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13 Gennaio 2024

Il libro magico di Thot

libro di thot

Un’avventura ambientata nell’antico Egitto dei Faraoni, ritrovata su un papiro del III secolo a.C. la storia di khaemwaset e del libro magico di Thot

Nel XIII secolo a.C. viveva Khaemwaset, chiamato anche Setne, principe d’Egitto della XIX dinastia, nonché figlio del faraone Ramses II. Costui era gran sacerdote di Ptah, dio creatore del sapere, dell’architettura e dell’arte, ma si trattava di un prestigio secondario, in confronto alla fama che il principe si era creato grazie alla sua vita avventurosa. Setne era infatti un avventuriero, esploratore d’antiche tombe, nonché abile mago, sempre alla ricerca dei misteri più oscuri della religione egiziana, soprattutto per quanto riguarda gli oggetti magici.

Ed è proprio la ricerca di uno di questi oggetti, un potente libro di magia scritto dallo stesso dio Thot, che portò Setne a scontrarsi con un antico essere soprannaturale: colui che un tempo era umano, ma che divenne eterno grazie alla non-vita.

Questa incredibile storia appartiene ad un ciclo di racconti in lingua demotica realizzati nel III secolo a.C. Il demotico è uno dei vari stadi della lingua egizia, che si è evoluta nel corso del tempo fino all’avvento dell’alfabeto greco. Storie scritte su papiro, ritrovate in uno scrigno nella tomba di un sacerdote sul finire dell’Ottocento: un ritrovamento già di per sé avventuroso, in linea con le atmosfere alla Indiana Jones.

Il racconto inizia con la scoperta della tomba di un antico principe (già antico per Setne, che è vissuto nel XIII secolo a.C. quindi, figuriamoci). Tale principe era Naneferkaptah, vissuto in un lontano passato e sepolto nella necropoli di Menfi. La notizia suscitò l’interesse di Setne, poiché all’interno della tomba si nascondeva il libro magico del dio Thot, oggetto dai poteri straordinari, che avrebbe cambiato la vita di qualsiasi uomo ne fosse entrato in possesso, soprattutto se un grande mago come Setne.

Setne, dunque, si inoltrò nella tomba con suo fratello Inaros, alla ricerca della camera di sepoltura. Una volta raggiunto il luogo, lo vide: il libro magico, che emanava una forte luce. E già qui possiamo scovare un elemento tipico dei fantasy contemporanei, ovvero la presenza di un’aura luminosa intorno all’oggetto magico di turno: una caratteristica tipica di romanzi, film e videogiochi moderni, che già era presente nelle storie fantastiche scritte su papiro, più di 3000 anni fa.

Non appena Setne si avvicinò al libro magico, per prenderlo, accadde un evento soprannaturale: la cosiddetta “maledizione” tipica delle storie a tema “mummie egizie”. Lo spirito di Naneferkaptah si palesò al principe, per difendere il prezioso tomo. E assieme a lui tornò in vita pure la moglie dell’antico principe: Ihuret. I due, però, non avevano intenzione di fare del male a Setne, anzi, volevano metterlo in guardia. Poiché entrambi erano morti proprio a causa di quel libro. E così dicendo, cominciarono a narrare la storia di come furono uccisi dagli dèi.

Innanzitutto, Naneferkaptah e Ihuret erano fratelli. Già. I due erano i soli figli del faraone Merenptah, da sempre innamorati persi l’uno dell’altra. Ma il faraone voleva impedire quell’unione, e dunque li promise in sposa coi rispettivi figli di due suoi grandiosi generali. La figlia Ihuret, però, riuscì a convincere il padre, in realtà anche piuttosto facilmente, solo parlandoci, e il faraone acconsentì al matrimonio tra consanguinei.

Naneferkaptah e Ihuret si sposarono. Ricevettero i doni d’argento e d’oro di tutti i cortigiani, e dormirono assieme, quella notte, ed ebbero rapporti, ancora e ancora, e si amarono fino all’alba. Inutile dire che Ihuret rimase incinta e dopo 9 mesi partorì Merib il loro bellissimo figlio. Insomma, tutto andava a meraviglia, fratello e sorella si amavano, col consenso di tutti, il figlio cresceva, e tutto andava bene. Senonché Naneferkaptah aveva una strana passione, ovvero quella di esplorare le tombe degli antichi faraoni nel deserto di Menfi (antichi per loro, che stanno raccontando la storia a Setne, che li ritiene antichi, il quale è vissuto 3000 anni fa. Io trovo estremamente affascinante il fatto che per quanto si vada indietro nel tempo, c’è sempre qualcosa di più “antico”).

Durante una celebrazione religiosa, Naneferkaptah fece la conoscenza di un misterioso sacerdote di Ptah, il quale gli rivelò l’esistenza di un libro magico potentissimo, scritto dallo stesso dio Thot. Un libro entro il quale vi erano scritte due formule magiche. La prima avrebbe permesso di incantare il cielo, la terra, l’aldilà, le montagne e i mari, consentendo di conoscere tutto ciò che sanno gli uccelli, i rettili, i pesci, e gli animali della terra. La seconda formula, invece, avrebbe permesso di vedere lo stesso Ra, quando appariva nel cielo con la sua Enneade, al sorgere della luna.

L’enneade è un’insieme di dèi egizi, solitamente nove, la cui composizione varia a seconda del tempo. Il riferimento, qui, è di natura cosmica: vedere Ra e gli dèi nel corso di un evento, probabilmente il sorgere, o il tramontare del sole, avrebbe consentito di raggiungere l’apice della conoscenza umana. Nonché fornire ispirazione per le storie horror contemporanee, perché personalmente, tutto questo non fa che ricordarmi in maniera esagerata lo scrittore novecentesco H.P. Lovecraft, con i suoi miti di Cthulhu. Di sicuro, conosceva questa storia.

Naneferkaptah pagò questo sacerdote per farsi indicare la posizione del libro, e venne a sapere che si trovava nel mezzo del mare di Copto, dentro una scatola di ferro. E credo faccia riferimento al Nilo, nei pressi dell’antica città di Copto. Perciò Naneferkaptah chiese una nave al faraone e con tutta la sua famiglia, moglie e figlio al seguito, si mise in viaggio alla ricerca del libro di Thot. Una volta raggiunta la destinazione, scese sulla sponda del Nilo e si fece portare tantissima cera. Con quella Naneferkaptah, che era un grande mago, realizzò una nave, modellando marinai e rematori. Diede loro la vita, soffiando l’alito dell’esistenza e recitando una formula, e poi chiese loro di farsi portare fino al luogo dove era sommerso il libro. La nave di cera navigò fino al luogo designato, dove Naneferkaptah gettò della sabbia, aprendo così le acque. Il fondo del Nilo fu rivelato, mostrando una sterminata quantità di serpenti, scorpioni e ogni tipo di rettili pericolosi che stavano lì, a guardia dell’oggetto magico. Ma Naneferkaptah sapeva già cosa fare, e forse lo sanno anche coloro che hanno ascoltato per intero il mio podcast “Storia della Magia” e, nello specifico, l’episodio dedicato ai papiri magici dell’Antico Egitto, dove sono presenti numerosi incantesimi per liberarsi degli animali pericolosi.

Naneferkaptah scese quindi sul fondo libero dagli scorpioni e dai serpenti, ma si trovò di fronte un nuovo avversario, qualcosa decisamente peggiore di qualche scorpioncino: il serpente dell’eternità. Non credo si tratti nello specifico dell’uroboro, il serpente che si morde la coda, ma piuttosto di un mostro letteralmente eterno, ovvero che non può morire, a meno che non si conosca il suo punto debole. Naneferkaptah, infatti, combatté col mostro e lo uccise sul fondo del Nilo, ma questo ritornò in vita. Combatté ancora e questo tornò di nuovo in vita. La terza volta, il mago ebbe la geniale idea di farlo a pezzi e di gettare sabbia tra un pezzo e l’altro, in modo da impedirgli magicamente di ricongiungere i vari pezzi.

Sgominati tutti gli avversari, il mago trovò il luogo in cui era custodita la scatola di ferro che custodiva l’oggetto magico. E questo merita una piccola parentesi, poiché il ferro, all’epoca, non esisteva. O, meglio, non era possibile forgiare oggetti in ferro con le tecnologie disponibili, a meno che il ferro non fosse di origine meteorica, ovvero caduto dal cielo con un meteorite. Perché la difficoltà stava nel raggiungere le temperature elevatissime necessarie per creare una buona materia prima, priva di impurità, partendo dai minerali. Il classico lingotto di ferro, per intenderci, non era possibile realizzarlo, a meno che, appunto, non si prendeva del ferro già pronto e privo di impurità: l’unico modo per ottenerlo era reperirlo dallo spazio. Questa parentesi per specificare quanto fosse preziosa una scatola di ferro nel XIII secolo a.C., sempre che non fosse un’invenzione fantasiosa di questo racconto che, ricordiamolo, è stato scritto nel III secolo a.C.

Ma insomma, speculazioni a parte, Naneferkaptah aprì la scatola di ferro e al suo interno trovò una scatola di bronzo. Aprì la scatola di bronzo e al suo interno trovò una scatola di legno. Dentro quella di legno ce n’era una d’avorio, dentro quella d’avorio ce n’era una d’ebano, e poi argento, oro e, infine, lui: il libro. Senza indugio Naneferkaptah lo aprì e pronunciò subito la formula magica per incantare il cielo, la terra, l’Aldilà, le montagne, i mari, e scoprì tutta la conoscenza degli uccelli, dei pesci e degli altri animali della terra. Poi recitò la seconda formula. Così fu spettatore della nascita del sole e della luna, della vera natura delle stelle. Vide gli dèi, e loro videro lui. Cosa non proprio positiva, come Lovecraft insegna.

Il dio Thot era adirato con Naneferkaptah per avergli preso il libro e, soprattutto, per averlo usato. Ne parlò con il dio Ra, dicendogli che il mago umano gli aveva rubato il libro e ucciso il suo guardiano, ovvero il serpente dell’eternità. Allora Ra, rispose che quel libro era di Thot, e che suo sarebbe rimasto, assieme a ogni persona che ne era entrata in contatto.

Si dà il caso, che Naneferkaptah, quel libro, lo aveva sbandierato a tutta la famiglia. Aveva fatto incantare il cielo, la terra, eccetera eccetera a sua moglie, la sorella, e pure al figlio. Ed ecco che quest’ultimo, per primo, subì l’ira degli dèi. Poiché dopo che Ra si pronunciò, il bambino cascò in acqua. E morì. Naneferkaptah corse sulla sponda del Nilo, ormai divenuto un mago potentissimo incantò il fiume e tolse l’acqua per recuperare il cadavere. Lo portò sulla sponda e con un rito di necromanzia, ovvero di divinazione dei morti, chiese al figlio cosa fosse successo. E il figlio gli rispose che Ra aveva emesso sentenza. Il mago Naneferkaptah, adesso, sapeva di essere in guerra con Thot e tutti gli dèi.

Marito e moglie tornarono a Copto per seppellire il figlio, lo fecero imbalsamare come un principe e una persone importante, quindi lo posarono in un sarcofago. Poi se ne tornarono in nave, per riprendere la via di casa. Nello stesso punto in cui era annegato il figlio, però, cadde anche la moglie. Naneferkaptah, distrutto dal dolore, ripescò il corpo svuotando il Nilo, rianimò lo spirito per farsi raccontare cosa era successo, la portò alla necropoli di Copto, la imbalsamò, e la seppellì in un sarcofago, nella stessa tomba del piccolo Merib, il figlio. Ed ecco che Naneferkaptah salì di nuovo a bordo, da solo, consapevole che presto sarebbe toccato a lui. Allora si legò il libro al corpo con una benda forte, scese in acqua, e annegò. A quanto pare, i figli dei faraoni non nuotavano granché bene.

La nave tornò dal faraone, vuota, senza più alcun figlio e nemmeno il nipote. L’intero regno si mise a lutto, ma dietro il timone della nave fu fatta una scoperta incredibile: il corpo di Naneferkaptah era rimasto impigliato là sotto, e quindi era possibile seppellirlo religiosamente. Si trattava ovviamente di uno degli ultimi incantesimi del mago, anzi l’ultimo, quello di farsi ritrovare dopo essere annegato. Costruirono la sua tomba a Menfi, dove lo seppellirono col suo libro di magia, rubato al dio Thot.

Ed ecco cosa accadde ai figli del faraone, dopo aver ritrovato il libro magico di Thot. Dinnanzi a questa storia, narrata dai due spiriti, nella tomba sotterranea, il principe Setne rimase stupito, ma i suoi intenti rimasero gli stessi. Egli voleva il libro per sé, dando inizio a una nuova spirale di sofferenza. Ma questa, è un’altra storia.

Se le antiche maledizioni egizie ritrovate nei papiri nascosti all’interno di scatole di ferro, a loro volta nascoste all’interno di misteriose tombe, ti hanno appassionato, mi raccomando seguimi e condividi questa storia con le altre amorevoli personcine della tua cerchia di fanatici che non vedono l’ora di evocare grandi antichi e dèi infuriati come in un racconto di Lovecraft. Alla prossima.

Lorenzo Manara
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