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18 Gennaio 2023

Un lupo mannaro nell’antica Roma

lupo mannaro nell'antica roma

Il mito dei licantropi nell’antica Roma: le origini del lupo mannaro nella mitologia greco-romana, da Plinio il Vecchio al morbo di Galeno

Tra le creature fantastiche che affollano miti e leggende, una figura predominante è quella del lupo mannaro, o licantropo, ancora oggi protagonista delle storie horror e fantasy. Non è raro, infatti, trovarlo abbinato alle atmosfere gotiche che dall’Ottocento in poi hanno accompagnato vampiri, fantasmi, non-morti, streghe e, golem costruiti con pezzi di cadaveri. 

Tuttavia, il mito del lupo mannaro, ovvero dell’essere umano che si trasforma in un lupo, e viceversa, è molto antico.

Le prime attestazioni dettagliate nelle fonti storiche, risalgono al mondo greco-romano, un mondo ricchissimo di folclore, superstizione, magia, ancora di più di quel che crediamo oggi, che attribuiamo a quell’epoca ideali di civiltà razionale, illuminata, a dispetto dell’Età di Mezzo che verrà dopo: il Medioevo, gretto, cupo ed esoterico, e anche sudicio.

Il Medioevo, in realtà, così come la letteratura fantastica occidentale con tutti i suoi miti e leggende, deve moltissimo all’Età Antica, soprattutto agli scritti greci e romani. 

“Dicono che la testa di lupo invecchiata doni resistenza contro i malefici, per questo motivo la infiggono alle porte delle case di campagna. Allo stesso modo, si ritiene che assicurano questo anche le pelli del collo portate a mo’ di manicotto compatto, poiché l’animale ha una così grande forza, oltre alle cose che abbiamo riportato sopra, che se le loro impronte sono calpestate dai cavalli, questi ultimi sono presi dal torpore.”

Plinio il Vecchio, Storia naturale, volume XVIII, 157

Secondo Plinio il Vecchio, nel suo Naturalis Historia, le teste dei lupi venivano seccate e inchiodate alle porte delle case per scacciare i malefici. Le loro pellicce, se portate al collo, avrebbero inoltre garantito una protezione dal male, vista la grande forza di questi animali. Plinio riporta anche la strana credenza che le impronte lasciate dai lupi, se calpestate dai cavalli, avessero su questi ultimi un effetto di sonnolenza1.

Le superstizioni che circondano la figura del lupo sono quindi numerose, e riguardano svariati aspetti magici, tra cui quello della metamorfosi. Plinio il Vecchio dedica un intero capitolo della sua opera proprio al tema del lupo mannaro, ritenendolo però assolutamente falso: ovvero un avvenimento fantastico, inventato.

“Dobbiamo ritenere assolutamente falso che gli uomini siano in grado di trasformarsi in lupi e di nuovo riprendere il proprio aspetto, o dobbiamo credere a tutte quelle che da tanti secoli sappiamo essere avvenimenti fantastici. Tuttavia sarà indicato da dove provenga questa diceria, radicata tra il popolo al punto che la parola “lupo mannaro” si conserva negli insulti.”

Plinio il Vecchio, Storia naturale, volume II, 195

Il mito del lupo mannaro, e della licantropia, secondo le fonti romane ebbe origine sul monte Liceo, in Arcadia, una storica regione della Grecia antica. Sul monte Liceo sorgeva il santuario più importante della regione, in onore di Zeus, divinità che, secondo le fonti, in quei luoghi pretendeva sacrifici umani. Le viscere delle vittime venivano mescolate con quelle degli animali, per essere date da mangiare ai presenti. La leggenda vuole che i partecipanti del macabro banchetto, divenissero poi dei lupi.

Infatti, Plinio il Vecchio racconta che un tale di nome Demeneto di Parrasia, durante un sacrificio umano al Giove Liceo, mangiò le viscere di un fanciullo e si trasformò in un lupo. “E’ ammirevole fino a dove si spinga la credulità dei Greci!”2 dice Plinio, relegando questi racconti alla sfera magico-superstiziosa.

Sempre in Arcadia, i membri di una famiglia, gli Anto, venivano scelti per uno strano rituale. Dopo essersi denudati presso una quercia sulla riva di uno stagno, attraversavano a nuoto lo specchio d’acqua e giunti sull’altra sponda si trasformavano in lupi. Avrebbero tenuto quelle sembianze per 9 anni. Se, durante quel periodo, non si fossero cibati di carne umana, una volta riattraversato a nuoto il medesimo stagno, avrebbero potuto riprendere il loro aspetto originario, ovviamente, di 9 anni più vecchi. Se fossero caduti nella tentazione ferale di nutrirsi di carne umana, invece, sarebbero rimasti per sempre dei lupi.

L’Arcadia, dunque, e soprattutto il monte Liceo sacro a Zeus, sembra aver conferito al mito la forma che conosciamo oggi, a partire dal termine stesso. Licantropia deriva dal greco lýkos (lupo), e ánthropos (uomo), ovvero uomo lupo: lupo mannaro. Il termine lýkos, che condivide la propria radice con il monte su cui venivano svolti questi rituali, è legato anche a un controverso personaggio mitologico: Licaone.

Ce ne parla Ovidio, nel I secolo dopo Cristo, descrivendo una variante del mito del Giove Liceo e dei licantropi3. Un giorno, Giove scese dall’Olimpo sotto sembianze umane, perché era venuto a conoscenza di azioni malvagie, perpetrate proprio nell’Arcadia, forse in riferimento ai riti sacrificali e ai macabri banchetti. Al suo arrivo, tutti lo riconobbero e si misero subito a pregare, ma il sovrano arcade, il re Licaone, volle verificare che si trattasse veramente di un dio. Il re diede da mangiare a Giove carne umana e poi tentò di ucciderlo nel sonno. Ma Giove se ne accorse e lo punì, facendogli crollare la casa e trasformandolo in un lupo.

“Le vesti trapassano in pelame, le braccia in zampe: diventa lupo, e serba tracce della forma di un tempo. La brizzolatura è la stessa, uguale è la grinta rabbiosa, uguale il lampo sinistro negli occhi, uguale l’aria feroce. Una casa è crollata, ma non una sola meritava di andare distrutta. Dovunque si estende la terra, impera selvaggia la Furia! Si direbbe la congiura del crimine. E allora, al più presto paghino tutti la pena che meritano! Così è deciso!”

Ovidio, Metamorfosi, pp. 14-17.

Lo storico Pausania nel II secolo dopo Cristo riporta lo stesso mito, sostenendo però la sua infondatezza, considerandolo nient’altro che superstizione, proprio come Plinio il Vecchio.

“Si dice che dopo i tempi di Licaone, in seguito al sacrificio offerto a Zeus Liceo, un uomo si trasformi ogni volta in lupo: non lo resterebbe, però, per tutta la vita, ma, quando è un lupo, se si astiene dal mangiare carne umana, al decimo anno dicono che di nuovo da lupo ridiventa uomo. Se invece ne assaggia, rimane bestia per sempre.”

Pausania, Periegesi, Libro VIII

Anche Publio Virgilio Marone, massimo poeta di Roma, colui che nel Medioevo farà da guida per la discesa infernale del Sommo Poeta di Firenze, descrive un lupo mannaro, divenuto tale grazie a erbe e veleni raccolti nel Ponto.

“Queste erbe e questi veleni raccolti nel Ponto
lo stesso Meri me li diede (nel Ponto ne nascono moltissimi);
con questi io vidi spesso Meri diventare un lupo
e celarsi nelle selve, vidi spesso evocare le anime dai sepolcri profondi,
e trasportare le messi seminate da un campo in un altro luogo.
Riportate a casa dalla città, o miei canti, riportate Dafni.”

Bucolioche, Publio Virgilio Varrone, Ecloga VIII

Se tutti questi racconti, però, possono sembrare frutto di superstizione, o addirittura di facili credulonerie, vi è un autore di fama indiscutibile che si occupa della questione dal punto di vista medico. Si tratta di Galeno. Claudio Galeno, medico greco tra i più famosi dell’Antichità, il cui lavoro ha dominato lo studio della medicina occidentale e orientale per secoli, anche oltre il Medioevo: opere tradotte in moltissime lingue, studiate da cristiani e musulmani indistintamente.

Galeno descrive le caratteristiche della licantropia, e di un vero e proprio lupo mannaro.

“Coloro i quali vengono colti dal morbo, chiamato lupino o canino, escono di notte nel mese di febbraio, imitano in tutto i lupi o i cani, e fino al sorgere del giorno di preferenza scoprono le tombe. Tuttavia si possono riconoscere le persone affette da tale malattia da questi sintomi. Sono pallidi e malaticci d’aspetto, e hanno gli occhi secchi e non lacrimano. Si può notare che hanno anche gli occhi incavati e la lingua arida, e non emettono saliva per nulla. Sono anche assetati e hanno le tibie piagate in modo inguaribile a causa delle continue cadute e dei morsi dei cani; e tali sono i sintomi.”

Galeno, Opera omnia, t. XIX”

Un morbo, dunque, che come tale, può essere curato.

“E’ opportuno invero sapere che questo morbo è della specie della melanconia: che si potrà curare, se si inciderà la vena nel periodo dell’accesso e si farà evacuare il sangue fino alla perdita dei sensi, e si nutrirà l’infermo con cibi molto succosi. Ci si può avvalere d’altra parte di bagni d’acqua dolce: quindi il siero di latte per un periodo di tre giorni, parimenti si purgherà con la colloquinta di Rufo o di Archigene o di Giusto, presa ripetutamente ad intervalli. Dopo le purgazioni si può anche usare la teriaca estratta dalle vipere”.

Se vogliamo trovare, però, l’origine della licantropia in quanto leggenda affilata, ovvero storia avventurosa con tanto di spade sguainate e scontri soprannaturali, dobbiamo sfogliare il Satyricon di Petronio, del I secolo dopo Cristo, al cui interno si cela un racconto nel senso moderno del termine, il cui protagonista è proprio un lupo mannaro.

“Quando ero ancora schiavo, abitavamo in Vico Stretto, dove oggi c’è la casa di Gavilla. Lì, dài che ti dài, attacco a farmela con la moglie di Terenzio, l’oste. Magari l’avete anche conosciuta, Melissa, la Tarentina, quel gran pezzo di donna. Io però non ci avevo messo gli occhi sopra perché era una maggiorata o per sbattermela, ma piuttosto perché aveva un cuore grande così. Qualunque cosa le chiedevo, lei me lo dava: se racimolava un soldo, la metà finiva a me. Quanto al sottoscritto, quello che avevo lo passavo nelle sue tasche e non ci ho mai preso delle fregature. Un giorno, mentre se ne stava in campagna, il suo ganzo tira le cuoia. Allora io, facendo il boia e l’impiccato, cerco con ogni mezzo di raggiungerla, perché – sai come si dice – gli amici li si vede nel bisogno.”

Petronio, Satyricon 61-62

Il liberto Nicerote, durante una cena, descrive un episodio spaventoso per intrattenere i suoi ospiti: episodio che lui stesso ha visto coi suoi occhi, tempo prima, quando era ancora uno schiavo.

“Il caso volle che il mio padrone se ne fosse andato a Capua a vendere il fior fiore del suo ciarpame. E così, cogliendo la palla al balzo, convinco un nostro ospite ad accompagnarmi fino al quinto miglio. Mica per altro: era un soldato e per giunta forte come un demonio. Alziamo le chiappe al primo canto del gallo e con una luna così chiara che sembrava di essere di giorno. Finimmo dentro un cimitero: il mio socio si avvicina a una lapide e si mette a pisciare, mentre io attacco a contare le lapidi fischiettando. A un certo punto, mi giro verso il tipo e vedo che si sta togliendo i vestiti di dosso e butta la sua roba sul ciglio della strada. A me mi va il cuore in gola e resto lì a fissarlo che per poco ci resto stecchito. Ed ecco che quello si mette a pisciare tutto intorno ai vestiti e di colpo si trasforma in lupo. Non pensate che stia scherzando: non mentirei nemmeno per tutto l’oro del mondo. Ma, come stavo dicendo, appena trasformato in lupo, attacca a ululare e poi si va a imboscare nella macchia. Sulle prime io non sapevo più nemmeno dov’ero: poi mi avvicino ai suoi vestiti per raccoglierli, ma quelli erano diventati di pietra. Chi più di me avrebbe dovuto morire dalla paura? Ciò nonostante sguaino la spada e, menando colpi alle ombre, tra uno scongiuro e l’altro, arrivo fino alla casa della mia amica.”

Un giorno, il suo padrone se ne era andato via di casa per lavoro, e Nicerote aveva colto la palla al balzo, decidendo di andare a trovare l’amante, Melissa, “quel gran pezzo di donna”, come la chiamava lui, sempre gentile e, soprattutto, ricca. Il viaggio, però, era pericoloso e Nicerote chiese d’essere accompagnato da un suo conoscente, un soldato forte come un demonio. Così al primo canto del gallo, e con una luna così chiara che sembrava giorno, i due si ritrovarono ad attraversare un cimitero.

Il soldato si avvicinò a una lapide e si mise a pisciare, mentre lo schiavo per passare il tempo, contava le lapidi fischiettando. A un certo punto, il soldato si tolse i vestiti di dosso e li buttò sul ciglio della strada. Poi ci pisciò sopra, e si trasformòi in un lupo.

Lo schiavo Nicerote per poco non ci rimase secco dalla paura: un lupo mannaro vero e proprio, che ululava alla luna, affacciata sul cimitero, per poi fuggire nella boscaglia. I vestiti, gettati per terra, divennero pietra. Allora Nicerote, sguainò la spada, e proseguì il viaggio, da solo e al buio, “menando colpi alle ombre, tra uno scongiuro e l’altro”, certo che il mostro potesse azzannarlo, in agguato nelle tenebre.

“Entro che sembro un cadavere, senza più fiato, con il sudore che mi scorre tra le gambe e gli occhi spenti. Tanto che per riprendermi ci metto un bel po’. La mia Melissa, stupita di vedermi in giro a quell’ora della notte, mi fa: “Se solo fossi arrivato un po’ prima, almeno ci avresti dato una mano: un lupo è entrato nel recinto e ci ha massacrato tutte le pecore come un macellaio. Comunque, anche se è riuscito a scappare, non ha da stare allegro, perché un nostro servo gli ha trapassato il collo con la lancia”. Dopo aver sentito questa storia, non riesco a chiudere occhio per tutta la notte, ma alle prime luci dell’alba me la filo a casa del nostro Gaio, nemmeno fossi un oste appena ripulito. E quando passo davanti al punto in cui i vestiti del mio compare erano diventati di pietra, ci trovo soltanto una pozza di sangue. Quando arrivo a casa, il soldato è lì sbracato sul letto come un bue, con al capezzale un medico impegnato a curargli il collo. Allora mi rendo conto che è un lupo mannaro e da quel giorno non ho più mangiato con lui manco un tozzo di pane, nemmeno a costo della vita. Liberi voi di pensare quello che volete, ma se vi racconto una frottola, mi stramaledicano i vostri numi tutelari.”

Raggiunta la casa di Melissa con la spada in pugno, pallido come un cadavere, senza fiato e con gli occhi spenti, Nicerote tirò un sospiro di sollievo. Sembrava tutto finito. Tuttavia, l’amante lo avvertì che un lupo era entrato nel recinto, per massacrare le pecore. Gli abitanti della casa se n’erano accorti, ed erano usciti per combatterlo: un coraggioso servo si era fatto avanti con la lancia, ed era riuscito a cacciarlo via, trapassandogli il collo.

Lo schiavo non chiuse occhio per tutta la notte, e appena si fece mattina decise di affrontare il viaggio di ritorno. Passò davanti al cimitero, e laddove erano stati lasciati i vestiti di pietra, ci ritrovò una pozza di sangue. Quando arrivò a casa, il soldato che aveva visto trasformarsi la notte prima, giaceva sul letto, sbranato come un bue, con un medico di fianco impegnato a curargli il collo da una brutta ferita.

Nicerote, da quel giorno decise di stare alla larga da quel lupo mannaro, senza mai condividere con lui neppure un tozzo di pane. “Se vi racconto una frottola, che mi stramaledicano i vostri numi tutelari”, giurò, concludendo il racconto.

Quella greco-romana, non è l’unica cultura del mondo antico ad aver conosciuto la figura del lupo mannaro: uomo lupo o simile trasmutazione bestiale. Nelle tradizioni slave si racconta di alcune persone che correvano per i boschi con indosso una pelliccia di lupo, nelle notti di luna piena. In America centrale e meridionale erano diffusi, invece, gli uomini-giaguaro, mentre in Africa, gli uomini-leopardo. (J. C. Cooper, Dizionario degli animali mitologici e simbolici)

In ogni caso, per i romani il simbolo del lupo, o meglio della lupa, non è negativo, anzi è un simbolo che alimenta la gloria della Città Eterna a partire dal mito della sua fondazione.

Se questa storia ti ha appassionato, seguimi, così non perderai l’occasione di vivere le prossime leggende affilate. Ciao.

  1. Credenza contenuta anche nel De natura animalium, di Eliano: “Se un cavallo inavvertitamente calpesta le orme di un lupo, si narcotizza. Se uno getta l’astragalo di un lupo contro dei cavalli che stanno trascinando una quadriga, questa si ferma di colpo, come paralizzata, se i cavalli lo calpestano”, e anche in Panfilo, Geoponica
  2. Storia naturale, volume II, p. 194 (Nat. 8, 82).
  3. Ovidio, Metamorfosi I, 196-252
Lorenzo Manara
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