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25 Novembre 2022

Orazio Coclite: l’eroe di Roma, solo contro tutti

orazio coclite sul ponte sublicio

L’impresa eroica di Orazio Coclite, che mantenne da solo il possesso di un ponte contro l’intero esercito degli etruschi di Porsenna

Anno 508 avanti Cristo, Roma è circondata dal nemico. Gli etruschi guidati dal leggendario Porsenna sono comparsi sulla cima del colle Gianicolo, dinanzi alla riva del Tevere, pronti a sciamare verso l’unico passaggio che può condurli nel cuore dell’Urbe: il pons Sublicius, ovvero il “ponte che poggia sui pali”, fatto interamente di legno, uno dei più antichi, se non il più antico di Roma. Alla vista del nemico, gli abitanti si danno alla fuga e persino i soldati lasciano a terra le armi per abbandonare il campo. In questo drammatico scenario un solo uomo rimane al suo posto, sul ponte, per fermare l’avanzata etrusca, solo contro tutti: il suo nome è Publio Orazio Coclite.

Siamo agli albori della Res Publica, la forma di governo che ha da pochissimo soppiantato la monarchia. L’ultimo re di Roma, tradizionalmente il settimo, Tarquinio il Superbo, è appena stato cacciato dalla città. Una nuova epoca, quella della Repubblica Romana, sta per avere inizio: di lì a qualche secolo Roma si affermerà come la capitale dell’impero più glorioso della storia. Tuttavia, l’ultimo re, quel sovrano di origini etrusche appena spodestato, non ha alcuna intenzione di farsi da parte.

Tarquinio il Superbo tenta di riconquistare quel che gli spetta, e lo fa appellandosi all’uomo più potente d’Etruria, suo alleato: Lars Porsenna, figura ammantata di mistero, che secondo alcune fonti è definito addirittura il sovrano della dodecapoli etrusca e che, dopo la sua morte, darà origine alla leggenda di un intricato labirinto celato tra le pietre del suo stesso mausoleo, contenente uno straordinario tesoro: un mito che sopravviverà fino al Medioevo e pure oltre.

Porsenna risponde alla richiesta d’aiuto di Tarquinio, radunando un esercito per attaccare Roma e ristabilire il potere monarchico legato alla sua stessa fazione, una condizione politica da cui trarrebbe evidenti vantaggi. Ed è per questo che nell’anno 508 avanti Cristo, gli etruschi giungono dinanzi alla riva del Tevere, davanti a quell’unico ponte di legno: sulla soglia della città di Roma.

“Quando apparvero i nemici ci fu un fuggi fuggi generale dalle campagne a Roma, e Roma stessa fu munita di presidi armati. Certe zone davano l’impressione di esser sicure per via delle fortificazioni, altre per l’ostacolo costituito dal Tevere. Il ponte Sublicio però avrebbe quasi offerto una breccia al nemico, se non fosse stato per un uomo solo, Orazio Coclite, il quale in quel giorno fece da sostegno alle sorti di Roma.”

Tito Livio, Ab urbe condita libro II, 10

L’armata di Porsenna prende possesso del colle Gianicolo, subito fuori città, con un attacco a sorpresa. E una volta che gli Etruschi guadagnano la sommità, affacciandosi sull’Urbe, il loro numero diviene ben visibile dagli abitanti della Roma intera, riparati dietro il Tevere, terrorizzati da quel che sta per accadere: dinanzi all’esercito avversario, infatti, sorge il Sublicius, il ponte di legno che costituisce l’unico accesso alla città, e che sta per cadere in mano nemica.

Quando la situazione diventa disperata, però, interviene lui: Orazio Coclite.

“Destinato per caso alla guardia del ponte, vide che i nemici si erano impossessati del Gianicolo con un attacco a sorpresa e da quel punto stavano correndo giù a rotta di collo, mentre i suoi compagni, in preda al panico più totale, rompevano le righe e buttavano le armi. Allora, trattenendoli uno per uno, bloccando loro la strada e chiamando a testimoni gli uomini e gli déi, urlava che era inutile che fuggissero dopo aver abbandonato i loro posti: in un attimo sul Palatino e sul Campidoglio ci sarebbero stati più nemici che sul Gianicolo, se si fossero lasciati alle spalle il ponte incustodito. Così li esorta e li spinge a distruggerlo col ferro, col fuoco o con qualsiasi altro mezzo a loro disposizione: avrebbe retto lui l’urto dei nemici, nei limiti del possibile per un corpo solo.”

Orazio Coclite, vedendo gli etruschi di Porsenna venir giù dal colle, diretti verso il ponte, si dimostra ben più coraggioso dei suoi compagni d’arme. Costoro, infatti, colti dal panico, gettano le armi a terra e abbandonano il campo, rifiutandosi di difendere quell’unico accesso così prezioso.

Orazio Coclite comincia a fermare tutti i soldati che riesce a intercettare, gridando che è inutile fuggire: morirebbero tutti, se lasciassero incustodito il ponte, poiché il nemico si dirigerebbe nel cuore della città per massacrare chiunque. Per questo ordina di distruggerlo col ferro e col fuoco. Ci penserà lui a trattenere il nemico, il tempo necessario a far crollare il ponte.

“Quindi avanza a grandi passi verso l’ingresso del ponte, facendosi notare in mezzo alle schiere dei compagni che rinunciavano a scontrarsi e sbalordendo gli Etruschi con l’incredibile coraggio che dimostrava nell’affrontarli armi alla mano. Trattenuti dal senso dell’onore due restarono con lui: si trattava di Spurio Larcio e Tito Erminio, entrambi nobili per la nascita e per le imprese compiute. Fu con loro che egli sostenne per qualche tempo la prima pericolosissima ondata di Etruschi e le fasi più accese dello scontro.”

Orazio Coclite percorre l’intero ponte, fiancheggiato da altri due eroici romani: Spurio Larcio e Tito Erminio. Si piazza all’imboccatura della strada, sulla riva del Tevere, piantato di fronte all’intero esercito di Porsenna, mentre gli abitanti demoliscono il ponte alle sue spalle. Gli Etruschi sono sbalorditi dal coraggio dei tre guerrieri che si frappongono fra loro e il passaggio sul fiume, pronti al sacrificio. Ma lanciano comunque il feroce attacco.

“Poi, quando rimase in piedi solo un pezzo di ponte e quelli che lo stavano demolendo gli urlavano di ripiegare, costrinse anche loro a mettersi in salvo. Quindi, lanciando occhiate di fuoco ai capi etruschi, passava dallo sfidarli singolarmente a duello ad accusarli tutti insieme di essere schiavi dell’arroganza monarchica e di esser venuti a minacciare la libertà altrui senza pensare alla propria. Essi allora ebbero un attimo di incertezza, e si guardarono l’uno l’altro prima di attaccare.”

La prima ondata si scontra con i tre eroici romani senza riuscire a sfondare. Costoro difendono l’ingresso del ponte, sostenendo da soli l’urto di una moltitudine di guerrieri avversari; solo tre uomini, ma forti come semidei. Combattono strenuamente, finché i demolitori alle loro spalle non li avvertono che il ponte, mezzo distrutto, è in procinto di crollare. Tutti allora si apprestano ad abbandonarlo, compresi Spurio Larcio e Tito Erminio. Ma Orazio Coclite no. Lui rimane sul posto, con le armi in pugno: finché anche solo un pezzo del ponte è in piedi, qualcuno deve difenderlo.

Orazio continua, quindi, a combattere gli uomini di Porsenna, che fino all’ultimo tentano di superare l’indomito romano per raggiungere la sponda opposta. Nel corso della mischia inveisce pure contro i capi etruschi, accusandoli d’essere schiavi del potere monarchico, venuti a minacciare “la libertà altrui senza pensare alla propria”. Colpiti nell’orgoglio, tutti i capi, nonché i guerrieri più forti, si scagliano contro di lui.

“Poi, spinti dalla vergogna, si buttarono tutti insieme all’assalto e gridando a gran voce concentrarono i loro tiri contro quell’unico nemico. Ma Orazio riuscì a ripararsi con lo scudo da tutti i colpi e non si mosse di un passo dalla sua posizione di difesa a oltranza del ponte e quando gli Etruschi erano ormai sul punto di travolgerlo per farsi strada, il fragore del ponte che andava in pezzi e insieme l’esplosione di gioia dei Romani per aver portato rapidamente a termine l’operazione li spaventarono e ne contennero l’urto.”

I migliori guerrieri etruschi sferrano il loro attacco contro Orazio Coclite, tutti assieme, tempestandolo di colpi (forse bersagliandolo con armi da tiro). Ma l’eroe romano resiste ancora, riparato dallo scudo, senza muoversi di un passo. Mantiene la posizione, a oltranza, e quando è quasi sul punto di essere travolto dalla marea nemica, presumibilmente a causa dello sforzo estenuante, il ponte alle sue spalle crolla.

“In quel preciso momento Coclite gridò: “O padre Tiberino, io ti prego solennemente, accogli benigno nella tua corrente questo soldato con le sue armi!” Detto questo, si tuffò nel Tevere armato di tutto punto e sotto una pioggia fittissima di frecce arrivò indenne a nuoto fino dai suoi compagni, protagonista di un’impresa destinata ad avere presso i posteri più fama che credito. Lo Stato ricompensò il suo eroismo con una statua in pieno comizio e con la concessione di tutta la terra che fosse riuscito ad arare nello spazio di un giorno. Accanto agli onori ufficiali ci furono anche manifestazioni di gratitudine da parte dei privati: infatti, nonostante il periodo di grande carestia, ogni cittadino, in proporzione alle proprie disponibilità, si privò di parte della sua razione di viveri per fargliene dono.”

Orazio Coclite, portato a termine l’impresa, pronuncia una preghiera al padre Tiberino, ovvero la divinità legata al fiume Tevere, per accoglierlo “benignamente” con tutte le sue armi. Quindi si getta nel fiume e si reca a nuoto verso l’altra sponda.

Sotto una pioggia fittissima di frecce, senza affondare per via del peso dell’armatura, raggiunge i compagni, vivo. E da quel momento entra nella leggenda, annoverandosi fra gli eroi antichi, ricompensato con una grande statua in bronzo per aver protetto Roma, oltre che una quantità di terreni pari a quelli che riuscirà ad arare in un solo giorno. Vista la sua forza e resistenza, è probabile che di terra, Orazio Coclite, quel giorno, sia riuscito a guadagnarne parecchia…

Secondo Polibio, invece, Orazio Coclite sarebbe morto nel fiume:

“Orazio resistette, pur ricevendo un gran numero di ferite, e trattenne l’impeto degli avversari: tagliato il ponte, i nemici furono arrestati dall’irruzione e Coclite, buttandosi armato nel fiume, morì di morte volontaria, facendo maggior conto della sicurezza della patria e della gloria che dopo di ciò gli sarebbe venuta che non della vita presente e di quella che ancora gli sarebbe rimasta.”

Il mito legato al suo nome è rimasto scolpito nella memoria, ispirando nei secoli a venire guerrieri, condottieri e imperatori. Si tratta di una storia degli albori di Roma, di origine esclusivamente letteraria, secondo alcuni, ma che ha lasciato un segno, quello sì, ben tangibile, dell’ideale di fierezza, forza e onore che ha contraddistinto i figli di Marte nel loro cammino di conquista del mondo.

Le imprese di eroi che si sono sacrificati per difendere un singolo ponte sono moltissime nelle cronache storiche. Nel mondo norreno, ad esempio, avviene qualcosa di simile durante la battaglia di Stamford Bridge, nell’anno 1066, quando un furioso guerriero che molti ritengono essere un berserker, difende il passaggio armato della sua ascia a due mani, contro l’intero esercito anglosassone. E poi nel mondo tardo-medievale e rinascimentale, quando l’era della cavalleria raggiunge il suo apice, e secondo alcuni il tramonto, si combattono duelli e pas d’arme, proprio sui ponti, per rievocare le antiche gesta di eroi e semidei.

Ma quella è un’altra storia, una delle tante che intendo raccontare, qui. Seguimi, se non vuoi rischiare di perdere neppure una leggenda affilata, e ricordati di ascoltare il mio nuovo podcast, su tutte le piattaforme di streaming (link). Alla prossima!

Lorenzo Manara
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