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26 Aprile 2022

Cia Ordelaffi: una grande donna guerriera del Medioevo

cia ordelaffi

I fatti d’arme di Cia Ordelaffi (Marzia degli Ubaldini): valente signora medievale, comandante di eserciti e famosa donna guerriera italiana

Nei primi del Trecento nacque Marzia degli Ubaldini, da alcuni chiamata Marcia e poi, semplicemente, Cia (Cia Ordelaffi). Difficile stabilire l’esatta data di nascita1, anche perché i suoi natali, seppur nobili, non valevano certo l’onore d’esser raccontati. Aspetto, quello dell’onore, poi del tutto smentito dalle azioni della stessa Cia, che in età adulta seppe dimostrare all’Italia intera quanto valeva come signora, donna e guerriera.

Il matrimonio con Francesco di Sinibaldo degli Ordelaffi, signore di Forlì, Forlimpopoli, Bertinoro, Cesena e padrone di una serie di castelli fra le colline, scaraventò Cia in un ambiente spietato, quello delle grandi città medievali italiane, dove fu costretta ad armarsi (letteralmente) di buona volontà per sopravvivere. Anche perché suo marito era nella lista degli obiettivi militari dello Stato della Chiesa, che a quel tempo aveva messo in piedi una politica di annientamento delle famiglie signorili più scomode (come era già avvenuto un centinaio di anni prima, con Ezzellino e Alberico da Romano, detto il Maledetto).

“Come il legato bandì la croce contro al capitano di Forlì.
In questo tempo del verno, messe Gilio cardinale di Spagna legato di santa Chiesa, avendo prosperamente racquistato a santa Chiesa il Patrimonio, la Marca d’Ancona, e ‘l ducato di Spoleto, e la maggior parte della Romagna, restavagli a racquistare Forlì e Faenza, e le terre vicine e de’ loro distretti, le quali tenevano occupate per loro tirannie Francesco degli Ordilaffi capitano di Forlì, e messer Giovanni di messer Ricciardo Manfredi; e non trovando il detto legato concordia con loro, ordinò contro a’ detti suo proccaso, e seguitollo fino alla sentenza, perrocchè tornare non vollono all’ubbidienza. E pubblicata per Italia la loro dannazione, e fattili scomunicare, avendo dal papa lettere d’indulgenza con piena remissione de’ peccati e della pena a chi fosse contrito e confesso, fece bandire la croce contro Francesco Ordilaffi tiranno di Forlì, e di Forlimpopoli e di Cesena, e contro a Giovanni e Rinieri de’ Manfredi tiranni di Faenza, condannati per eretichi e ribelli di santa Chiesa, potendo il cavaliere e il pedone partecipare in due anni il servigio d’un anno in arme contro a loro.”

Nuova Cronica, Matteo Villani, Libro Sesto, Capitolo XIV

Egidio Albornoz, legato papale e vicario dello Stato della Chiesa, era stato scelto dal papa per assoggettare i territori marchigiani e romagnoli ancora ghibellini. Dopo aver conquistato vari possedimenti dell’Italia centrale a suon di ricatti e lusighe, posò la sua attenzione sulla famiglia Ordelaffi: l’ultima rimasta. Nonostante la minaccia, il tiranno di Forlì (marito di Cia Ordelaffi) rifiutò ogni proposta di accordo, e il legato rispose con l’arma più potente di cui disponeva: chiese al papa di scomunicare Francesco e tutta la sua famiglia. Ed è così che iniziò la crociata contro i forlivesi.

I predicatori cominciarono a diffondere il verbo della crociata in tutta Italia, raccogliendo uomini da ogni angolo di paese per sterminare gli Ordelaffi. Nella cronaca si racconta che molti di quei chierici si fecero prendere dall’avarizia, unendo alla predicazione la vendita di indulgenze: tutto in cambio di soldi e “panni lini e lani, e masserizie, grani e biada, niuna cosa rifiutavano“.

“Ordinati furono i predicatori, e’ collettore delle province e delle città, e incontanente l’avarizia de’ chierici cominciò a fare l’uficio suo, e allargarono colla predicazione l’indulgenza oltre alla commissione del papa, e cominciarono a non rifiutare danaio da ogni maniera di gente, compensando i peccati e i voti d’ogni ragione con danari assai o pochi come gli poteano attrarre; e per non mancare alla loro avarizia, sommoveano nelle città e ne’ castelli e nelle ville ogni femminella, ogni povero che non avea danari, e dare panni lini e lani, e masserizie, grani e biada, niuna cosa rifiutavano, ingannando la gente con allargare colle parole quello che non portava la loro commissione; e così davano la croce, e spogliavano le ville e le castella più che non poteano fare le città, ma nelle città le donne e ele femmine valicavano tutta l’altra gente, e per questa maniera davano la croce: e ‘l termine della guerra cominciava in calen di maggio gli anni 1356. Della città di Firenze e del contado un frate de’ Romitani vescovo di Narni trasse grandissimo tesoro, del quale non potendo il cardinale avere diritto conto, lungo tempo tenne in prigione il detto vescovo in un suo castello nella Marca, guardato alle spese del detto vescovo.”

Nonostante l’avarizia dei predicatori, però, la crociata era già partita e molti presero la croce per armarsi contro gli Ordelaffi: gli unici signori che si opponevano al potere papale. In verità vi era qualcun altro nella loro stessa situazione, molto più a nord, a capo della signoria di Milano: Bernabò Visconti. Tuttavia, costui non poté aiutare i suoi alleati ghibellini, impegnato com’era in tutt’altre faccende. Francesco degli Ordelaffi era dunque solo, anche se poteva contare su qualcuno di estremamente coraggioso e devoto: sua moglie, Cia Ordelaffi, coraggiosa signora e donna guerriera.

Cia Ordelaffi venne mandata a Cesena dal marito, mentre lui restava a Forlì. Non si trattava di una via di fuga, ma di una vera e propria missione (o quest, tanto per restare in ambito letterario cavalleresco): Cia era infatti l’unica in grado di guidare l’esercito contro le forze del legato papale dirette a Cesena. Dunque, la nostra donna guerriera, “coll’arme indosso”, prese posizione sulle mura di pietra assieme ai suoi uomini, per combattere.

“Come il capitano della Chiesa assediò Cesena.
Il legato del papa, oltre alla gente ch’attendea de’crociati, avea da sé soldo duemila barbute, e confidandosi de’Malatesti, fece gonfaloniere di santa Chiesa e capitano della su gente d’arme messer Galeotto da Rimini, e con mille cavalieri e con gran popolo del mese di febbraio del detto anno il mandò a oste sopra la città di Cesena; il quale in prima corse il paese predando d’intorno, e appresso vi si pose ad assedio, e strettosi alla terra, vi stette infino che il conte di Lando venne del Regno in Romagna, come innansi al suo tempo racconteremo.”

Nuova Cronica, Matteo Villani, Capitolo XX

Il legato del papa, confidando nelle sue duemila barbute (ovvero soldati, presumibilmente a cavallo, identificati tramite l’elmo che indossavano: la barbuta, appunto) al soldo della Chiesa, nominò gonfaloniere e capitano di guerra una nostra vecchia conoscenza: Galeotto Malatesta, lo stesso capitano che abbiamo conosciuto durante la battaglia di Cascina del 1364 (avvenuta una decina d’anni più tardi, quando Galeotto era al servizio di Firenze). Cia Ordelaffi si trovò quindi assediata da una forza ingente, comandata da uomini di guerra d’esperienza. Ma non si lasciò intimidire.

“Come la gente della Chiesa entrò in Cesena.
Dappoiché il cardinale legato ebbe preso partito di rimanere a fornire la guerra di Romagna, come detto è, ordinò la sua gente d’arme a cavallo e a piè, e tutti i sudditi richiese di aiuto; e fece pubblicare la sentenza contro al capitano di Forlì e contro a chi gli desse aiuto o favore, e a dì ventiquattro d’aprile anno detto fece scorrere la sua gente intorno a Forlì, e presono Castelvecchio, e predarono il paese facendo assai danno, e il capitano a questa volta si stette dentro alle mura. Avea, come detto è, Francesco Ordelaffi, detto capitano, mandato alla guardia di Cesena la valente sua donna madonna Cia, figliuola di Vanni da Susinana degli Ubaldini, con dugento cavalieri e con assai masnadieri, e comandato a tutti che l’ubbidissono come la sua persona; e per suo consiglio l’avea dato Sgariglino da Pietracuta suo intimo amico.”

Nuova Cronica, Matteo Villani, Capitolo XXX

Il 24 aprile 1357, l’esercito papale guidato da Galeotto Malatesta cominciò a devastare le terre degli Ordelaffi, nei dintorni di Forlì. “Predarono il paese facendo assai danno” mentre il signore di Forlì se ne stava al sicuro, dietro le mura, col suo esercito. Sua moglie Cia Ordelaffi, invece, presidiava la città di Cesena con “dugento cavalieri e con assai masnadieri“, ovvero dieci volte meno dell’esercito papale.

“Questa mantenea la guardia della città con grande sollecitudine: ma i cittadini sentendo la molta gente d’arme ch’avea il legato, e che contro a loro s’apparecchiavano le percosse, e non si vedeano potenti alla difesa, quasi in subito movimento ordinarono di ricevere nella terra di sotto la gente del legato, il quale subitamente vi mandò millecinquecento cavalieri, e senza contasto furono messe pe’ terrazzani nelle prime cinte delle mura. La donna colla sua forza per l’improvviso caso non poté riparare a’ nemici, ma ridussesi in quella parte più alta della terra che si chiama la murata e nella rocca, all’uscita d’aprile predetto, con tutte le sue masnade da pié e da cavallo. E presi tre cittadini ch’erano stati al trattato, in sulla murata li fece decapitare e gittarli di sotto a’ nemici; e con animo ardito e franco più che virile prese la difesa del minore cerchio e della rocca con sollecita guardia di dì e di notte, mostrando di poco temere cosa che avvenuta le fosse.

Nuova Cronica, Matteo Villani, Capitolo LIX

“Come il legato con sua forza andò a Cesena.
Come il legato ebbe la sua gente in Cesena, di presente mandò tutta l’altra sua cavalleria e fanti a piè a Cesena per assediare la donna e la sua gente nella murata e nella rocca, innanzi ch’ella potesse avere altro soccorso, e fece pigliare un monistero ch’era in un colle al pari della rocca, e fecevi stare gente a cavallo e a piè sì forte, che da quella parte la rocca non potesse essere soccorsa, e nella terra di sotto provvide d’afforzarsi per modo che maggior forza che la sua non gli potesse nuocere: e’ soldati del cardinale avendo contro ai patti rubati i terrazzani, avea fatto cambiare loro gli animi, per la qual cosa la guardia della terra convenia essere grande e forte, e in questo per tenerli forniti ebbe il legato somma sollecitudine. La valente madonna Cia dalla sua parte facea francamente dì e notte buona guardia, tenendosi in grande ordine alla difesa.

Nuova Cronica, Matteo Villani, Libro Settimo, Capitolo LXIV

Al sopraggiungere dell’esercito papale sotto le mura della città, Cia Ordelaffi dovette fronteggiare qualcosa a cui non aveva badato fino a quel momento: la paura della popolazione. I terrazzani (ovvero gli abitanti della città fortificata), aprirono le porte al nemico per patteggiare la resa poiché, date le sproporzioni fra i due eserciti, si erano già dati per spacciati. E subito il capitano Malatesta fece entrare 1500 cavalieri entro la prima cerchia di mura di Cesena: parte della città era caduta.

Cia Ordelaffi, che non si aspettava un’insubordinazione, fu costretta a ritirarsi nella seconda cerchia di mura, la “murata”, e nella rocca, con tutto l’esercito. Ma non aveva certo intenzione di farlo con la coda fra le gambe. La sua autorità doveva essere ristabilita, dunque prese tre di quei cittadini che avevano partecipato in segreto al tradimento, li portò in cima alla murata e lì li fece decapitare per poi gettare i corpi di sotto. Tutti dovevano conoscere il suo animo “ardito e franco più che virile“, che non provava pena per nessuno.

“L’aiuto mandò messer Bernabò al capitano di Forlì.
Il capitano di Forlì, sentendo le masnade del legato in Cesena, e posta la bastita alla rocca, e racchiusa la moglie e i figliuoli nella murata, mandò per soccorso a messer Bernabò signore di Milano in cui riposava tutta sua speranza, il quale incontanente intese ad apparecchiarli il soccorso. Ma perché scoprire non si volea allora nemico di santa Chiesa, trattò col conte di Lando caporale della compagnia, e segretamente si convenne con lui per li suoi danari; e fece servigio a sé del levargli a’ nemici, mandogli in Romagna contro al legato, perché stassono il capitano di Forlì suo amico. E innanzi che la compagnia si partisse, per dare speranza agli amici, e raffrenare le imprese del legato, mandò in sul Modenese duemila barbute della sua propria cavalleria, e ivi si stavano senza fare guerra, tenendo in sospetto i Lombardi e’l legato. In questo tempo il legato si studiava di stringere e forte quelli della murata di Cesena, dando loro il dì e la notte gravi assalti, e rittivi più trabocchi, gli fracassava di ogni parte; e oltre a ciò, tentava con trattati e con spendio d’avere la murata innanzi che la compagnia venisse. Di questo nacque, che madonna Cia avendo alcuno sentore, che senza sua saputa l’antico amico del capitano, il quale era in sua compagnia, Sgariglino, trattava alcuno accordo col legato per salvezza di tutti gli assediati, di presente il fece prendere e tagliarli la testa, del mese di maggio anno detto. Ella sola rimase guidatore della guerra e capitana de’soldati, e il dì e la notte coll’arme indosso difendea la murata dagli assalti della gente del legato sì virtuosamente e con così ardito e fiero animo, che gli amici e’nemici fortemente la ridottavano, non meno che se la persona del capitano fosse presente.

Nuova Cronica, Matteo Villani, Libro Settimo, Capitolo LXVII

Il signore di Forlì, saputo dell’attacco a Cesena e della situazione di pericolo in cui versava sua moglie Cia Ordelaffi, chiese aiuto all’alleato di Milano: Bernabò Visconti. Costui però, come già anticipato, non volle immischiarsi personalmente. Assoldò la compagnia mercenaria del Conte Lando, un condottiero tedesco (Konrad Wirtinger von Landau) che a quel tempo, assieme ai mercenari stranieri come Giovanni Acuto, di cui abbiamo conosciuto le gesta nella battaglia di Cascina, percorrevano l’Italia in lungo e in largo, arricchendosi alle spalle dei comuni e delle signorie.

La compagnia del Conte Lando entrò in guerra contro il legato papale, e venne colpita da scomunica. Ma a loro non importava granché (non si trovavano lì per motivi religiosi), dunque proseguirono le loro incursioni in territorio romagnolo, partecipando a numerosi scontri e infliggendo ingenti perdite al legato. Tuttavia, le azioni del Conte Lando non giunsero mai fino a Cesena, che rimase assediata da un potente esercito senza alcun soccorso, mentre era in atto una rivolta.

Giorno e notte avvenivano assalti alla murata, la cerchia di mura interna nella quale si era rifugiata Cia Ordelaffi con il suo esercito. “E rittivi più trabocchi, gli fracassava di ogni parte“: il legato bombardava la città con le macchine d’assedio mentre portava avanti altre trattative in segreto, alcune delle quali furono accolte dai consiglieri della donna guerriera. Tale Sgariglino, che si era sempre dimostrato uomo fidato, si mise a trattare col legato, di nascosto, per la resa della città. Ma venne scoperto. E Cia Ordelaffi, la signora della guerra, dovette dimostrare la propria autorità ancora una volta: gli tagliò la testa, rimanendo sola e senza consiglieri, al comando di una difesa disperata.

“Trattato tenuto per li Fiorentini in accordare al capitano di Forlì con il legato.
In questi medesimi dì, vedendo i Fiorentini la durezza del capitano di Forlì, e temendo che l’avvenimento della compagnia e d’altra nuova gente d’arme in Romagna non rimbalzasse in loro dannaggio, mandarono ambasciadori al legato, i quali voleano essere mezzani a trovare accordo e pace intra lui e’l capitano di Forlì; e intesisi col legato, il trovarono grazioso per amore de’ Fiorentini alla concordia, e con buona speranza andarono al capitano di Forlì, il quale la ricevette onorevolmente; e udita l’ambasciata, ringraziò gli ambasciadori, e disse ch’era contento d’avere pace col legato e con santa Chiesa, rimanendo egli signore di Forlì, e di Cesena, e di tutte le terre che tenea, volendole riconoscere da santa Chiesa, e per omaggio pagare ogni anno quel censo alla Chiesa che fosse convenevole: per altro modo non voleva che se ne parlasse, e a questo era fermo; e per questo modo si tornarono a Firenze senza frutto alcuno.

Nuova Cronica, Matteo Villani, Libro Settimo, Capitolo LXVIII

“Come il legato ebbe la murata di Cesena.
Trapassate le parole del trattato, il legato, ch’avea l’animo sollecito a vincere sua punga innanzi che’l soccorso giungesse a’nemici, a dì ventotto di maggio anno detto, ordinata sua gente e molti dificii da combattere la murata, fece d’ogni parte cominciare la battaglia aspra e forte, e avendo provveduto alcuna parte del muro si poteva per cave abbattere, il fece rovinare, e que’dentro subitamente ripararono con steccati; e aggravando la battaglia d’ogni parte, rinfrescandosi spesso per quelli di fuori nuovi combattitori, e dove il muro era caduto, quivi senza arresto si continovava sì aspra battaglia, che quelli ch’erano alla difesa, per lo soperchio affanno di loro corpi, senza potere avere rinfrescamento, conobbono di non potere sostenere, e l’altre parti erano ancora sì strette da’ combattitori che non poteano soccorrere alle più deboli parti: e vedendosi non potere più resistere, benché assai avesson morti e fediti e magagnati de’ loro avversari, diedono segno tra loro, e abbandonarono la murata, e ridussonsi nella rocca, e la gente del legato di presente vittoriosamente la si prese. Madonna Cia avendo fatto maravigliosamente d’arme e di capitaneria alla difesa, si ridusse con quattrocento tra cavalieri e masnadieri nella rocca, acconci a’comandamenti della donna per singulare amore infino alla morte.”

Nuova Cronica, Matteo Villani, Libro Settimo, Capitolo LXIX

La crociata contro i forlivesi abbe un’ampia eco in tutta Italia, arrivando a preoccupare perfino Firenze, che aveva intenzione di entrare a far parte delle trattative per chiudere la sanguinosa piaga che avrebbe potuto dilagare ben oltre le Marche e la Romagna, magari fino alle rive dell’Arno.

Una delegazione di fiorentini prese udienza col signore di Forlì, in piena guerra, mentre la sassaiola del papa colpiva le mura di Cesena presidiate dalla moglie, Cia Ordelaffi. Tuttavia, il signore di Forlì rifiutò ogni compromesso: non aveva intenzione di perdere neppure una zolla di terra, e finché la Chiesa si ostinava con gli assedi, lui e la sua famiglia avrebbero resistito.

Mentre il marito conversava con gli ambasciatori, Cia Ordelaffi si trovava alle prese con la battaglia. L’esercito guidato da Galeotto Malatesta spingeva per la conquista rapida, assalto dopo assalto, per prendere la città il prima possibile. Il Conte Lando coi suoi mercenari tedeschi era una spina nel fianco e pure i Visconti di Milano davano grandi preoccupazioni. Perciò cominciò la guerra di mina.

I papali scavarono gallerie sotto le mura e le fecero crollare. I difensori combatterono tra le rovine per tenere il varco, ma gli scontri si prolungarono. A ogni assalto gli attaccanti potevano schierare truppe fresche; i difensori, invece, erano sempre gli stessi, stanchi e scoraggiati. Dopo una lotta all’ultimo sangue, Cia Ordelaffi fu costretta ad abbandonare pure questa cerchia di mura per ritirarsi nella rocca, l’ultimo bastione rimasto.

Questo susseguirsi di eventi è molto comune nella guerra d’assedio medievale, ed è anche presente nel mio ultimo romanzo “La stirpe delle Ossa”: laddove le trattative e le battaglie in sella al destriero falliscono, rimane solo l’assalto, muro dopo muro, portone dopo portone: una lotta spietata e disperata.

Gli ultimi cavalieri al comando di Cia Ordelaffi si chiusero nella rocca con lei, per l’ultima ed estrema difesa, “per singulare amore infino alla morte.

“De’ fatti di madonna Cia donna del capitano di Forlì.
Racchiusa madonna Cia nella rocca con Sinibaldo suo giovane figliuolo, e con due suoi nipoti piccoli fanciulli, e con una fanciulla grande da marito, e con due figliuole di Gentile da Mogliano e cinque damigelle, ed essento cinta stretta d’assedio, e combattuta da otti dificii che continovo gittavano dentro maravigliose pietre, non avendo sentimento d’alcuno soccorso, e sapendo che le mura della rocca e delle torri di quella per li nemici si cavavano, maravigliosamente si teneva, atando o confortando i suoi alla difesa. E stando in questa durezza, Vanni da Susinana degli Ubaldini suo padre, conoscendo il pericolo a che la donna si conducea, andò al legato, e impetrò grazia d’andare a parlare colla figliuola, per farla arrendere al legato con salvezza di lei e della sua gente. E venuto a lei, essendo padre, e uomo di grande autorità, e maestro di guerra, le disse: Cara figliuola, tu dèi credere ch’io non sono venuto qui per ingannarti, né per tradirti del tuo onore. Io conosco e veggo, che tu e la tua compagnia siete agli stremi d’irrimediabile pericolo, e non ci conosco alcuno rimedio, altro che di trarre vantaggio di te e della tua compagnia, e di rendere la rocca al legato. E sopra ciò l’assegnò molte ragioni perch’ella il dovea fare, mostrando ch’al più valente capitano del mondo non sarebbe vergogna trovandosi in così fatto caso. La donna rispose al padre, dicendo: Padre mio, quando voi mi deste al mio signore, mi comandaste, che sopra tutte le cose io gli fossi ubbidiente, e così ho fatto infino a qui, e intendo di fare infino alla morte. Egli m’accomandò questa terra, e disse, che per niun cagione io l’abbandonassi, o ne facessi alcuna cosa senza la sua presenza, o d’alcuno secreto segno che m’ha dato. La morte, e ogni altra cosa curo poco, ov’io ubbidisca a’suoi comandamenti. L’autorità del padre, le minacce degl’imminenti pericoli, né altri manifesti esempli di cotanto uomo poterono smuovere la fermezza della donna: e preso commiato dal padre, intese con sollicitudine a provvedere la difesa e la guardia di quella rocca che rimasa l’era a guardare, non senza ammirazione del padre, e di chi udì la fortezza virile dell’animo di quella donna. Io penso, che se questo fosse avvenuto al tempo de’ Romani, i grandi autori non l’avrebbono lasciata senza onore di chiara fama, tra l’altre che rancontano degne di singulari lore per la loro costanza.”

Nuova Cronica, Matteo Villani, Libro Settimo, Capitolo LXXVII

A questo punto, quando Cesena era ormai un cumulo di macerie invaso dal nemico, avvenne un fatto emozionante, di natura probabilmente letteraria (e qualche storico è sicuro che sia così).

Il padre di Cia Ordelaffi, Giovanni degli Ubaldini, saputo delle condizioni della figliola, chiese permesso al capitano papale Galeotto Malatesta e al legato pontificio di entrare in città e parlamentare con lei, la signora della guerra. Il legato acconsentì, e l’incontro che si ebbe tra padre e figlia fu così epico, che “se questo fosse avvenuto al tempo de’ Romani, i grandi autori non l’avrebbono lasciata senza onore di chiara fama.”

Il padre fece appello al raziocinio della figlia, spiegandole che non era necessario morire per niente. La città era ormai perduta, infatti, non c’era più niente da fare. E lei aveva combattuto come un leone, pari o meglio di qualsiasi altro uomo. Non doveva dimostrare nulla a nessuno.

Ma Cia Ordelaffi, rispondendo come un’eroina dei romanzi fantastici, affermò che il compito che le era stato affidato era quello di tenere la città, a qualsiasi costo. E lei, per “ubbidienza” al marito, intendeva farlo, fino alla morte. “La morte, e ogni altra cosa curo poco, ov’io ubbidisca a’suoi comandamenti.

Qui si potrebbe dibattere a lungo sullo scambio di battute padre-figlia, e sul rapporto che correva fra moglie e marito di una signoria medievale. Qualcuno potrebbe vederci una sfumatura di valori cavallereschi nelle parole di Cia Ordelaffi, che “ubbidisce” al marito come un cavaliere di Camelot ubbidisce a re Artù. Alcuni invece potrebbero vedere in questa “ubbidienza” il risvolto sociale della condizione femminile, subalterna a quella maschile.

Tenendo presente che questo dialogo è stato probabilmente “infiocchettato” dall’autore della Nuova Cronica, e che quindi si tratta della sua visione dei fatti, sarei propenso a pensare che la lettura dell’episodio rientri nell’ambito cavalleresco. Cia Ordelaffi era una donna che s’intendeva “maravigliosamente d’arme e di capitaneria alla difesa” e fece terra bruciata intorno a sé, di uomini e consiglieri, pur di portare avanti il compito. Se fosse stata subalterna al marito in quanto “maschio” non sarebbe stata neppure scelta per la difesa della città poiché, appunto, una donna.

“Come s’arrendé la rocca di Cesena al legato.
Sentendo il legato la compagnia soggiornare in sul Bolognese, abbandonato ogni altra cosa, con sommo studio si diè a volere vincere la rocca di Cesena, facendola cavare per abbattere le mura e le torri, e traboccarvi dentro grandi pietre con otto trabocchi, e oltre a ciò spesso la faceva assaggiare di battaglia; ma tanto era la severità di madonna Cia, e la sua sollecitudine di dì e di notte alla difesa, che per cosa che si facesse quell’animo non si cambiava; e già essendo per le cave caduto parte delle mura e l’una delle torri, la donna in persona facea riparare con isteccati e con fossi, oltre alla considerazione de’ più fieri e de’ più valenti uomini del mondo, non dimostrando alcuna paura. Ma i valenti conestabili ch’erano con lei, sapendo che la mastra torre della rocca si mettea in puntelli, e vedendo la pertinace costanza della donna, ebbono madonna Cia a consiglio, e dissono: Madonna, e’ si può sapere e conoscere manifestamente che per voi è mantenuta la difesa della murata e della rocca infino agli ultimi stremi, e di noi avete potuto conoscere intera e pura fede, mentre che alcuna speranza s’è per voi e per noi potuta conoscere, ma ora non ne resta via da potere campare la sepultura de’nostri corpi sotto la ruina di questa rocca. E perrocché questo non dobbiamo comportare per alcuna ragione, siamo disposti, o di vostra volontà, o contro al vostro volere, rendere la rocca per salvare le nostre persone. La valente donna per questo non cambiò faccia, né perdé di sua virtù, e conobbe ch’e’ soldati aveano ragione di così fare, e però disse a’ conestabili: Io voglio che lasciate fare a me questo accordo; e i conestabili conoscendo il grande animo della donna, dissono che di ciò erano contenti: e mandato al legato, e avuti da lui uditori con pieno mandato secondo la sua volontà, trattò che tutti i conestabili colle loro masnade, e tutti gli altri soldati fossono franchi e liberi, e potessonne portare ciò che volessono in su’ loro colli: ed ella rimanesse prigione del legato col figliuolo e con una sua figliuola, e con due suoi nipoti madornali e uno bastardo, e con due figliuole di Gentile da Mogliano, e cinque sue damigelle. Per sé e per la sua famiglia non cercò grazia, potendo salvare i soldati che lealmente l’aveano atata. E fatti e fermi i patti, a dì ventuno di giugno gli anni domini 1357 rendé la rocca al legato, e fu signore di tutto con gran gloria della sua punga, ma non con mancamento di chiara fama del forte animo di quella donna: la quale per alcuno caso avverso, per alcuna intollerabile fatica, mentre ch’era in sua libertà, mai non cambiò faccia, o mancò di consiglio o d’ardire. E menata in prigione dov’era il legato nel castello d’Ancona, così contenne il suo animo non vinto e non corrotto, e in aspetto continente come se la vittoria fosse stata sua. E il legato maravigliandosi della costanza di questa donna, benché la ritenesse prigione a fine di piuttosto domare l’alterezza del capitano, assai la fece atare onestamente, e bene servire.”

Nuova Cronica, Matteo Villani, Libro Nono, Capitolo XXXVI

Arrivati a giugno dell’anno domini 1357, dopo due mesi d’assedio, i difensori rimasti nella rocca si unirono in consiglio con la signora della guerra: Cia Ordelaffi. Costoro erano i suoi nobili cavalieri, che avevano combattuto per lei con amore e dedizione fino a tal punto, ma che adesso chiedevano d’arrendersi. Perché il nemico stava minando l’ultimo tratto di mura della rocca e presto li avrebbe sepolti vivi, tutti quanti. Non c’era alcun onore nel morire così, sotto il crollo della fortezza. Per questo i cavalieri erano fermi nella loro proposta: o la signora avrebbe acconsentito oppure sarebbero andati loro stessi dal capitano nemico, a trattare. Un ultimatum che mise la donna guerriera spalle al muro, contro i suoi stessi uomini. E che la costrinse ad acconsentire.

Cia Ordelaffi disse loro che avevano ragione, e che avrebbe trattato lei stessa la resa. Il 21 giugno uscì dalla rocca per consegnare la città al legato e trattò la salvezza di tutti i suoi uomini, che divennero “franchi e liberi”. Lei e la sua famiglia invece vennero trattenuti prigionieri nel castello d’Ancona, e ci rimasero per due anni, fino al luglio del 1359, quando il signore di Forlì, marito di Cia, si arrese agli eserciti papali e, dopo disonorevole abiura e lunghe penitenze, ottenne la grazia, annullando ogni processo d’eresia contro di lui. La crociata era finita, e il nemico era stato perdonato (una conclusione abbastanza frequente, nel caso in cui ci fosse stato sincero pentimento, proprio come in ambito inquisitoriale durante la Caccia alle streghe).

“Come il capitano di Forlì s’arrendé al legato.
Avendo perduto il capitano di Forlì il caldo della compagnia, ed essendo per la lunga di guerra molto battuto, e vedendo che più non potea sostenere, e che poco era in grazia e in amore de’ suoi cittadini per la messa che fatta avea della compagnia in Forlì, essendo tra il legato e lui per mezzani lungo trattato d’accordo prese partito di arrendersi liberamente alla discrezione e misericordia del legato, con alcuna promessa d’essere bene trattato e del modo, che a dì quattro di luglio 1359, il legato in persona, avendo prima messa la gente sua e prese le fortezze, entrò in Forlì con grande festa e solennità e di sua gente e de’ cittadini di Forlì. Nella quale entrata Albertaccio dai Ricasoli cittadino di Firenze, il quale al continovo era stato al consiglio segreto del cardinale, e delle sue guerre in gran parte conducitore e maestro, in sull’entrare del palagio fatto fu cavaliere. E ciò fatto, il legato ordinato la guardia della città e lasciatovi suo vicario se n’andò a Faenza, e ivi in piuvico parlamento, essendo dinanzi da lui messer Francesco degli Ordelaffi per addietro capitano di Forlì, riconobbe e confessò tutti i suoi falli ed errori che commessi avea contro la Chiesa di Roma e suoi pastori, i quali letti li furono nella faccia in presenza del popolo, domandando umilmente perdono e misericordia dalla Chiesa di Roma. Il legato fatto ciò, e in lungo e bello sermone gravando in parole l’ingiurie e la pertinacia della resia, e le pene nelle quali era incorso il capitano, privollo d’ogni dignità e onore, e per penitenza gl’impose, ch’elli vicitasse certe chiese di Faenza in certa forma; e ciò fatto, il legato cavalcò a Imola, ove venne il signore di Bologna sotto la cui confidanza il capitano s’era arrenduto; e stati a parlamento insieme più giorni, a dì diciassette di luglio, il cardinale ricomunicò nella mensa messer Francesco degli Ordelaffi, e nominatamente tutti i suoi aderenti e quelli che l’aveano favoreggiato, e ristituillo nell’onore della cavalleria, e perdonogli tutte l’offese per lui fatte alla Chiesa di Roma, e annullò ogni processo per lui fatto di resia contro a lui, e ridusselo nella grazia sua, e dichiarò che dieci anni fosse signore di Forlimpopoli e di Castrocaro, potendo stare in ciascuno de’ detti luoghi famigliarmente, e rimanendo le rocche in guardia d’amici comuni, e liberamente li ristituì la moglie, e’ figliuoli, e tutti quelli che tenea in prigione degli amici e seguaci del capitano; e così ebbe fine la lunga e pertinace guerra e ribellione del capitano di Forlì; e per la detta cagione la Romagna rimase in pace, e liberamente all’ubbidienza della Chiesa di Roma.”

La storia di Cia Ordelaffi, signora della battaglia e donna guerriera, si concluse con una sconfitta onorevole, poiché ella non abbassò mai la testa, neppure durante gli anni di prigionia. Tanto che perfino il legato pontificio si trovò ad ammettere la fierezza e la dignità di una grande donna, in grado di tenere testa a un esercito dieci volte più grande del suo. “E il legato maravigliandosi della costanza di questa donna, benché la ritenesse prigione a fine di piuttosto domare l’alterezza del capitano, assai la fece atare onestamente, e bene servire.

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  1. Wikipedia riporta il 21 giugno 1317, senza fonti a supporto, mentre il Dizionario biografico degli italiani di Francesco Pirani ammette che non vi è alcun documento anteriore al 1307, anno in cui viene stabilita la dote di Cia nella cifra di 1500 fiorini d’oro.
Lorenzo Manara
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