La guerra ai banditi nel Trecento italiano
Gli episodi di guerra ai banditi e ai ribelli nel Medioevo italiano: fra rapine, assalti, imboscate, battaglie e, talvolta, il perdono!
Il termine “bandito”, oggigiorno, è sinonimo di “criminale”: ovvero colui che compie reati in maniera organizzata ed è quindi membro di una banda. Per questo, quando pensiamo ai banditi medievali, ci ritornano in mente gli allegri compagni di Robin Hood nascosti nei boschi, che rubavano ai ricchi per dare ai poveri. Qualcuno potrebbe pensare invece ai banditi più cattivi, quelli che rubavano per sé stessi e magari ti tagliavano anche la gola (da lì, il termine tagliagole). La realtà storica, però, presentava una sfumatura concettuale diversa.
I banditi del medioevo italiano erano coloro che venivano espulsi dalla comunità per svariate ragioni, anche politiche: messi al bando, per l’appunto, esiliati. Infatti, era piuttosto comune che al cambio di governo i nemici della parte avversa venissero cacciati dalle loro case (se non uccisi).
“E poi l’altro dì, a dì 25 di marzo in mezedima, el populo minuto levò e’ romore per Siena, e tutta la città fu in arme, e furo serrate tutte le catene de la città, cioè quelle che si potero serrare (…) e corsero ancora a casa del podestà, cioè misser Ciappo de’ Ciappi da Narni, e robarlo e cacciarlo. E andarono a casa del capitano de la guerra, e robarlo e cacciarlo, cioè Neri da Monte Carullo, e di dolore infermò e morì in pochi dì.”
Cronaca Senese di Donato di Neri e di suo figlio Neri, pag 578
A Siena, nell’esempio qua sopra, datato 1355, il capitano di guerra pagò le conseguenze del suo mandato politico con la vita. Dopo esser stato derubato e cacciato via dalla sua stessa casa, morì di lì a pochi giorni, probabilmente per le ferite riportate. Fu proprio così che si concluse il celebre governo dei Nove per lasciar spazio a quello dei Dodici.
Solitamente i banditi, una volta espulsi dalla città, chiedevano aiuto agli alleati per raggiungere luoghi sicuri, lontano dalle zone d’influenza della fazione vittoriosa. Così facendo si formavano dei veri e propri covi di ribelli che, talvolta, proseguivano la loro guerra dall’esterno delle mura cittadine, effettuando azioni di disturbo, ruberie, violenze e assalti in sella al destriero.
Come s’andò a campo ad Ansedonia con molto esercito.
“Essendo nel tempo della detta signoria, molti isbanditi e’ quai non avevano avuta la pace e anco none avevano potuto pagare loro chondenagioni, come dissi in dietro; e’ quali isbanditi s’erano ridotti in l’Ansidonia et eransi molto fortificati e cavalcavano per tutta la Maremma e facevano di molto male;”1
Un territorio italiano molto affascinante dal punto di vista narrativo è quello dell’Italia centrale, sul lato costiero del Tirreno, dove un tempo erano diffuse paludi e acquitrini a perdita d’occhio. Solo nel Cinquecento cominciarono le prime opere di bonifica di quelle aree malsane in cui abbondavano carestie, malattie e molti “isbanditi”.
Già, perché per un “fuoriuscito” non c’è luogo migliore in cui rifugiarsi di un territorio aspro e ostile, lontano dalle ricchissime realtà cittadine. Nel mio ultimo romanzo, “La Stirpe delle Ossa”, in mezzo alle pestilenze e alle carestie che dilagano fra gli acquitrini, si fa spesso menzione dei fatti di città, e di quello che potrebbe accadere al governo afflitto dal malcontento popolare. E anche al degrado economico e sociale delle zone rurali che venivano progressivamente abbandonate. Esattamente come nella realtà storica, in particolare nell’antichissima Ansidonia.
“L’etrusca Ansidonia, un tempo assai popolata, era allora ridotta un ammasso di macerie e tutta intorno inselvatichita e di non facile accesso. In quei tempi di grande disordine morale, in cui città, paesi, feudatari si movevano continua guerra, portando desolazione e miseria; ricchi e poveri esercitavano la rapina, assoldando gente perversa e di malaffare. Molta di questa gente, quando non trovava occupazione per conto di altri, si dava a predare e ad uccidere per conto proprio, viandanti e paesani vicini, e ritirandosi in luoghi boscosi di non facile accesso, quasi sempre rimaneva impunita. La Repubblica, ricevendone continuo danno, fu costretta a mandare contro di essa un numeroso esercito per liberarsi da quei malviventi.” 2
Sembrerebbe l’ambientazione perfetta per un romanzo, e infatti questo frammento di realtà storica italiana gioca un ruolo molto importante nelle vicende avventurose che ho appena finito di scrivere e che, presto, vedranno la luce in libreria. Quei cavalieri “sbanditi” in mezzo alle paludi sono protagonisti affascinanti, a cui non ho saputo resistere. Anche, e soprattutto, per via dell’epilogo che li vide coinvolti nella realtà storica: una bella battaglia!
“Sentendo questo e’ signori Nove come el fato stava, segretamente feceno comandare trecento fanti del contado e trecento balestrieri e ‘l capitano della gente de l’arme cho’ mille cavalieri. E una sera, al serrare della porta, esciro di Siena e andoro a l’Ansidonia cho’ molte buone guide e presero tutti e’ passi e assediarlo per modo che non ne poteva uscire nessuno né ancho intrare. E quando ebbero ordinato tutto il bisogno, e l’altro giorno detteno la battaglia a la terra ed ebesi incontanente. E poi dero battaglia al chasaro, e quegli di dentro s’arrendero a’ patti salve le persone. E come e’ Sanesi vi furo dentro di subito per chomesione data a loro, la gitaro per terra la rocha e le mura della città. E questo feceno perchè ma’ più non si potesse riducere nisuno malandrino, e quai erano chagione di tenere tuta la Marema in tribulazione e in afanno. E questo fu a dí trenta d’agosto. E ‘I capitano di questa gente fu miser Francescho d’ Acharigi di porta Salaia.”
Il governo dei Nove di Siena, stanco dei banditi che presidiavano le rovine di Ansedonia, radunò un esercito di trecento fanti, trecento balestrieri e mille cavalieri. Nel giro di una giornata questa armata raggiunse il cuore dell’insediamento fortificato dei ribelli e lo pose sotto assedio.
Dopo un’intensa battaglia, i difensori si arresero ed ebbero salva la vita. Ma la loro fortezza, con le mura e tutto il resto, venne rasa al suolo, affinché mai “più non si potesse riducere nisuno malandrino”.
Arrivati a questo punto, banditi e ribelli potrebbero sembrare la stessa cosa. Poiché la sentenza di “bando”, ovvero l’espulsione dalla comunità, colpiva chiunque: dal criminale di strada al signore influente, magari perfino famoso, che aveva ricoperto incarichi importanti nella comunità cittadina ed era benvoluto da molti: caso, questo, di Dante Alighieri.
Dante Alighieri fu bandito da Firenze nel 1302 a causa della sua appartenenza ai guelfi bianchi. Ed è proprio durante l’esilio che scrisse la Divina Commedia. Egli era dunque un “isbandito”, cacciato via dalla propria casa per errare lontano dall’amata patria di cui scriverà a lungo, spesso con nostalgia, fino alla fine dei suoi giorni.
Oggi nessuno definirebbe Dante Alighieri un bandito, poiché nell’accezione comune tale termine lo assimilerebbe a un brigante. Eppure, era davvero un bandito. Così come era un cavaliere e uomo di spada al pari degli altri signori di Firenze, capace di possedere e mantenere un cavallo da guerra. E di signori cacciati via dalle proprie case, costretti a nascondersi nelle zone rurali per proseguire la loro guerra, in sella al destriero e con la spada in pugno, ce n’erano un’infinità.
“Perolla: vi si ricettava certi sbanditi e ribelli del comuno di Siena, e robavano e uccidevano e vietavano pocissioni e ponevano taglie in fino a le porti di Siena. In quello di Massa non si lavorava molti poderi; erano per tutta la Maremma le strade [malsicure]; 50 erano morti mercatanti e robati chiunque vi passava.”
Perolla era un’altra località malfamata, dove i banditi di Siena si raccoglievano per organizzarsi in bande di cavalieri e soldati, che “robavano e uccidevano”. Per causa loro, e di altri banditi sparsi per il territorio, la Maremma era diventata insicura e pericolosa. Cinquanta furono infatti i mercanti uccisi lungo la strada, in un solo anno.
“Certi sbanditi di Siena erano nella Selva, e venivano la notte nelle Masse in fino presso a la porta, e pigliavano e ponevano taglie e faceano inoltre soze cose. Di che el comuno vi mandò a dì 18 d’agosto molti contadini de le villate d’intorno, e andovi’ e’ centorioni de la città, e cercoro per la Selva e preserne uno, Bartalo del Pela da Sa’ Mamigliano, che era in bando per le monache di Sa’ Mamigliano, e gli altri s’erano fugiti la notte esprovedutamente. El detto Bartalo fu impicato a la porta a Camullia.”
Per contrastare la minaccia dei banditi che vagavano nei dintorni di Siena, il governo radunò perfino i “contadini delle villate” ovvero semplici villani di campagna. Possiamo immaginarli vestiti in maniera semplice, con armature imbottite, farsetti e tuniche, armi inastate e grandi scudi rettangolari. Non erano soldati di mestiere, ma sapevano menar le mani. Ed erano di certo abituati a farlo.
Quando gli agguerriti villani si trovarono per le mani uno dei banditi, tale Bartalo del Pela, probabilmente un signorotto senese vista la menzione nella cronaca, la sentenza fu immediata: l’impiccagione. Questa, però, non era l’unica possibile conclusione. Perché, nonostante le premesse, in certi casi era possibile evitare la morte ed essere, dunque, perdonati.
Con la frase “molti isbanditi e’ quai non avevano avuta la pace e anco none avevano potuto pagare loro chondenagioni” ci si riferisce a quei banditi che non avevano pagato una somma di denaro che avrebbe permesso loro di riscattare la libertà. Esattamente come accadde a Dante Alighieri, il quale rifiutò il pagamento della multa di 5.000 fiorini che forse gli avrebbe permesso di restare a Firenze3. Forse. Perché in verità non sapremo mai come sarebbe andata a finire se Dante avesse pagato la multa.
Il bando riguarda, infine, un altro grande tema spesso associato al Medioevo: quello della stregoneria. Perché, stando a quanto riportato dai verbali dell’Inquisizione italiana, e al parere degli storici4, laddove si otteneva una piena confessione sotto tortura, confermata dopo un periodo di riposo per la piena convalida, allora veniva garantito il perdono tramite l’abiura, pubblica o segreta, con conseguente fustigazione, carcerazone o esilio, ovvero il bando. Mi riferisco, ovviamente, a periodi successivi al Medioevo, soprattutto il Rinascimento (rimando all’articolo dedicato per approfondimenti “La caccia alle streghe in Europa”). Coloro che erano stati condannati per magia o stregoneria potevano quindi essere banditi dalla comunità, assieme a ladruncoli, ricchi signori e cavalieri. E magari trovarsi tutti assieme in una qualche località sperduta, a tramare azioni da ribelli…
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- Cronaca Senese di Donato di Neri e di suo figlio Neri ↩
- “Come s’andò a campo ad Ansedonia con molto esercito.” Cronaca Senese di Donato di Neri e di suo figlio Neri, note a margine ↩
- Accusa del podestà Cante Gabrielli del 1302, baratteria e concussione, sentenza archiviata nel “libro del Chiodo”. Dante non si presentò mai al processo ↩
- John Martin “Per un’analisi quantitativa dell’Inquisizione veneziana” ↩
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