La battaglia di Benevento: tra colpi bassi e cavallerie corazzate
Il sanguinoso scontro combattuto nell’anno 1266 tra i guelfi di Carlo I d’Angiò e i ghibellini di Manfredi di Sicilia: la battaglia di Benevento
La morte di Federico II, l’imperatore svevo che aveva attraversato l’Italia in lungo e in largo guerreggiando con il Papato, lasciò un vuoto incolmabile nel suo regno: quello di Sicilia. L’allora Regno di Sicilia comprendeva l’isola omonima e gran parte del sud Italia: un territorio ambito e conteso, che la Chiesa di papa Clemente IV aveva intenzione di strappare dalle mani degli Hohenstaufen una volta per tutte, piantando il seme della discordia che avrebbe dato origine alla grande battaglia di Benevento, venerdì 26 febbraio dell’anno 1266.
L’allora reggente siciliano era Manfredi, uno dei figli naturali di Federico II, impadronitosi della corona a discapito del vero erede al trono, il nipote Corradino, primo in linea di successione ma troppo piccolo per governare (la cui tragica storia si compirà solo due anni più tardi, a conclusione della battaglia di Tagliacozzo). Sfruttando l’usurpazione del trono come pretesto, il papa scomunicò Manfredi e proclamò una sorta di crociata alla quale rispose Carlo I d’Angiò, colui che avrebbe dovuto impadronirsi del Regno di Sicilia sostituendo la casata sveva con quella angioina.
L’occasione dello scontro si presentò nei pressi di Benevento, lungo le sponde del fiume Calore, attraversato in quelle zone da un unico ponte: elemento strutturale presente in moltissime battaglie medievali per via della sua natura tattica e strategica (e spesso ignorato dai film). La battaglia di Benevento stava per avere inizio e le due fazioni, i ghibellini svevi di Manfredi e i guelfi angioini di Carlo I, si affrontarono a colpi di lancia e spada, come ci viene narrato dall’eccellentissimo Giovanni Villani nella sua Nuova Cronica.
“Libro Ottavo, VII. Come lo re Manfredi andò a Benivento, e come ordinò sue schiere per combattere col re Carlo.
Lo re Manfredi intesa la novella della perdita di San Germano, e tornandone la sua gente sconfitti, fu molto isbigottito, e prese suo consiglio quello ch’avesse affare, il quale fu consigliato per lo conte Calvagno, e per lo conte Giordano, e per lo conte Bartolomeo, e per lo conte camerlingo, e per gli altri suoi baroni ch’egli con tutto suo podere si ritraesse alla città di Benivento per forte luogo, e per avere la signoria di prendere la battaglia a sua posta, e per ritrarsi inverso Puglia, se bisognasse, e ancora per contradiare il passo al re Carlo, imperciò che per altra via non potea entrare in Principato e a Napoli, né passare in Puglia se non per la via di Benivento; e così fu fatto. Lo re Carlo sentendo l’andata di Manfredi a Benivento, incontanente si partì da San Germano, per seguirlo con sua oste, e non tenne il cammino diritto di Capova, e per Terra di Lavoro, imperciò che al ponte di Capova non avrebbe potuto passare, per la fortezza ch’è in su il fiume delle torri del ponte, e il fiume è grosso; ma si mise a passare il fiume del Voltorno presso a Tuliverno, ove si può guadare, e tenne per la contrada d’Alifi, e per aspri cammini delle montagne di beneventana, e sanza soggiorno, e con grande disagio di muneta e di vittuaglia, giunse all’ora di mezzogiorno a piè di Benevento, alla valle d’incontro alla città, per ispazio di lungi di due miglia alla riva del fiume di Calore, che corre a piè di Benevento.”
Il re Manfredi, dietro consiglio dei suoi conti e baroni siciliani, raccolse l’armata nella città di Benevento per sbarrare il passo a Carlo I e ai suoi guelfi. Quest’ultimo aveva intrapreso una lunga e difficoltosa marcia attraverso “aspri cammini delle montagne di beneventana”, per evitare le fortezze dislocate lungo la strada principale che avrebbero rallentato l’attraversamento del territorio nemico.
Il viaggio però aveva sfiancato i guelfi invasori che, nonostante fossero stati investiti di una missione divina proclamata dallo stesso papa, cominciavano già a mostrare segni di cedimento, poiché “sanza soggiorno, e con grande disagio di muneta e di vittuaglia”.
“Lo re Manfredi veggendo apparire l’oste del re Carlo, avuto suo consiglio, prese partito del combattere, e d’uscire fuori a campo con sua cavalleria, per assalire la gente del re Carlo anzi che si riposassono; ma in ciò prese mal partito, che se fosse atteso uno o due giorni, lo re Carlo e sua oste erano morti e presi sanza colpo di spada, per difalta di vivanda per loro e per gli loro cavagli; ché ’l giorno dinanzi che giugnessono a piè di Benevento, per nicessità di vittuaglia, molti di sua oste convenne vivesse di cavoli, e’ loro cavagli di torsi, sanza altro pane, o biada per gli cavagli, e la moneta per dispendere era loro fallita. Ancora era la gente e forza del re Manfredi molto sparta, che messer Currado d’Antioccia era in Abruzzi con gente, il conte Federigo era in Calavra, il conte di Ventimiglia era in Cicilia: che se avesse alquanto atteso crescevano le sue forze; ma a cui Iddio vuole male gli toglie il senno.”
Manfredi, visto l’arrivo del nemico, decise di uscire subito dalla città per dare inizio alla battaglia di Benevento. L’autore della cronaca, però, ci spiega che fu una pessima scelta, poiché se avesse atteso qualche altro giorno, l’esercito angioino si sarebbe sciolto per la fame, gli stenti e la mancanza di moneta. Oltre al fatto che lo stesso Manfredi, per la fretta, dovette guidare un esercito meno numeroso di quanto avrebbe potuto, se solo avesse aspettato un po’ di più.
“Manfredi uscito di Benevento con sua gente, passò il ponte ch’è sopra il detto fiume di Calore, nel piano ove si dice Santa Maria della Grandella, il luogo detto la pietra a Roseto; ivi fece tre battaglie overo schiere: l’una fu di Tedeschi di cui si rifidava molto, e erano bene MCC cavalieri, ond’era capitano il conte Calvagno; la seconda era di Toscani e Lombardi, e anche Tedeschi, in numero di M cavalieri, la quale guidava il conte Giordano; la terza fu de’ Pugliesi co’ Saracini di Nocera, la quale guidava lo re Manfredi, la quale era di MCCCC cavalieri, sanza i pedoni e gli arcieri saracini ch’erano in grande quantità.”
Il re Manfredi si schierò davanti al ponte sul fiume Calore, in un’area pianeggiante, dove suddivise l’esercito in tre schiere: 1200 cavalieri tedeschi capitanati dal conte Calvagno, 1000 cavalieri toscani, lombardi e tedeschi capitanati dal conte Giordano, e 1400 cavalieri del Regno di Sicilia guidati dallo stesso re Manfredi, senza contare i molti fanti e gli arcieri saraceni della comunità islamica di Lucera.
Davanti a loro prese posizione il nemico guelfo, lieto di dare inizio alla battaglia di Benevento e porre fine all’estenuante marcia attraverso l’Italia. Si trattava di un nemico agguerrito, con una lunga esperienza militare alle spalle, dovuta alla Settima crociata appena conclusa cui partecipò lo stesso Carlo I, fianco a fianco con il fratello Luigi IX dei francesi.
VIII. Come il re Carlo ordinò sue schiere per combattere col re Manfredi.
Lo re Carlo veggendo Manfredi e sua gente venuti a campo per combattere, ebbe suo consiglio di prendere la battaglia il giorno o d’indugiarla. Gli più de’ suoi baroni consigliarono del soggiorno infino a la mattina vegnente, per riposare i cavagli dell’affanno avuto per lo forte cammino, e messer Gilio il Bruno conastabole di Francia disse il contrario, e che indugiando, i nimici prenderanno cuore e ardire, e a·lloro potea al tutto falli re la vivanda, e che se altri dell’oste no·lla volesse la battaglia, egli solo col suo signore Ruberto di Fiandra e con sua gente si metterebbe alla ventura del combattere, avendo fidanza in Dio d’avere la vittoria contra’ nemici di santa Chiesa. Veggendo ciò il re Carlo, s’attenne e prese il suo consiglio, e per la grande volontà ch’avea del combattere, disse con alta voce a’ suoi cavalieri: «Venus est le iors ce nos avons tant desiré»;”
Proprio come Manfredi, anche Carlo I aveva i suoi conti e baroni a consiglio, divisi fra chi premeva per attaccare subito e chi per temporeggiare fino all’indomani, per far riposare gli uomini. Uno in particolare, Gillio il Bruno, ovvero Gilles de Trazegnies, detto le Brun, comandante delle armate reali, disse che se nessuno voleva ingaggiare battaglia ci sarebbe andato da solo, “avendo fidanza in Dio d’avere la vittoria contra’ nemici di santa Chiesa”.
Re Carlo I, a supporto del sanguinario connestabile, decise di combattere subito, poiché “è giunto il giorno che abbiamo tanto desiderato.”
“e fece sonare le trombe, e comandò ch’ogni uomo s’armasse e apparecchiasse per andare alla battaglia, e così in poca d’ora fu fatto. E ordinò, sì come i suoi nemici, a petto di loro tre schiere principali: la prima schiera era de’ Franceschi in quantità di M cavalieri, ond’erano capitani messer Filippo di Monforte e ’l maliscalco di Mirapesce; la seconda lo re Carlo col conte Guido di Monforte, e con molti de’ suoi baroni e cavalieri della reina, e co’ baroni e cavalieri di Proenza, e Romani, e Campagnini, ch’erano intorno di VIIIIc cavalieri, e le ’nsegne reali portava messer Guiglielmo lo Stendardo, uomo di grande valore; la terza fu guidatore Ruberto conte di Fiandra col suo maestro Gilio maliscalco di Francia, con Fiamminghi, e Bramanzoni, e Annoieri, e Piccardi, in numero di VIIc cavalieri. E di fuori di queste schiere furono gli usciti guelfi di Firenze con tutti gl’Italiani, e furono più di CCCC cavalieri, de’ quali molti di loro delle maggiori case di Firenze si feciono cavalieri per mano del re Carlo in su il cominciare della battaglia; e di questa gente, Guelfi di Firenze e di Toscana, era capitano il conte Guido Guerra, e la ’nsegna di loro portava in quella battaglia messer Currado da Montemagno di Pistoia.”
Re Carlo I fece suonare le trombe, comandando all’esercito di schierarsi. Dispose i suoi guelfi in tre gruppi, proprio come il nemico. La prima schiera era composta da 1000 cavalieri francesi, capitanati da Filippo di Monforte e il marescalco di Mirapesce (Mirepoix), la seconda schiera da 900 cavalieri francesi e italiani, con le insegne reali portate da Guglielmo lo Stendardo, e la terza da 700 cavalieri fiamminghi.
Oltre a questi tre gruppi che componevano il cuore originario dell’armata guelfa, si erano aggiunti altri 400 cavalieri guelfi fiorentini condotti da Guido Guerra, fuoriusciti dalla città a seguito della sconfitta della battaglia di Monteaperti, che aveva decretato la vittoria ghibellina narrata dallo stesso Dante Alighieri, e che aveva esteso il potere di Manfredi fin dentro le mura della città toscana.
“E veggendo il re Manfredi fatte le schiere, domandò della schiera quarta che gente erano, i quali comparivano molto bene in arme e in cavagli e in arredi e sopransegne; fugli detto ch’erano la parte guelfa usciti di Firenze e dell’altre terre di Toscana. Allora si dolse Manfredi dicendo: «Ov’è l’aiuto ch’io hoe dalla parte ghibellina, ch’io ho cotanto servita, e messo in loro cotanto tesoro?», e disse: «Quella gente», cioè la schiera de’ Guelfi, «non possono oggi perdere»; e ciò venne a dire, s’egli avesse vittoria ch’egli sarebbe amico de’ Guelfi di Firenze, veggendogli sì fedeli al loro signore e alloro parte, e nemico de’ Ghibellini.”
Il re Manfredi, vedendo le schiere dei 400 cavalieri fiorentini bene armati, su bei destrieri, con sopravvesti e insegne riccamente decorate, chiese dove fossero i ghibellini di Firenze che avrebbero dovuto scendere in campo dalla sua parte. Inoltre, il cronista, nettamente di parte, aggiunge un’ultima linea di dialogo da parte del re Manfredi, facendogli confessare che avrebbe voluto essere amico dei guelfi, piuttosto che dei ghibellini, vista la loro fedeltà. Una battuta probabilmente mai pronunciata, ma che presagì le nefaste conclusioni della battaglia di Benevento.
IX. Come la battaglia dal re Carlo al re Manfredi fu, e come il re Manfredi fu sconfitto e morto.
Ordinate le schiere de’ due re nel piano della Grandella per lo modo detto dinanzi, e ciascuno de’ detti signori amonita la sua gente di ben fare, e dato il nome per lo re Carlo a’ suoi, «Mongioia, cavalieri», e per lo re Manfredi a’ suoi, «Soavia, cavalieri», il vescovo d’Alsurro, siccome legato del papa, asolvette e benedisse tutti quelli dell’oste del re Carlo, perdonando colpa e pena, però ch’essi combatteano in servigio di santa Chiesa.”
I due eserciti schierati nel piano della Grandella, ai piedi del fiume e dell’unico ponte che lo attraversava in quel luogo, furono ammoniti dalle parole dei loro signori. Il grido di guerra “Mongioia!” italianizzato dal francese “Montjoie” si diffuse tra i guelfi angioini, e il grido “Soavia” gli rispose tra i ghibellini. Il vescovo legato pontificio assolse dai peccati i crociati di re Carlo I, perdonando i loro peccati in vista dello scontro, e la battaglia di Benevento ebbe inizio.
“E ciò fatto, si cominciò l’aspra battaglia tra le prime due schiere de’ Tedeschi e de’ Franceschi, e fu sì forte l’asalto de’ Tedeschi, che malamente menavano la schiera de’ Franceschi, e assai gli feciono rinculare adietro, e preso no campo. E ’l buono re Carlo veggendo i suoi così mal menare, non tenne l’ordine della battaglia di difendersi colla seconda schiera, avisandosi che se la prima schiera de’ Franceschi ove avea tutta sua fidanza fosse rotta, piccola speranza di salute attendea dell’altre; incontanente colla sua schiera si mise al soccorso della schiera de’ Franceschi contro a quella de’ Tedeschi; e come gli usciti di Firenze e loro schiera vidono lo re Carlo fedire alla battaglia, si misono appresso francamente, e feciono maravigliose cose d’arme il giorno, seguendo sempre la persona del re Carlo; e simile fece il buono Gilio il Bruno conastabile di Francia con Ruberto di Fiandra con sua schiera, e da l’altra parte fedì il conte Giordano col la sua schiera, onde la battaglia fu aspra e dura, e grande pezza durò, che non si sapea chi avesse il migliore;”
La battaglia di Benevento cominciò con l’avanzata degli arcieri saraceni, ignorati dalla cronaca del Villani, ma che secondo altri cronisti ammontavano a svariate migliaia1, posti di fronte allo schieramento ghibellino per bersagliare il nemico guelfo con una tempesta di dardi. Carlo I d’Angiò, però, rispose prontamente mandando avanti la prima schiera della sua cavalleria: 1000 cavalieri francesi, capitanati da Filippo di Monforte e il marescalco di Mirapesce (Mirepoix). La superiorità d’armi dei cavalieri pesanti mise in rotta gli arcieri, i quali abbandonarono il campo. Per rimediare al disastro, Manfredi inviò in risposta il suo contingente di 1200 cavalieri tedeschi capitanati dal conte di Calvagno, dando inizio a uno scontro durissimo.
I cavalieri tedeschi potevano contare su una superiorità tecnologica non indifferente, ovvero su un modello di armature composte non solo dalla maglia di ferro ad anelli, come era consuetudine da secoli, ma anche da piastre di ferro che rendevano i loro portatori immuni a qualsiasi colpo, negli specifici punti coperti2. Per questo, i francesi ebbero la peggio e gli esiti della battaglia cominciarono a pendere in favore di Manfredi e dei suoi ghibellini.
Carlo I, a differenza di quel che mise in atto nella successiva battaglia di Tagliacozzo (per approfondire, leggi l’articolo), scelse di non sacrificare i suoi 1000 cavalieri francesi della prima schiera, e andar loro in aiuto egli stesso, con i 900 cavalieri francesi e italiani più i 700 fiamminghi, tutti assieme.
Vedendo che il re angioino si gettava nella mischia, partirono al galoppo pure i 400 fiorentini, per trasformare la battaglia di Benevento in una spettacolare mischia cavalleresca, cui si unì la seconda schiera dei ghibellini, lasciando il solo re Manfredi coi suoi 1400 cavalieri come ultima risorsa, in attesa.
“però che gli Tedeschi per loro virtude e forza colpendo di loro spade, molto danneggiavano i Franceschi. Ma subitamente si levò uno grande grido tra·lle schiere de’ Franceschi, chi che ’l si cominciasse, dicendo: «Agli stocchi, agli stocchi, a fedire i cavagli!»; e così fu fatto, per la qual cosa in piccola d’ora i Tedeschi furono molto mal menati e molto abattuti, e quasi inn isconfitta volti.”
Per contrastare i corazzatissimi tedeschi, tra le schiere angioine cominciarono a levarsi delle grida “Agli stocchi, agli stocchi, a fedire i cavagli!”. E così, i cavalieri guelfi sguainarono le spade a stocco, dalla punta bene acuminata e la lama a sezione triangolare, fatte appositamente per affondare nei punti deboli del nemico, ovvero le ascelle. Oltre a questo, un motivo di vigliaccheria che fu poi attribuito ai guelfi, fu quello di colpire deliberatamente tutti i destrieri dei cavalieri tedeschi, per abbatterli.
Così facendo, in poco tempo, le schiere ghibelline furono annientate.
“Lo re Manfredi, lo quale con sua schiera de’ Pugliesi stava al soccorso dell’oste, veggendo gli suoi che non poteano durare la battaglia, sì confortò la sua gente della sua schiera, che ’l seguissono alla battaglia, da’ quali fu male inteso, però che la maggiore parte de’ baroni pugliesi e del Regno, in tra gli altri il conte camerlingo, e quello della Cerra, e quello di Caserta e altri, o per viltà di cuore, o veggendo a loro avere il peggiore, e chi disse per tradimento, come genti infedeli e vaghi di nuovo signore, si fallirono a Manfredi, abandonandolo e fuggendosi chi verso Abruzzi e chi verso la città di Benevento.”
Manfredi tentò di mandar dentro quel che gli restava del suo esercito, ma vuoi per viltà, o per tradimento, i suoi conti e baroni lo abbandonarono sul campo, fuggendo chi verso Abruzzi, chi verso Benevento. Manfredi rimase con pochi cavalieri della sua schiera, al cospetto della tragica fine della battaglia di Benevento, e decise di immolarsi.
“Manfredi rimaso con pochi, fece come valente signore, che innanzi volle in battaglia morire re, che fuggire con vergogna; e mettendosi l’elmo, una aquila d’argento ch’egli avea ivi su per cimiera gli cadde in su l’arcione dinanzi. E egli ciò veggendo isbigottì molto, e disse a’ baroni che gli erano dal lato in latino: «Hoc est signum Dei, però che questa cimiera appiccai io colle mie mani in tal modo che non dovea potere cadere». Ma però non lasciò, ma come valente signore prese cuore, e incontanente si mise alla battaglia, non con sopransegne reali per non esser conosciuto per lo re, ma come un altro barone, lui fedendo francamente nel mezzo della battaglia.”
Manfredi afferrò l’elmo con il cimiero, ovvero un’aquila d’argento, simbolo della casata sveva, ma nel momento in cui lo indossò sul capo, l’aquila gli cadde fra le mani, spezzata come nella più terribile delle profezie. Perciò si tolse le insegne reali per combattere come qualsiasi altro cavaliere, senza proteggersi dietro la salvezza di una costosa cattura.
“Hoc est signum Dei” disse Manfredi, questo è segno di Dio. E invece di fuggire anch’egli come tutti gli altri dinnanzi al presagio funesto, spronò il destriero per gettarsi in mezzo al massacro negli ultimi istanti della battaglia.
“Ma però i suoi poco durarono, che già erano in volta: incontanente furono sconfitti, e lo re Manfredi morto in mezzo de’ nemici, dissesi per uno scudiere francesco, ma non si seppe il certo. In quella battaglia ebbe gran mortalità d’una parte e d’altra, ma troppo più della gente di Manfredi. E fuggendo del campo verso Benevento, cacciati da quegli dell’oste del re Carlo, infino nella terra, che·ssi facea già notte, gli seguirono, e presono la città di Benevento, e quegli che fuggieno. Molti de’ baroni caporali del re Manfredi rimasono presi: intra gli altri furono presi il conte Giordano, e messer Piero Asini degli Uberti, i quali il re Carlo mandò in pregione in Proenza, e di là d’aspra morte in carcere gli fece morire. Gli altri baroni pugliesi e tedeschi ritenne in pregione in diversi luoghi nel Regno. E pochi dì apresso la moglie del detto Manfredi e’ figliuoli e la suora, i quali erano in Nocera de’ Saracini in Puglia, furono renduti presi al re Carlo, i quali poi morirono in sua pregione. E bene venne a Manfredi e a sue rede la maladizione d’Iddio, e assai chiaro si mostrò il giudizio d’lddio in lui, perch’era scomunicato e nimico e persecutore di santa Chiesa.”
I ghibellini svevi del Regno di Sicilia morirono sul campo, e lo stesso Manfredi finì ammazzato, si dice per il colpo di uno scudiero francese. Gli sbandati tedeschi, italiani e saraceni furono inseguiti di giorno e di notte fino alla città di Benevento, e ammazzati. Così come furono ammazzati i signori, conti e baroni che avevano accompagnato il re usurpatore in battaglia. Perfino i famigliari di Manfredi, la moglie e i figli, furono fatti prigionieri e abbandonati al loro destino. Questa furia vendicativa venne perpetrata in nome del giudizio d’Iddio, in seguito alla scomunica del nemico di santa Chiesa.
“Nella sua fine, di Manfredi si cercò più di tre giorni, che non si ritrovava, e non si sapea se fosse morto, o preso, o scampato, perché non avea avuto a la battaglia indosso armi reali. Alla fine per uno ribaldo di sua gente fu riconosciuto per più insegne di sua persona in mezzo il campo ove fu la battaglia. E trovato il suo corpo per lo detto ribaldo, il mise traverso in su uno asino, vegnendo gri dando: «Chi acatta Manfredi, chi acatta Manfredi?»; il quale ribaldo da uno barone del re fu battuto, e recato il corpo di Manfredi dinanzi al re, fece venire tutti i baroni ch’erano presi, e domandato ciascuno s’egli era Manfredi, tutti temorosamente dissono di sì. Quando venne il conte Giordano sì si diede delle mani nel volto piagnendo e gridando: «Omè, omè, signore mio!»; onde molto ne fu commendato da’ Franceschi, e per alquanti de’ baroni del re fu pregato che gli facesse fare onore alla sepultura. Rispuose il re: «Si feisse ie volontiers, s’il non fust scomunié»; ma imperciò ch’era scomunicato, non volle il re Carlo che fosse recato in luogo sacro; ma appiè del ponte di Benevento fu soppellito, e sopra la sua fossa per ciascuno dell’oste gittata una pietra, onde si fece grande mora di sassi. Ma per alcuni si disse che poi per mandato del papa il vescovo di Cosenza il trasse di quella sepultura, e mandollo fuori del Regno, ch’era terra di Chiesa, e fu sepolto lungo il fiume del Verde a’ confini del Regno e di Campagna: questo però non affermiamo. Questa battaglia e sconfitta fu uno venerdì, il sezzaio di febbraio, gli anni di Cristo MCCLXV.”
A tre giorni dalla battaglia, ancora non si sapeva che fine avesse fatto il corpo di Manfredi, poiché privo delle insegne reali e mischiato con la miriade di cadaveri. Finché non si fece avanti sul campo di battaglia un ribaldo, ovvero un saccheggiatore, tirandosi dietro un asino che trasportava una salma, e gridava: “Chi acatta Manfredi, chi acatta Manfredi?”. Costui stava cercando di vendere il corpo di quello che era stato il suo re al migliore offerente.
Il corpo del re fu seppellito senza rito cristiano, poiché morto scomunicato, ai piedi del ponte di Benevento. Sulla sua fossa furono gettate tante pietre quanti erano gli uomini che lo avevano seguito in guerra. Di lì a qualche anno, però, su quelle stesse terre sarebbero passati gli eserciti delle medesime fazioni, per la conclusione di una guerra che aveva logorato l’Italia da ormai troppo tempo: la battaglia di Tagliacozzo.
La battaglia di Benevento si conclude così. Restate da queste parti se volete scoprire altre storie di guerra e di magia, comprese le mie ultime pubblicazioni librarie tra cui “La Stirpe delle Ossa”, un romanzo di sangue e ferro affilato.
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