodezze d’armi, e colpi dati e ricevuti, perché non c’è mai stata battaglia così crudele tra così poche persone.”

Cronaca Catalana, Ramon Muntaner

Gli Almogavari facevano anche un uso considerevole della guerra psicologica. Prima di ogni battaglia, gridavano “Desperta ferres!” (“Sveglia il ferro!”) e sbattevano le loro lance e giavellotti contro le pietre, provocando grandi scintille. Questo grido di battaglia incuteva terrore nel cuore dei nemici. “Ah, Dio”, esclamò un guerriero francese assistendo al Desperta ferres, come raccontato nella cronaca di Muntaner, “Che significa tutto questo? Abbiamo incontrato dei diavoli! Coloro che svegliano il ferro, a quanto pare, intendono attaccare…”

Gli Almogavari da guerriglieri di montagna divennero presto un’unità scelta per combattere le grandi battaglie, comprese quelle che coinvolgevano i sovrani aragonesi nel corso delle guerre contro la Francia, sul finire del XIII secolo.

“CXXXIV Come il Signore Re d’Aragona combatté nel giorno di Santa Maria in agosto con duecento almugavari contro quattrocento cavalieri francesi che erano in agguato col conte di Nevers; e come li sconfisse e uccise il detto conte.
Il giorno d’agosto di Nostra Signora Santa Maria, mentre si dirigeva verso Besalú, si imbatté in un agguato di quattrocento cavalieri francesi, che erano stati tesi in agguato perché un convoglio di vettovaglie stava arrivando all’ostia da Rosas. E uomini a cavallo e a piedi li attaccavano sempre in quel luogo e perciò lo occupavano di notte, per punirli. E il signore re andava avanti, raccontando di come aveva visto che il suo popolo in ogni luogo della frontiera aveva ricchezze e abbondanza per le tante incursioni che faceva ogni giorno contro i francesi, uccidendone molti e guadagnando infinito, sicché tutti erano allegro e contento. E poiché il Signore Re procedeva così con noncuranza, Dio, che non fa altro che per il meglio e ha voluto preservare il Signore Re dalla morte o dalla prigione, concesse che gli almogavari, dei quali erano circa duecento con lui e che andavano insieme i burroni della montagna, iniziarono due o tre lepri, e quando le lepri iniziarono, gli almogavari iniziarono a urlare e gridare forte. E il signore re e quelli che erano con lui, che erano una sessantina di uomini a cavallo, subito presero le loro armi, immaginando che gli altri avessero visto la cavalleria. E i francesi che si nascondevano immaginarono di essere stati scoperti e così, subito, uscirono dall’imboscata.”

Giacomo I, sovrano d’Aragona, marciava con un piccolo esercito composto da 200 almogavari lungo i Pirenei quando si trovò vittima di un agguato francese, assalito da circa 400 cavalieri pronti a sterminare lui e i suoi uomini. La sua salvezza furono proprio gli almogavari, che si accorsero in tempo dell’attacco e lo avvertirono per prepararsi a combattere.

“E il Signore Re, che li vide, disse: «Baroni, agiamo con prudenza; uniamoci ai nostri uomini a piedi, perché ci sono molti cavalieri qui che sono in agguato che ci aspettano. E così tutti si preparano a fare del bene perché, con l’aiuto di Nostro Signore e vero Dio Gesù Cristo, faremo oggi un atto di cui parlerà il mondo intero». E tutti risposero: «Signore, facci la grazia e il favore di salire su questo monte, affinché la tua persona, Signore, sia al sicuro, perché non temiamo nulla, ma solo per la tua persona; e quando sarai lì, vedrai cosa stiamo facendo”. Il Signore Re disse: “Dio non voglia che prendiamo un’altra strada a causa loro”. E subito alcuni degli almogavari che erano vicini al Signore Re si radunarono intorno a lui, ma non erano più di cento quando attaccarono. E hanno spezzato le lance a metà. E il Signore Re fu il primo a correre avanti, e attaccò il primo uomo che incontrava con la sua lancia, in mezzo al suo scudo, in modo tale che l’uomo non aveva bisogno di cercare un dottore. E poi sguainò la spada e la menò qua e là, e si aprì una via, così che nessuno di loro, quando l’ebbero riconosciuto dal modo di aggredire, osò aspettarlo per un colpo diretto. E gli altri che erano con lui fecero così bene che nessun cavaliere poteva compiere atti di cavalleria più grandi di loro.”

Il re aragonese, invece di fuggire, rispose all’assalto in prima persona, spezzando la sua lancia contro lo scudo di un cavaliere avversario “in modo tale che l’uomo non aveva bisogno di cercare un dottore”, poiché morto sul colpo. Assieme ai suoi fedeli almogavari, sguainò poi la spada aprendosi una via in mezzo ai molti nemici, e lo fece così bene “che nessun cavaliere poteva compiere atti di cavalleria più grandi.”

“Tra gli almogavari, è giusto che vi dica che li attaccavano con lance abbassate in modo tale che non rimaneva cavallo che non fosse ferito. E questo fecero quando ebbero speso tutti i loro dardi, perché puoi credere che non c’era nessuno che, con il suo dardo, non avesse ucciso un cavaliere o un cavallo. E poi, con le lance abbassate facevano meraviglie. E il Signore Re era ora qui, ora là, ora a destra, ora a sinistra, e combatté così duramente con la sua spada che fece tutto a pezzi. E subito afferrò la sua mazza, con la quale attaccò meglio di qualsiasi uomo al mondo. E si avvicinò al conte di Nevers, che era capo di quella compagnia, e con la sua mazza gli diede un tale colpo sull’elmo che lo fece cadere a terra.”

Gli almogavari attaccavano i destrieri, sventrandoli con le lance, per gettare a terra i nemici francesi. Nel pieno del combattimento, il sovrano aragonese lasciò la spada per passare alla mazza, arma con cui menò un colpo così poderoso da mandare al tappeto il conte di Nevers, ovvero il condottiero dei francesi, preso in testa, sull’elmo.

“E subito si voltò e disse a un giovane galante che non si allontanava mai dalla sua parte, che si chiamava En G. Escriva e veniva da Játiva, e che stava cavalcando un cavallo con una sella da combattimento: “Guillem, smonta da cavallo e uccidilo”. E il giovane mise piede per terra e lo uccise. E quando l’ebbe ucciso, con sua rovina, la spada che portava il conte, che era molto riccamente ornata, catturò la sua attenzione e la slacciò; e mentre lo slacciava, un cavaliere del conte morto, vedendo che questo giovane aveva ucciso il suo signore, gli si precipitò addosso e gli diede un tale colpo sulle spalle che lo uccise. E il lord re si voltò e vedendo che questo cavaliere aveva ucciso Guillem Escrivà, gli diede un tale colpo di mazza sul suo berretto di ferro che il suo cervello gli usciva alle orecchie, e cadde morto a terra.”

Il re aragonese chiese a un suo giovane cavaliere di finire il conte, steso a terra, forse tramortito dalla botta, ma ancora vivo. Il giovane smontò da cavallo e lo uccise, per poi impadronirsi della spada “molto riccamente ornata” del nemico. Nel vedere il cadavere del conte spogliato da un ribaldo, uno dei francesi si precipitò sul luogo e sferrò un colpo alle spalle del giovane, uccidendolo mentre era impegnato a saccheggiare. Allora il re si vendicò immediatamente con la sua mazza, menando un fendente dritto sull’elmo di ferro del cavaliere francese, in modo “che il cervello gli uscì alle orecchie”.

“E in questo luogo, a causa del conte che era stato ucciso, avresti potuto vedere colpi dati e ricevuti. E il Lord Re, che vide i suoi seguaci così duramente incalzati, si precipitò sui suoi nemici e si fece spazio, poiché in tutto uccise con le sue stesse mani più di quindici cavalieri; perché, credetemi, coloro che ha raggiunto non hanno avuto bisogno di più di un colpo. E in questa mischia un cavaliere francese, vedendo che il Signore Re faceva loro tanto danno, gli si avvicinò con la spada in mano e gli tagliò le redini, così che, per questo, il Signore Re era quasi perduto. Perciò nessun cavaliere dovrebbe andare a combattere senza due coppie di redini, un paio di catena e l’altro di cuoio, e quelli di catena devono essere ricoperti di cuoio. Cosa devo dirti? Che il Signore Re era impotente; il cavallo lo portava qua e là; ma quattro almugavar, che stavano vicino al Signore Re, gli si avvicinarono e gli legarono le redini. E il Lord Re tenne bene in mente questo cavaliere che gli aveva tagliato le redini, e andò verso dov’era e lo pagò per questo piacere che gli aveva fatto in modo tale che non poteva più tagliare le redini, ma fu ucciso come il suo signore.”

Il re proseguì a combattere in prima linea, uccidendo da solo più di 15 avversari. Un cavaliere francese, vedendo il gran danno che faceva il sovrano aragonese, si avvicinò per tranciargli le redini con un colpo di spada. A quel punto, il re perse il controllo del destriero, impotente, col cavallo “che lo portava qua e là”. Il cronista Muntaner spiega che mai nessuno dovrebbe andare in guerra senza due coppie di redini, col primo paio composto da una catena ricoperta di cuoio e il secondo di semplice cuoio, per resistere a qualsiasi colpo di taglio.

Anche stavolta, il re fu salvato dai bravi almogavari, che lo raggiunsero per tranquillizzare il destriero e aggiustargli le redini, permettendogli quindi di rientrare in campo e uccidere quel cavaliere che gliele aveva tagliate, mandandolo nell’Oltretomba.

“E poi, quando il Lord Re fosse tornato in mezzo alla folla, avresti potuto vedere l’attacco e l’assalto; c’erano ricchi homen e cavalieri in compagnia del Signore Re che non avevano mai partecipato a prodezze d’armi prima, e ognuno in questo giorno fece meraviglie per proprio conto. Cosa dovrei dirti a riguardo? C’era un giovane cavaliere trapanese, chiamato En Palerm Abat, che il signore re aveva ricevuto nella sua casa di Sicilia, il quale non si era mai trovato presente a fatti d’armi, ma faceva quanto avrebbe fatto Rolando, se fosse stato vivo. E tutto questo derivava dal grande amore che avevano per il Signore Re, e da ciò che lo videro fare con le sue stesse mani; poiché ciò che fece il Signore Re non fu opera di cavaliere ma veramente opera di Dio. Perché non Galahad, né Tristano, né Lancillotto, né gli altri cavalieri della Tavola Rotonda, se fossero stati con pochi seguaci come il Lord Re, avrebbero potuto fare tanto in un giorno come il Lord Re e quelli con lui hanno fatto contro quattrocento cavalieri esperti come questi erano il fiore dell’esercito francese. Cosa dovrei dirti a riguardo? I francesi volevano raccogliere su un’altura, ma il Signore Re si precipitò verso colui che portava lo stendardo del conte e gli diede un tale colpo sull’elmo con la sua mazza che lo fece cadere a terra morto e stecchito. E gli almugavar fecero subito a pezzi lo stendardo. E i Francesi, che videro per terra lo stendardo del loro signore, si radunarono in fitta formazione, e il Lord Re andò ad attaccare in mezzo a loro con tutti i suoi uomini. Cosa devo dirti? I francesi avevano afferrato una collinetta ed erano così vicini tra loro che né il Signore Re né nessuno dei suoi seguaci potevano penetrare tra di loro. Tuttavia la battaglia durò fino al vespro e al buio; e de’ Francesi non restavano più di ottanta cavalieri. E il Signore Re disse: “Baroni, è notte e potremmo picchiarci a vicenda come loro, quindi raduniamoci”. E quando furono raccolti su un’altra collina, videro arrivare ben cinquecento cavalieri francesi con i loro stendardi. E se mi chiedi chi erano, ti dirò che erano tre conti, parenti del conte di Nevers, che erano preoccupati per lui, perché era andato in agguato, e non l’avevano visto tornare a mezzogiorno, quando avrebbe dovuto tornare. E con il permesso del re di Francia andarono a cercarlo. E così videro quei cavalieri su un colle e il re d’Aragona su un altro. E subito andarono dai loro concittadini, che uscivano loro incontro, e udirono il brutto esito della loro impresa e andarono dove il conte e ben altri sei suoi parenti giacevano morti. E li portarono via con grande pianto e grandi grida e andarono tutta la notte finché giunsero all’oste. E quando giunsero all’oste avresti potuto vedere lutti e pianti e pianti, tanto che sembrava che tutto il mondo si stesse sgretolando. E En Ramon En Folch, visconte Cardona, che era a Gerona, mandò fuori dieci uomini a portare notizie e catturarono uomini dell’esercito che portarono dentro la città. E quando En Ramon Folch li vide, chiese a cosa servisse piangere e lamentarsi laggiù. E gli raccontarono cosa era successo. E poi En Ramon fece fare grandi luminarie in tutta la città di Gerona. Ora li lascerò stare e tornerò a parlare del re d’Aragona che disse: “Baroni, ci fermeremo qui tutta la notte e domattina scopriremo quale cavalleria abbiamo perso, perché sarebbe un grande disonore lasciamo il suolo così”. “Signore”, dissero quelli che erano con lui, “che dici? Quello che hai fatto oggi non è abbastanza? Avremo forse altro da fare domani? E il Signore Re rispose che avrebbe certamente perlustrato il campo di battaglia perché non desiderava che nessuno potesse rimproverarlo. Quando fu giorno, gli altri almugavar che erano stati sulle montagne e della sua cavalleria più di cinquecento uomini a cavallo si unirono a lui. E il Signore Re, con il suo stendardo dispiegato, girava per terra con quelli che erano stati con lui nella battaglia, perché non voleva che nessun altro vi mettesse piede. E questi perlustrarono il campo e ottennero tanti bei equipaggiamenti che furono resi prosperi per sempre.”

Combattendo alla stregua di Orlando e dei paladini di Carlo Magno, il re aragonese si diresse poi verso lo stendardo francese, ammazzando l’alfiere con un colpo di mazza in testa. Gli Almogavari si radunarono per riprendere fiato, al calare della sera. La battaglia si concluse col nemico francese in ritirata e un gran bottino che gli almogavari poterono prelevare dai corpi, ottenendo “tanti bei equipaggiamenti che furono resi prosperi per sempre”.

L’equipaggiamento degli almogavari “arricchiti” viene successivamente descritto in un atto di Giacomo I: “bacinetto, con visiera e barbuta di ferro, e corazza e usbergo, pourpoint, brazal, schinieri e cuisse di ferro, calzoni di cotta, chausses di lana, una falce, un’ascia e un pugnale o espunto.”

“E il Signore Re esaminò i suoi seguaci e scoprì che aveva perso dodici cavalieri, e che G. Escrivà, morto a causa della spada che desiderava. Pertanto ciascuno deve badare che, mentre è impegnato in battaglia, non si preoccupi di nulla a parte la vittoria; non dovrebbe desiderare né oro né argento né qualsiasi cosa veda, ma si preoccuperà solo di affrontare i suoi nemici corpo a corpo. Perché, se la sua parte vince, avrà abbastanza bottino quando il bottino sarà raccolto, e se la sua parte perde avrà poco profitto da tutto ciò che ha, perché il suo corpo sarà lasciato lì. E quindi prendi a cuore quello che ti dico, e se lo fai, Dio ti farà uscire sempre dal campo con onore. E così anche loro scoprirono di aver perso circa venticinque uomini a piedi. E così puoi immaginare che razza di impresa fu questa, di così poche persone contro così tanti cavalieri, che in tutto rimasero uccisi più di trecento cavalieri francesi, dei quali, secondo l’opinione di coloro che erano in battaglia, solo il lord re ne aveva uccisi di propria mano più di sessanta. E così hanno raccolto l’imbracatura e il denaro sul campo di battaglia; quanto ai cavalli non valeva la pena prenderne uno dal campo, perché non ce n’era uno che non avesse sette o otto ferite di lance. E così il Signore Re andò a Besalú e lungo tutta quella frontiera gli uomini erano ricchi e benestanti, come lo furono gli uomini sulle altre frontiere. Cosa devo dirti? Dopo che il Signore Re ebbe ispezionato tutto ciò che c’era lì, venne a Hostalrich dove si trovava il Lord Infante En Alfonso. Ora smetterò di parlarvi di lui e tornerò a parlare di mia signora la regina e del lord Infante En Jaime e dell’ammiraglio e delle galee e dei due legni che il lord re mandò loro da Barcellona.”

Al termine dello scontro, gli almogavari del sovrano aragonese avevano perduto 12 cavalieri, compreso quel giovane cavaliere morto a causa della sua avidità. Per questo, fu stabilito che in guerra mai nessuno si sarebbe dovuto occupare del bottino, rimandando i saccheggi al termine della battaglia per concentrarsi esclusivamente sulla vittoria. “Pertanto ciascuno deve badare che, mentre è impegnato in battaglia, non si preoccupi di nulla a parte la vittoria; non dovrebbe desiderare né oro né argento né qualsiasi cosa veda, ma si preoccuperà solo di affrontare i suoi nemici corpo a corpo. Perché, se la sua parte vince, avrà abbastanza bottino quando il bottino sarà raccolto, e se la sua parte perde avrà poco profitto da tutto ciò che ha, perché il suo corpo sarà lasciato lì.”

Di almogavari a piedi ne erano morti circa 25, per 42 perdite totali da parte aragonese, mentre i francesi, invece, avevano perso più di 300 cavalieri. I testimoni riportano che lo stesso sovrano ne uccise da solo più di 60, ricalcando le grandi gesta delle canzoni eroiche, in cui i protagonisti venivano descritti come macchine da guerra.

Preso il bottino e lasciati tutti i destrieri nemici poiché non ve n’era rimasto neppure uno illeso, ma tutti morti o feriti da almeno 7 o 8 colpi di lancia, i vincitori se ne tornarono a casa, ricchi e contenti. Oltre alla guerriglia e alla guerra campale, però, gli almogavari eccellevano in un altro tipo di scontro, all’apparenza antitetico: quello marittimo.

A partire dalla seconda metà del XIII secolo, quando il Mediterraneo era infiammato dalle casate reali che lottavano per il possesso delle isole e, soprattutto, del sud Italia, ovvero del Regno di Sicilia che comprendeva l’isola omonima e le regioni meridionali fino alla Puglia e la Campania, gli Almogavari lasciarono le montagne iberiche per concentrarsi sulla guerra navale, a bordo di galee mosse dal vento e dalla forza dei rematori, seminando il terrore fra i nemici.

La Sicilia angioina, infatti, divenuta tale dopo la vittoria di Carlo I d’Angiò sulla dinastia sveva, prima contro Manfredi (vedi la battaglia di Benevento), poi contro il giovane Corradino (vedi la battaglia di Tagliacozzo), si ribellò ai francesi dando inizio alla guerra del Vespro, per riportare gli svevi sul trono del sud Italia. Il legittimo erede dell’imperatore Federico II venne identificato in Pietro III d’Aragona, sovrano spagnolo che aveva sposato la figlia di Manfredi, Costanza II, e dunque primo in linea di successione.

Invitato a scacciare i francesi dall’isola, Pietro III d’Aragona sbarcò sull’isola con 8.000 almogaveri, gli stessi guerrieri che accompagnavano la corona aragonese già durante il regno del predecessore, Giacomo I. La guerra si combatté per terra e per mare, in sella al destriero e a bordo di veloci galee ricolme di soldati. I responsabili dell’incredibile successo aragonese furono principalmente due italiani: Ruggero da Fiore, l’ex templare, e Ruggero di Lauria, originario della Basilicata, la cui famiglia aveva combattuto al fianco di Manfredi per sostenere la causa sveva, poi portata avanti da Pietro III d’Aragona.

Ruggero di Lauria comandò la flotta aragonese per tutta la durata della guerra contro gli angioini, restando ai vertici della gerarchia perfino sotto i successori di Pietro III: Giacomo I e Federico III di Sicilia (rispettivamente primo e secondo dei loro nomi, per quanto riguarda la casata spagnola in Sicilia). Una delle vittorie più importanti, che permisero alla Sicilia di liberarsi della tirannia francese, fu dovuta proprio alle abilità di Ruggero di Lauria, che nella battaglia di Malta dell’8 luglio 1283 riportò un successo formidabile, la cui cronaca ci permette di osservare gli almogavari all’opera a bordo di navi da guerra.

“LXXXIII Come l’ammiraglio En Roger de Luria venne al porto di Malta e percorse la flotta degli uomini di Marsiglia; e come volle mostrare il suo orgoglio in questa prima battaglia che era deciso a vincere. 
E subito si imbarcarono e portarono con sé una chiatta di otto remi che avevano trovato a Scicli, per perlustrare segretamente per mezzo di essa il porto. E quando furono imbarcati, presero il mare con una brezza di terra, e prima dell’ora del mattutino furono davanti al porto e proseguirono subito a remi smorzati. I due legni armati andarono a perquisire il porto e davanti a loro, a distanza di un tiro di balestra, andò la chiatta. E gli uomini di Provenza avevano i loro due legni di guardia in ciascuno dei punti all’ingresso del porto; ma la chiatta entrò per mezzo del porto a remi smorzati, in modo tale che giunsero davanti al castello e trovarono tutte le galee che avevano i remi non spediti, e le contarono tutte e trovarono che c’erano ventidue galee e due legni e scoprì anche che questi due erano a questo posto con i remi non spediti. E così la chiatta uscì dal porto e trovò i due legni che stavano navigando in mezzo all’ingresso del porto e andarono subito dall’ammiraglio e gli riferirono ciò che avevano visto. E l’ammiraglio fece indossare subito l’armatura ai suoi seguaci e mise in ordine di battaglia le galee.”

Ruggero di Lauria condusse la flotta aragonese dinnanzi al porto di Malta, controllato dagli angioini di Carlo I. Per studiare il nemico, inviò una chiatta di otto remi in perlustrazione, di notte, oltrepassando segretamente i due legni francesi, ovvero grandi imbarcazioni da trasporto più grandi delle galee, ma meno armate. Gli incursori a bordo della piccola barca riuscirono a intrufolarsi nel porto di Malta e contare le navi da guerra nemiche attraccate alla banchina, in tutto 22, tornando poi dal comandante per raccontargli ogni cosa.

Ruggero di Lauria avrebbe potuto sferrare subito l’attacco, prima che facesse giorno, e sorprendere i nemici nel sonno. Ma non volle farlo.

“E quando tutti furono pronti per la battaglia, cominciava a spuntare il giorno e tutti gridarono all’ammiraglio: “Attacchiamo, perché sono tutti nostri”. E allora l’ammiraglio fece una cosa che gli dovrebbe essere contata più per follia che per buon senso; disse, Dio non voglia che li assalisse nel sonno, piuttosto desiderava che nelle galee si suonassero le trombe e le nacchere per svegliarli, e li avrebbe fatti preparare. Non desiderava che alcuno gli dicesse che non li avrebbe sconfitti se non li avesse trovati addormentati. E tutti gridavano: “L’ammiraglio dice bene”. E questo fece l’ammiraglio più specialmente, perché era la sua prima battaglia da quando era stato fatto ammiraglio, e voleva così mostrare con lui la sua arditezza e la forza del popolo degno. E fece suonare le trombe e le nacchere e cominciarono ad entrare nel porto, si schierarono in fila, e tutte le galee si legarono insieme.”

I suoi uomini, fra cui figuravano gli almogavari, gli chiesero d’attaccare, subito, per cogliere i francesi di sorpresa. Ma Ruggero di Lauria spiegò di non volerli assalire nel sonno, poiché era la sua prima battaglia da ammiraglio e non voleva che qualcuno dicesse “che non li avrebbe sconfitti se non li avesse trovati addormentati.”

Ruggero di Lauria è un personaggio medievale molto profondo, con le sue aspirazioni e la sua dignità: caratteristiche che sono parte fondamentali delle mie opere, compreso l’ultimo romanzo, “La Stirpe delle Ossa”, poiché amo queste rappresentazioni tridimensionali del mondo, prive di banali semplificazioni, al cui centro si trovano sempre le emozioni umane.

“E i provenzali si svegliarono al suono malvagio e, subito, l’ammiraglio En Roger, alzando i remi, fece indossare l’armatura e si prepararono. E scesero dal castello pieni cento uomini di rango; e, tra provenzali e francesi che salirono a bordo delle galee dei provenzali, erano molto più forti, e questo apparve chiaramente nella battaglia. E quando En G. Cornut, l’ammiraglio di Marsiglia, vide l’orgoglio dell’ammiraglio En Roger de Luria, che avrebbe potuto ucciderli o prenderli tutti senza combattere, disse, così forte che tutti lo udirono: “Ah, Dio, cos’è questo? Che persone sono queste? Questi non sono uomini, sono piuttosto diavoli, il cui unico desiderio è una battaglia, perché avrebbero potuto prenderci già tutti se lo avessero voluto, ma non l’hanno voluto». E aggiunse: «Perciò, Signori, considerate con chi dovete combattere; ora sembra il momento di agire. Ecco l’orgoglio della Catalogna contro l’onore della Provenza, o ogni disonore, finché dura il mondo. Perciò preparatevi tutti a fare bene, perché siamo arrivati ​​al punto che cercavamo da quando abbiamo lasciato Marsiglia; mi sembra che non abbiamo dovuto cercarlo, perché sono venuti da noi. Ora lascia che l’evento vada come può, perché non c’è modo di trattenersi”.”

La flotta aragonese suonò l’attacco con trombe e nacchere, svegliando il nemico francese in porto. Il comandante angioino Guillaume Cornut, nel vedere avanzare gli assalitori guidati da Ruggero, fece come aveva già fatto un altro condottiero francese dinnanzi alle milizie degli almogavari, esclamando: “Ah, Dio, cos’è questo? Che persone sono queste? Questi non sono uomini, sono piuttosto diavoli, il cui unico desiderio è una battaglia, perché avrebbero potuto prenderci già tutti se lo avessero voluto, ma non l’hanno voluto.”

Dunque, le due fazioni si prepararono alla grande battaglia, l’onore d’Aragona e l’onore di Provenza: tutti pronti a tingere il mare di rosso.

“E poi fece suonare le trombe e issare le vele e, ben preparato e schierato in battaglia, venne verso le galee di En Roger de Luria, e le galee di En Roger vennero verso la sua. E in mezzo al porto vennero all’attacco così vigorosamente che la prua di ogni galea fu infranta, e la battaglia fu crudele e feroce. Cosa devo dirti? Il gioco delle lance e dei dardi lanciati dai catalani era tale che nulla era una difesa contro di loro; poiché si lanciavano dardi che passavano attraverso le corazze degli uomini e attraverso ogni cosa, e colpi di lance che passavano attraverso l’uomo che colpivano e attraverso il ponte della galea.”

Le navi delle due flotte si scontrarono di prua, infrangendosi l’una contro l’altra, dando inizio alla classica battaglia navale di stampo medievale: ovvero una distesa di ponti galleggianti su cui imbastire scontri all’arma bianca, esattamente come sulla terraferma.

Gli almogavari scagliarono i loro giavellotti che, secondo Muntaner, “passavano attraverso le corazze degli uomini e attraverso ogni cosa”, tanto potenti da trafiggere i nemici per conficcarsi sul ponte della galea. Forse un dettaglio troppo letterario e poco verosimile.

“E dei balestrieri non c’è bisogno di parlare, perché erano balestrieri arruolati, che erano così abili che non sparavano un colpo senza uccidere o mettere fuori combattimento l’uomo che attaccavano, perché in battaglia gli uomini arruolati hanno tutto loro modo. Onde sarebbe follia in un ammiraglio catalano portare con sé nelle sue galee più tersols che venti uomini su cento per la ricognizione; perché i balestrieri arruolati sono così abili e così organizzati che nulla può resistergli.”

Tra i soldati sulle galee si trovavano anche numerosi balestrieri, uomini letali, che non mancavano mai il bersaglio, e così fondamentali in mare che nessun comandante avrebbe dovuto rinunciarvi in favore di più rematori e marinai. Tersols è il termine che secondo alcuni storici indicherebbe coloro che occupano il terzo posto della nave, dopo i ‘proeles’ (marinai a prua) e i rematori. I tersols, dunque, erano i soldati che non governavano la nave e si occupavano esclusivamente del combattimento.

“Cosa devo dirti? La battaglia iniziò al sorgere del sole e durò fino all’ora dei vespri e nessun uomo potrebbe vedere una battaglia più crudele. E sebbene gli uomini di Marsiglia avessero il vantaggio di una galea in più e dei cento uomini di grado che erano saliti a bordo dal castello, alla fine i provenzali non resistettero, perché quando venne l’ora dei vespri, ben tremilacinquecento provenzali erano stati uccisi, così che quelli che erano rimasti sul ponte non contavano. E quando i catalani videro che quei pochi uomini si difendevano così vigorosamente, gridarono ad alta voce: “Aragona, Aragona, contro loro, contro loro!” E tutti raccolsero nuove forze e salirono a bordo delle galee dei provenzali, e tutti quelli che trovarono sul ponte furono uccisi. Cosa devo dirti? Tra i feriti e gli altri, che si nascosero sotto, non ne uscirono vivi cinquecento uomini. E di questi molti morirono in seguito per ferite mortali che avevano ricevuto. E l’ammiraglio En G. Cornut e tutti i parenti e gli amici che aveva con sé, e gli uomini di rango e di posizione furono tutti massacrati.”

La battaglia iniziò al sorgere del sole e durò fino al calar della sera, quando i provenzali avevano già perduto 3500 uomini, nonostante fossero in superiorità numerica di una galea e più di cento uomini. Il comandante Cornut, assieme agli ultimi suoi uomini, restò a difendere le navi rimaste, ma venne raggiunto dagli almogavari che al grido di “Aragona, Aragona, contro loro, contro loro!” compirono il loro massacro.

“E così presero le ventidue galee e una dei legni armati; l’altro fuggì in mare, perché aveva molti più remi che quelli dell’ammiraglio En Roger; e andò a Napoli ea Marsiglia a raccontare la loro infruttuosa missione; e quando il re Carlo lo seppe, ne fu molto addolorato e scontento e ritenne persa la sua causa. E quando l’ammiraglio En Roger ebbe preso le galee e il leny, andò all’estremità occidentale del porto e sbarcò la sua gente, e ognuno cercò il suo compagno, e trovarono che avevano perso ben trecento uomini, e di feriti lì furono duecento dei quali il maggior numero si riprese. E disse loro che ogni preda presa da un uomo era sua, unica e assoluta, e che cedeva loro tutti i diritti che il Re aveva nel guadagno; perché ne avevano abbastanza, come lui aveva le galee e i prigionieri per il re e per se stesso. E così tutti lo ringraziarono, e quella notte ebbero cibo in abbondanza, e anche il giorno seguente; e subito mandarono la chiatta armata a Siracusa, per far conoscere la vittoria che Dio aveva loro dato. E l’ammiraglio ordinò agli ufficiali del re a Siracusa, in una lettera, di mandare subito molti corridori a Messina e in tutta l’isola di Sicilia a riferire questa buona notizia e così fu fatto. E che Dio ci dia tanta gioia come c’è stata in tutta la Sicilia. E poi l’ammiraglio presidiò l’armata che aveva sottratto ai provenzali e la mandò in Catalogna, al signore re e alla regina. E passò per Maiorca e giunse a Barcellona, ​​e da Barcellona mandarono un corridore al Signore Re ea mia Signora la Regina e agli Infanti e per tutti i territori del Signore Re d’Aragona. Ed è superfluo dirvi la gioia del Signore Re e di mia Signora la Regina e degli Infanti. E così, parimente, il legno di Marsiglia venne in quella città e raccontò ciò che era loro accaduto. E cominciò il lutto, a Marsiglia e in Provenza, che dura ancora e durerà cento anni. Ora lascerò che questo avvenga e mi rivolgerò all’ammiraglio En Roger de Luria.”

La grande vittoria di Ruggero di Luria permise alla corona aragonese del Regno di Sicilia di vincere la guerra del Vespro, contro gli angioini di Carlo I. Da quel momento in poi, la leggenda degli almogavari si diffuse in tutto il Mediterraneo, finché non si radunarono in una grande compagnia guidata da un altro grande italiano, Ruggero da Fiore…

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  1. Giacomo I. The Chronicle of James I, King of Aragon, Surnamed the Conqueror (Written by Himself). Translated from the Catalan by the Late John Forster. With an Historical Introduction, Notes, Appendix, Glossary, and General Index, by Pascual de Gayangos.
  2. Cronaca di Giacomo I, tradotta da Forster e Gayangos
  3. Swift, F. Darwin. The Life and Times of James the First, the Conqueror, King of Aragon, Valencia, and Majorca, Count of Barcelona and Urgel, Lord of Montpellier. With a Map. Oxford: Clarendon Press, 1894.
Lorenzo Manara
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