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25 Luglio 2023

Il cacciatore dall’Oltretomba: la maledizione del prete-cane

prete-cane william of newburgh

Un’avventura nel cimitero del monastero di Melrose, in Scozia, narrata da William of Newburgh: il ritorno del prete-cane

In una delle fosse del cimitero medievale di San Michele, ad Alghero, è stato ritrovato lo scheletro di una donna morta di peste1. Assieme a lei molti altri corpi, tutti presumibilmente colpiti dal morbo che nel Cinquecento dilagò per la città. Tuttavia, nonostante l’ampio campionario funebre, l’attenzione degli archeologi si è rivolta a quel singolo mucchietto d’ossa femminili, imprigionate sottoterra per l’eternità: la donna infatti portava un massiccio collare di ferro.

Una delle ipotesi che hanno formulato gli esperti vede il collare come rimedio taumaturgico attribuibile a San Vicinio, il santo che esorcizzava i fedeli apponendo una catena al collo. Una reliquia venerata ancora oggi nella Basilica di Sarsina e utilizzata per preghiere di liberazione ed esorcismi.

Un’altra ipotesi, certamente più macabra, vede il collare di ferro semplicemente per quello che è: uno strumento utile a imprigionare il corpo e tenerlo bloccato sottoterra. Un metodo per impedire il ritorno dei morti.

A Venezia, sull’isola del Lazzaretto Nuovo, in un cimitero cinquecentesco stracolmo di defunti appestati, un altro ritrovamento ha sorpreso gli archeologi. Questa volta non un collare, ma un mattone ficcato a forza tra i denti del cadavere, ancora una volta di donna, ancora una volta per impedire qualcosa: che ella utilizzasse la mandibola per mordere il sudario, uscire dalla tomba e vagare tra i vivi in cerca di carne, spargendo il morbo per la città.

La paura del ritorno dei morti è frequente in tutte le epoche. Il concetto stesso di resurrezione è uno dei principi fondanti della religione più diffusa al mondo, il Cristianesimo, che ruota attorno alla figura di Gesù Cristo e al suo sacrificio per la salvezza dell’umanità intera. Ma non solo. Nella Bibbia sono presenti altri personaggi in grado di riportare in vita i morti, come la strega di Endor (da cui deriva la figura dell’ancor più terribile necromante Erictho, un’orrenda strega di Tessaglia di cui parlo in un episodio del podcast Storia della Magia), e gli apostoli stessi, che nel vangelo di Matteo sono invitati a diffondere la parola di Dio tramite prodigi e miracoli. 

“Guarite gli infermi, risuscitate i morti, sanate i lebbrosi, cacciate i demoni. Gratuitamente avete ricevuto, gratuitamente date.”

Matteo 10:8

Tuttavia, l’accezione positiva della religione cristiana sul tema non sempre è riuscita a scalzare le reminiscenze pagane, e le stesse superstizioni che si nascondevano in seno alla nuova religione.

In Irlanda, nell’VIII secolo, due uomini furono seppelliti alla stessa maniera della donna veneziana, ma con una grossa pietra fra i denti, ficcata così violentemente da provocare la lussazione della mandibola2. Questa soluzione ricade nel folclore irlandese e nella credenza dei revenant, i ritornanti: morti che risorgono dalle tombe per tormentare i vivi. Superstizioni che neppure la dottrina cristiana ben radicata nell’isola era riuscita a estirpare. 

La posizione della Chiesa per tutto il Medioevo sull’argomento “magia” era abbastanza unitaria sotto questo punto di vista. Da sant’Agostino a Tommaso d’Aquino la risposta era semplice: gli uomini non possono compiere stregonerie e neppure miracoli (i quali, nel caso, sono concessi solo ai santi). Questa era la posizione dominante che perdurò fino al tardo medioevo. Ma nonostante questo, le leggende sui morti viventi non smisero mai di diffondersi. Tra coloro che hanno contribuito a questa spaventosa letteratura, spicca William of Newburgh, che nel XII secolo descrisse alcuni macabri accadimenti che scossero la Gran Bretagna, tra omicidi e cadaveri riemersi dal sottosuolo. L’autore, però, si sofferma brevemente a riflettere sulla natura degli eventi, prima di regalarci uno degli episodi più fantastici e avventurosi delle cronache medievali. Il suo dubbio ricade sul fatto che nell’Antichità, di cadaveri che uscivano dalla tomba per terrorizzare i viventi, non se ne parlava molto. Egli dice di non aver trovato testimonianze, a riguardo, nelle opere degli autori antichi, “la cui grande fatica fu di scrivere ogni avvenimento degno di memoria; perché se non trascuravano mai di registrare anche eventi di moderato interesse, come avrebbero potuto sopprimere un fatto così sorprendente e insieme orribile?”

“Non sarebbe facile credere che i cadaveri dei morti escano (non so per quale fenomeno) dalle loro tombe, per vagare terrorizzando o uccidendo i vivi, e poi tornare di nuovo alla tomba, che spontaneamente si apre per riceverli, se non ci fossero esempi frequenti, che si verificano ai nostri tempi, per stabilire questo fatto, della cui verità vi è abbondante testimonianza. Sarebbe strano che cose del genere fossero accadute prima, poiché non se ne trovano testimonianze nelle opere degli autori antichi, la cui grande fatica fu di impegnare a scrivere ogni avvenimento degno di memoria; perché se non trascuravano mai di registrare anche eventi di moderato interesse, come avrebbero potuto sopprimere un fatto così sorprendente e insieme orribile, supponendo che fosse accaduto ai loro tempi? Inoltre, se io scrivessi tutti i casi di questo genere che ho accertato essere avvenuti nei nostri tempi, l’impresa sarebbe oltre misura laboriosa e faticosa; quindi volentieri ne aggiungerò altri due soli (e questi di recente occorrenza) a quelli che ho già narrato, e li inserirò nella nostra storia, come l’occasione offre, come monito per i posteri.”

Historia regum anglicarum, William of Newburgh, Capitolo 24: Di certi prodigi

Insomma, se gli autori antichi erano così bravi a registrare tutto, come mai avevano tralasciato fatti così straordinari? William of Newburgh crede, quindi, che “le notti dei morti viventi” siano cominciate con la sua epoca, densa di abbondanti testimonianze sui cadaveri fuoriusciti dalle tombe, fornendo un appiglio per coloro che verranno dopo e descriveranno il Medioevo come un’epoca buia, superstiziosa e, in questo caso, horror. 

La storia che meglio rappresenta queste atmosfere dark, e anche la più avventurosa tra i resoconti del prete di Newburgh, vede come protagonista un altro prete soprannominato “Hundeprest” o “dog-priest”, che possiamo tradurre in italiano come il “prete-cane”: un cacciatore dall’Aldilà.

“Quest’uomo, avendo poco rispetto per l’ordine sacro a cui apparteneva, era eccessivamente laico nelle sue occupazioni e (ciò che in particolare annerisce la sua reputazione di ministro del santo sacramento) così dedito alla vanità della caccia da essere designato da molti con l’infame titolo di “Hundeprest”, o prete-cane; e questa occupazione, durante la sua vita, fu derisa dagli uomini o considerata in una visione mondana; ma dopo la sua morte, come mostrò l’avvenimento, ne fu messa in luce la colpevolezza: perché, uscendo di notte dal sepolcro, gli fu impedito dalla meritoria resistenza dei suoi sacri compagni di ferire o atterrire chiunque fosse nel monastero; dopodiché vagò oltre le mura e si librava principalmente, con forti gemiti e orribili mormorii, intorno alla camera da letto della sua ex padrona. Ella, dopo che ciò avvenne sovente, essendosi molto atterrita, rivelò i suoi timori a uno de’ frati che la visitavano per gli affari del monastero; chiedendo, piangendo, che pregassero in maniera più fervente del solito, per lei. Della cui ansia il frate, che pareva meritevole de’ migliori sforzi, da parte del santo convento di quel luogo, per le sue frequenti donazioni, pietosamente e giustamente simpatizzò, e promise pronto rimedio attraverso la misericordia del più misericordioso di tutti.”

“Alcuni anni fa il cappellano di una certa illustre signora, abbandonata la mortalità, fu consegnato alla tomba in quel nobile monastero che si chiama Melrose.” Il resoconto comincia così, con la morte di un prete, sepolto in un monastero oggi conosciuto come l’abbazia di Melrose, in Scozia. Luogo meraviglioso da visitare, ancor di più conoscendo il macabro episodio che si consumò tra le croci di pietra del suo cimitero, sul finire del XII secolo.

Perché quel prete era stato un gran peccatore, in vita, poco rispettoso per l’ordine sacro a cui apparteneva, e ciò che particolarmente anneriva la sua reputazione di ministro del santo sacramento era la dedizione alla vanità della caccia. Quel prete era un appassionato cacciatore, così tanto che il suo soprannome lo si deve proprio a quello: prete-cane, come un segugio sempre in cerca di leprotti nel bosco.

La posizione della Chiesa riguardo la caccia non era ufficialmente contrastante, ma si tendeva a sconsigliare una pratica così violenta soprattutto quando diventava un passatempo, e quindi, un peccato. Molti autori tra cui spicca Tommaso d’Aquino, si scagliarono in maniera ancor più decisa contro la caccia signorile, equiparandola alla guerra in quanto violenza gratuita. Ed effettivamente era proprio così: un allenamento per tutti quei cavalieri e masnadieri che volevano menar di spada, di tanto in tanto, in sella al destriero, anche in tempo di pace.

Ed è per questo che il prete-cane, dopo la sua morte, se ne uscì dalla tomba, afflitto dal peccato che aveva annerito la sua anima. Emergeva dalla terra del cimitero adiacente al monastero, per vagare oltre le mura, “con forti gemiti e orribili mormorii”, giungendo fino alla camera da letto della sua signora, la castellana che aveva servito come parroco e, forse, azzardo io, in qualche altra maniera. Perché come nelle molte storie narrate da William of Newburgh, che ho già raccontato nel precedente episodio di Leggende Affilate, i morti viventi sembrano parecchio interessati alle donne e ai loro letti.

La signora, spaventata, accortasi del prete zombie che aveva cominciato ad aggirarsi fuori dalla sua camera, di notte, qualche giorno dopo si confidò con uno dei monaci di Melrose. Lo pregò di rivolgersi al Signore, e salvarla da quel pericolo mortale. Il monaco, che aveva in gran considerazione la donna (anche per via delle sue frequenti e generose donazioni) promise “pronto rimedio attraverso la misericordia del più misericordioso di tutti.”

Tornato al monastero, chiese aiuto a un fratello altrettanto risoluto e ad altri due forti giovani, per formare un gruppo di arditi eroi e montare la guardia nel cimitero, dove giaceva sepolto quel misero prete-cane. I quattro si equipaggiarono con armi, delle quali ci viene descritta solo una in particolare, ovvero un’ascia, brandita dal capo di questi sacri compagni: lo stesso monaco che ha accolto la richiesta della signora e che ha deciso di frapporsi alla minaccia dall’Oltretomba con un’arma semplice, da lavoratore, ma perfetta per smembrare morti viventi.

Armati di ferro e coraggio, i quattro si piazzarono nel cimitero, poco prima del tramonto, e attesero. Attesero a lungo, fino alla mezzanotte, ma nessun prete-cane risorse dalla tomba. Perciò, nel gruppo cominciò a diffondersi la stanchezza, e l’idea che, forse, quella visione cadaverica era stata tutta un’invenzione: un incubo notturno della signora del castello. In tre, quindi se ne andarono a letto nella casa più vicina, per riscaldarsi dopo una notte così fredda, lasciando da solo colui che li aveva chiamati in aiuto, il monaco con l’ascia. Un evento che il Diavolo, come dice l’autore, aveva previsto e stava aspettando per ordire il suo piano malefico, e spezzare il coraggio del singolo al momento giusto, rianimando il corpo prescelto…

Non appena il monaco rimase solo, il prete-cane emerse dalla tomba e si scagliò su di lui. Vedendolo attaccare “con rumore terribile”, il monaco dapprima si irrigidì dal terrore, ma visto che non aveva alcun luogo dove fuggire, recuperò il coraggio e brandì la sua ascia, per difendersi. Appena il dannato si fece vicino, il monaco gli piantò un colpo d’ascia in corpo, in profondità. E a questo punto, succede qualcosa che non ci aspetteremmo affatto da un’entità soprannaturale.

Il prete cane, nel vedere la ferita, gemette forte, voltò le spalle e fuggì. Cominciò quindi un inseguimento tra le lapidi del cimitero del monastero di Melrose, dove un dannato con uno squarcio sanguinante nel corpo se la dava a gambe, inseguito da un monaco armato d’ascia, che per giunta lo incitava a fuggire, comandandogli di tornarsene nella tomba. Ed è proprio quel che fece il prete-cane: la terra si aprì sotto di lui, e il prete cane scomparve di sotto.

Nel frattempo, i tre compagni che si erano ritirati poco lontano, sentirono il gran trambusto provenire dal cimitero e accorsero a vedere. Si fecero raccontare tutto dal coraggioso monaco e, insieme, decisero di scavare la tomba e tirar fuori il morto, per sistemare la faccenda una volta per tutte.

Lo trovarono alle prime luci dell’alba, con una profonda ferita e il sepolcro pieno di sangue sgorgato dallo squarcio d’ascia. Lo tirarono fuori, lo portarono via dal monastero e misero in atto la soluzione definitiva, la più comune in queste storie di morti viventi: un bel falò d’ossa. Arsero il corpo maledetto, dispersero le ceneri nel vento, e da quel giorno, del prete-cane, non se ne seppe più nulla.

Una storia meravigliosa, ricca d’azione e avventura, tra le mie preferite, nonché motivo d’ispirazione per i miei romanzi. Il fuoco purificatore è presente in modo importante ne La Stirpe delle Ossa, mentre ho citato lo stesso prete cane in maniera poco velata nel mio secondo romanzo, di prossima uscita, assieme alle atmosfere macabre da notte dei morti viventi. Se questa cronaca, che William of Newburgh ci tramanda in quanto resoconto attendibile, ti ha appassionato, mi raccomando, seguimi.

“Allora, ritornato al monastero, ottenne la compagnia di un altro frate, di animo altrettanto risoluto, e di due giovani potenti, con i quali intendeva con costante vigilanza custodire il cimitero dove giaceva sepolto quel misero prete. Questi quattro adunque, forniti d’armi e animati di coraggio, passarono la notte in quel luogo, sicuri dell’assistenza che ciascuno prestava all’altro. La mezzanotte era ormai passata e nessun mostro apparve; al che avvenne che tre del gruppo, lasciando solo lui che aveva cercato la loro compagnia sul posto, se ne andarono nella casa più vicina, allo scopo, come affermarono, di riscaldarsi, poiché la notte era fredda. Non appena quest’uomo fu lasciato solo in questo luogo, il diavolo, immaginando di aver trovato il momento giusto per spezzare il suo coraggio, incontinentemente rianimò il corpo prescelto, che sembrava aver riposato più del solito. Vedendolo da lontano, si irrigidì di terrore per il fatto di essere solo; ma presto recuperando il suo coraggio, e nessun luogo di rifugio a portata di mano, resistette valorosamente all’attacco del demone, che si precipitò su di lui con un rumore terribile, e colpì l’ascia che brandiva in mano nel profondo del suo corpo. Nel ricevere questa ferita, il mostro gemette forte e, voltando le spalle, fuggì con una rapidità per nulla interna a quella con cui era avanzato, mentre l’uomo ammirabile incitava il suo nemico volante da dietro e lo costringeva a cercare la propria tomba; la qual apertura di propria volontà, e ricevendo il suo ospite dall’avanzata dell’inseguitore, parve subito richiudersi con la stessa facilità.
Frattanto quelli che, impazienti del freddo della notte, si erano ritirati presso il fuoco, accorsero, anche se un po’ troppo tardi, e, saputo ciò che era accaduto, prestarono la necessaria assistenza per scavare e rimuovere dal mezzo della tomba il cadavere maledetto alle prime luci dell’alba. Quando lo ebbero spogliato dell’argilla gettata via con esso, trovarono l’enorme ferita che aveva ricevuto e una grande quantità di sangue che ne era sgorgato nel sepolcro; e così, portatolo via oltre le mura del monastero e bruciato, ne dispersero le ceneri ai venti. Queste cose le ho spiegate in una semplice narrazione, come io stesso le ho sentite raccontare da uomini religiosi.”

  1. Museo di Alghero
  2. Chris Read, direttore degli scavi, Applied Archaeology IT Sligo
Lorenzo Manara
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