L’eroe medievale: dalla battaglia al sacrificio
Il sacrificio dell’eroe medievale: le imprese di guerra fra realtà storica e finzione letteraria alle origini della narrativa fantastica
Le grandi storie sono spesso legate a una tematica di elevata potenza drammaturgica, in grado di emozionare l’umanità fin dai tempi antichi: il sacrificio. Che si tratti di un semidio greco-romano, di un martire cristiano, di un eroe medievale, oppure del protagonista di un moderno videogioco come Dark Souls, l’immolazione di colui che rinuncia alla propria vita risuonerà nel profondo del nostro animo, è garantito.
Perché sappiamo bene quanto sia preziosa la vita, qualunque sia la nostra cultura, ed è per questo che proviamo empatia verso coloro che si sacrificano al fine di ottenere un bene superiore. Un aspetto che troviamo di frequente nell’ambito della guerra e delle imprese storiche leggendarie, le stesse di cui mi occupo in questo angolino di web e nei miei romanzi, come l’ultimo che sta per vedere la luce in libreria, “La Stirpe delle Ossa”, il cui fulcro narrativo è proprio il grande tema del sacrificio.
Fin dagli albori della civiltà romana si narra di comandanti che si sono immolati secondo il rituale della devotio: tre furono i condottieri che nella storia dell’Antica Roma scelsero di rinunciare alla propria vita, in sella al destriero, lanciati contro il nemico per ottenere il favore divino (per approfondire, leggi l’articolo “I sacrifici nell’antichità, dalla devotio ai druidi”). Il loro sacrificio li innalzava a semidei della mitologia classica come Eracle, Achille, Orfeo, Giasone, diventando un esempio virtuoso perfino in ambito cristiano. L’eroe medievale deve infatti la sua nascita alla forma primordiale di sacrificio eroico: quello del martire.
Agostino recita “I Decii con determinate parole si offrirono in certo senso ad essere uccisi affinché, placatasi con la loro morte l’ira degli dei, l’esercito romano riuscisse a liberarsi. Dunque i santi martiri non dovranno insuperbire(…) se hanno combattuto fino allo spargimento del sangue, perché con la fede della carità e con la carità della fede amavano, come è stato loro comandato, non solo i propri fratelli, per i quali il loro sangue era versato, ma anche i nemici, dai quali esso era versato1”.
La devotio dei comandanti romani forniva, dunque, un esempio positivo per la dottrina cristiana, un fondamento all’origine delle storie di tortura, morte e violenza dei martiri dell’Antichità, tra i quali figuravano anche soldati delle legioni imperiali.
Teodoro d’Amasea, per esempio, fu un martire guerriero le cui imprese risuonarono fino all’età moderna. Definito da Anna Comnena “il più grande tra i martiri”2 era celebre per aver sterminato, quattro secoli prima di San Giorgio, un grande e terribile drago che terrorizzava l’Asia Minore. Del martire divenuto eroe medievale esistono varie rappresentazioni in Italia, come la statua trecentesca (assemblata con parti d’età classica) in cima a una delle due colonne di piazzetta San Marco, a Venezia, che calpesta un drago dalle sembianze di coccodrillo. Per difendere la fede nell’unico Dio cristiano, Teodoro l’ammazzadraghi subì una scarnificazione con affilati uncini di ferro e morì sul rogo.
L’aspetto religioso è fondamentale per definire l’eroe medievale: un guerriero, prima di tutto, votato alla fede in Dio e solo successivamente all’amore per una donna. La grande spinta che, nei primi secoli del Medioevo, permetteva ai cavalieri di compiere straordinarie gesta proveniva dall’insieme dei più alti valori sociali e culturali intrisi di spiritualità cristiana: un prodotto di ideali molto più vicini ai santi e ai martiri piuttosto che agli eroi della mitologia greco-romana e ai cavalieri cortesi dal XII secolo in poi.
Perché se in un primo momento la Chiesa si era schierata contro la guerra, a un certo punto della storia mutò completamente la propria concezione, accogliendo lo scontro d’armi come uno strumento di risoluzione accettabile e investendolo, addirittura, di vera e propria sacralità, come avvenne con le guerre sante, le crociate.
Le origini dell’eroe medievale, quindi, non si fondano sull’amore per una donna, come saremmo portati a pensare, ma su una forte devozione militare. Esattamente come avviene in una tra le opere più significative del ciclo carolingio e della storia letteraria medievale: la Chanson de Roland (la Canzone di Orlando o Rolando), concepita nel quadro di valori idealizzati come la forza di volontà, l’onore, la fedeltà e, per l’appunto, la fede.
L’episodio della morte di Orlando rappresenta alla perfezione il concetto di sacrificio dell’eroe medievale. Dopo aver accettato di condurre la retroguardia dell’esercito di Carlo Magno nella lunga ritirata dalla Spagna araba all’impero dei Franchi, il prode Orlando si ritrova, assieme ai Dodici Pari, ovvero i paladini che lo accompagnano nelle sue imprese, preda di un ingente attacco nemico.
Perché fra gli stessi paladini vi è un traditore, Gano di Maganza, che ha voltato le spalle al proprio condottiero e all’imperatore stesso per cogliere di sorpresa l’esercito franco nei pressi di Roncisvalle. Proprio come nel racconto biblico dei dodici apostoli, traditi assieme al Cristo da un loro stesso fratello, anche i dodici paladini di Orlando subiscono il piano malvagio del loro compagno d’armi.
Orlando sceglie di affrontare il nemico con la sola forza dei suoi dodici paladini e della retroguardia. Potrebbe chiamare i rinforzi dell’imperatore suonando l’olifante, lo straordinario corno, ma tale atto porterebbe al disonore. Per sua volontà, quindi, l’intera retroguardia viene spazzata via dai saraceni, e i paladini muoiono uno dopo l’altro. Al termine della battaglia rimane solo Orlando, ferito a morte. A quel punto, assolto il dovere di comandante della retroguardia, decide di suonare il corno per richiamare Carlo Magno.
“Rolando sente la morte vicina, gli esce fuori il cervello dagli orecchi. Prega Dio ch’egli accolga i suoi compagni e per sé prega l’angelo Gabriele. Prese il corno, che biasimo non abbia, con l’altra mano Durendal, la spada. Per poco più d’un tratto di balestra cammina verso Spagna in mezzo a un prato; sale su un colle; sotto due begli alberi quattro massi vi sono, duro marmo. Sull’erba verde è caduto riverso: e sviene, che la morte gli è vicina.”
Orlando, col cervello che gli esce dagli orecchi per aver appena suonato l’olifante, prega Dio di accogliere i Dodici Pari in cielo e, Durendal in pugno, si rivolge a ovest, verso la Spagna, la terra che, infine, lo sta per uccidere. Sviene sul terreno, ma la sua ora non è ancora giunta, perché come Boromir della Compagnia dell’Anello di Tolkien (e di analogie con “Il Signore degli Anelli” ce ne sono molte altre), Orlando è costretto a combattere ancora, nonostante la stanchezza.
“Un saraceno tien fisso lo sguardo; si finse morto e si stese fra gli altri, il corpo e il viso lordati di sangue. Si rizza in piedi e di corsa si avanza. È bello e forte e di grande valore, e per orgoglio compie una follia. Prese Rolando, il suo corpo con l’armi, e disse: «È vinto il nipote di Carlo! Io porterò questa spada in Arabia!». Un poco il conte rinvenne allo strappo. Rolando sente che prende la spada; dischiuse gli occhi e ha detto una parola: «Per quel che vedo tu non sei dei nostri!». Stringe il corno che perdere non vuole, lo coglie all’elmo con gemme e con oro, spezza l’acciaio e la testa e anche l’ossa; gli ha fatto uscire dal capo i due occhi ed ai suoi piedi l’ha abbattuto, morto. «Servo, – gli dice – tanto audace fosti da prendermi, a diritto oppure a torto? Nessun l’udrà che non t’abbia per folle! È spaccato il mio corno al padiglione e n’è caduto l’oro ed il cristallo».”
Un saraceno ancora vivo, che si era finto morto tra i corpi sparsi sul campo di battaglia, si rizza in piedi e corre verso il paladino per rubargli la spada Durendal. La riporterebbe in Arabia per coprirsi di onori, se non fosse che Orlando ha ancora un briciolo di forza da poter sfruttare. Il prode si alza in piedi e lo uccide: l’ultima fatica prima di abbandonarsi alla preghiera e alla morte.
“Sente Rolando che ha perso la vista, si rizza in piedi, quanto può si sforza; sul suo viso ha perduto il suo colore. Davanti a lui ci sta una pietra bruna. Con pena ed ira batte dieci colpi: stride l’acciaio, non si frange o intacca. «Santa Maria, soccorrimi! – egli disse– Mala fortuna aveste, Durendal! Poiché muoio, di voi non ho più cura. Tante battaglie in campo aperto ho vinto e tante vaste terre conquistate, che tiene Carlo, che ha la barba bianca! Non v’abbia chi davanti a un altro fugga! Un buon vassallo a lungo vi ha tenuta. Non vi sarà l’uguale in Francia santa». Poi sul masso batté di Cerritania. Stride l’acciaio, non si spezza o intacca. E quando vede che non può spezzarla, incomincia a dolersi nel suo cuore: «Ah, Durendal, sei bella e chiara e bianca! Come riluci e splendi contro il sole! Carlo era nelle valli di Moriana e Iddio gli mandò un angelo dal cielo perché ti desse ad uno dei suoi conti: a me la cinse il re gentile, il grande. Con essa conquistai Angiò e Bretagna, con essa conquistai Poitou e Maine, conquistai Normandia, la Terra Franca, e conquistai Provenza ed Aquitania e Lombardia e l’intera Romània; con essa conquistai Baviera e Fiandra e Bulgaria e tutta la Polonia, Costantinopoli, ove ebbe l’omaggio, ed in Sassonia fa quello che vuole. Con essa conquistai Scozia ed Irlanda ed Inghilterra, privato dominio. Con essa conquistai terre e paesi che tiene Carlo, che ha la barba bianca. Per questa spada sento pena e angoscia. Meglio morire che darla ai pagani. Non date a Francia, Dio padre, quest’onta!».”
Orlando tenta di distruggere la spada per non farla cadere in mano nemica. Tuttavia, Durendal è una spada indistruttibile e non si scalfisce neppure sbattendola sui massi, al contrario di alcune spade magiche presenti nella tradizione mitologica norrena, come la spada di Beowulf o la Gramr di Sigurd l’ammazzadraghi (per approfondire, leggi l’articolo: “5 spade leggendarie del Medioevo”).
“Sente Rolando che morte lo prende, giù dalla testa gli discende al cuore. Se n’è andato correndo sotto un pino, sull’erba s’è disteso, il volto a terra. Sotto di sé pone la spada e il corno. Volse la testa alla gente pagana; e per questo l’ha fatto, perché vuole che dica Carlo e tutta la sua gente: nobile conte, è morto vittorioso. Egli dice più volte la sua colpa, per i peccati a Dio tende il suo guanto. Sente Rolando che il tempo è compiuto. Volto alla Spagna, su un colle scosceso, con una mano s’è battuto il petto: «Mia colpa, Dio, di fronte alle tue grazie, dei miei peccati, i piccoli ed i grandi, che ho commesso dall’ora in cui son nato a questo giorno in cui sono abbattuto!». Ha teso il guanto destro verso Dio. A lui scendono gli angeli del cielo. Rolando il conte giacque sotto un pino. Verso la Spagna ha rivolto il suo viso. Di molte cose lo prese il ricordo, di tante terre che vinse da prode, di dolce Francia, di sua chiara stirpe, di Carlomagno, il re che l’ha allevato; rattenere non può pianto e sospiri. Ma di se stesso non vuole scordarsi, dice sua colpa e chiede grazia a Dio: «O vero padre, che mai non mentisti, resuscitasti da morte San Lazzaro e Daniele salvasti dai leoni, salva l’anima mia da ogni pericolo per i peccati che commisi in vita!». Il guanto destro tese verso Dio, San Gabriele l’ha preso di sua mano. Sopra il braccio teneva il capo chino, a mani giunte è venuto alla fine. Iddio mandò dal cielo il Cherubino e insieme San Michele del Periglio, e ci venne con loro San Gabriele. In Paradiso l’anima ne portano.”
Il sacrificio di Orlando, il prototipo di eroe medievale, è servito all’imperatore per guadagnare tempo contro il nemico saraceno, poiché al risuonare dell’olifante i franchi accorsero a Roncisvalle sgominando la minaccia araba.
Dal ciclo carolingio dei paladini Orlando, Oliviero, e lo stesso Carlo Magno, prende vita il personaggio dell’eroe medievale per come lo conosciamo noi, protagonista indiscusso della letteratura dei secoli successivi. Il cavaliere senza macchia e senza paura acquisterà poi una nuova dimensione sentimentale nel ciclo bretone, fra tradimenti e triangoli amorosi consumati nelle sale del castello di Camelot, per arricchire il codice cavalleresco con i precetti d’amor cortese che nel tardo Medioevo oltrepassarono la finzione divenendo realtà.
Nella cronaca di Jean Froissart del XV secolo, ad esempio, quando la cavalleria è ritenuta da alcuni ormai tramontata, si fa menzione di un cavaliere, Sir Regnault de Roye, che al torneo di Saint Inglevert combatté meglio di molti altri cavalieri presenti poiché era “veramente innamorato” di una gentile donzella.
“Sir Regnault lo colpì sullo scudo con una spinta così ferma e potente, sferrato con un braccio così forte (perché era uno dei giostratori più forti e duri in Francia a quel tempo ed era anche veramente innamorato di una giovane allegra e bella signora, e questo contribuì molto al suo successo in tutte le sue imprese)…”
Tale amore lo rafforzava in combattimento, rendendolo un avversario praticamente imbattibile. Un’affermazione che sembrerebbe stonare nell’epoca in cui cominciavano ad affacciarsi le prime armi da fuoco, e le bombarde battevano i campi di battaglia europei. In ogni caso, questa credenza folcloristica proveniva dalla tradizione spirituale e letteraria all’origine dell’eroe medievale: nato semidio, divenuto martire, per poi indossare l’armatura da cavaliere.
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