3 storie di morti viventi medievali
Storie di redivivi, zombie e morti viventi medievali tratte dalla cronaca inglese di William of Newburgh, XII secolo
Le storie avventurose all’insegna di morti redivivi, creature soprannaturali e battaglie tra il bene e il male sono antiche quanto l’uomo. La paura è un’emozione forte, utile ai fini della sopravvivenza, e veicolo conoscitivo molto efficace. Lo sapevano gli autori appartenenti alla cultura greco-romana e pure i cronisti dall’Anno Mille in poi, che grazie ai loro manoscritti ci hanno tramandato un mondo fantastico tutt’oggi in uso.
Io stesso non finisco mai di trovare spunti interessanti per i miei romanzi, nelle cronache, alcuni dei quali provengono da un brillante autore del XII secolo, William of Newburgh, storico e prete agostiniano inglese che ci ha tramandato veri e propri racconti horror all’origine di un grande tema narrativo ancora oggi appassionante: quello dei morti viventi.
Oggi voglio raccontare 3 storie di morti viventi medievali, autentiche, riprese dalla cronaca intitolata Historia rerum Anglicarum o Historia de rebus anglicis, scritta proprio da William of Newburgh: una storia dell’Inghilterra che nasconde al suo interno degli inserti narrativi di letteratura dell’orrore, come li chiameremmo oggi, ma, attenzione, trattati come resoconti attendibili: l’autore li ritiene fatti di cronaca, e non invenzioni. E questo, forse, li rende ancora più inquietanti.
La prima storia vede come protagonista una donna che si ritrova a combattere un marito alquanto molesto. Sembrerebbe una classica situazione famigliare all’insegna di incomprensioni, litigi e tossicità varie, se non fosse che il marito in questione è morto, e pure sepolto.
“A quel tempo, nella contea di Buckingham, accadde una cosa davvero straordinaria. Mi è stata raccontata prima dalla gente del quartiere, e poi più ampiamente da Stefano, un venerabile arcidiacono di quel distretto. Un uomo era morto e sua moglie, una donna onorata, con l’aiuto della sua famiglia, ebbe cura di seppellirlo con i consueti riti nella festa dell’Ascensione del Signore. La notte seguente, però…”
Guglielmo di Newburgh, Historia rerum anglicarum, libro V, Capitolo 22: Del prodigio del morto, che errava dopo la sepoltura
Comincia così il resoconto di cronaca. Con la vedova di ritorno dal funerale, che se ne va a casa, di notte, da sola, e viene svegliata di soprassalto, nel letto, poiché un peso insopportabile la schiaccia: il marito, uscito dalla tomba, se n’è tornato a letto con lei. Forse, una delle scene più potenti della storia medievale. Ma non è finita qui. Il marito cominciò a uscire dalla tomba ogni notte per tornare a letto con la moglie, e la donna, alla terza notte, decise di chiedere aiuto ai vicini, che montarono la guardia con lei, in casa, e non appena la minaccia dall’Oltretomba si ripresentò, la cacciarono via.
Il defunto, vista la guardia montata nella sua vecchia casa, cambiò obiettivo. Si diresse alle case di altri suoi parenti, che abitavano nella stessa strada, ma anche lì trovò pane per i suoi denti imputriditi: seguendo l’esempio della vedova, tutti i parenti avevano cominciato a trascorrere le notti in veglia, in compagnia, pronti ad affrontare il pericolo dell’Aldilà. Il morto vivente provò quindi a entrare in altre case, infastidendo pure le bestie nei recinti. Nel giro di poche notti, nell’intera strada si imbastì una guardia notturna per combattere la minaccia del marito zombie ante litteram. Finché il morto vivente non prese a comparire pure di giorno. Lo faceva solo ad alcune persone, rendendo la vita impossibile agli abitanti di quel sobborgo inglese. E fu così, infatti, che di comune accordo, le vittime di questa infernale maledizione decisero di rivolgersi alla Chiesa. Ed ecco che entra in gioco il venerabile arcidiacono Stefano, che lo stesso autore della cronaca ha conosciuto di persona.
In una riunione del clero presieduta dall’arcidiacono si mise tutto per iscritto, nero su bianco, per richiedere l’attenzione di un ministro gerarchicamente superiore e meglio informato su simili accadimenti soprannaturali. Poiché evidentemente Stefano non si riteneva sufficiente. Quindi una missiva che riportava l’intera storia del marito zombie fu spedita nientemeno che al vescovo, a quel tempo residente a Londra, il quale dopo averla presa in esame decise di convocare un concilio di esperti per raccogliere consigli e suggerimenti.
Alcuni chierici dissero al vescovo “che tali cose erano spesso accadute in Inghilterra, e citarono frequenti esempi per mostrare che la tranquillità non poteva essere restituita agli abitanti di Buckingham finché il corpo di quel miserabile uomo non fosse stato dissotterrato e bruciato.” Ed è proprio vero, in molti resoconti medievali che narrano di risurrezioni e morti redivivi, spesso l’unica soluzione per sbarazzarsi di fastidiosi defunti è quella di bruciarli. Una tradizione conservata nei secoli successivi, giungendo fino ai ruggenti anni settecenteschi che diedero alla luce le prime opere a tema “vampiri”, di cui ne parlo in un altro episodio di Leggende Affilate.
Questo procedimento, però, quello di bruciare un cadavere, parve indecente al reverendo vescovo. Costui, infine, decise di perseguire un’altra strada ovvero quella del perdono. O, meglio, dell’assoluzione. Perché se i morti risorgono e cominciano a dar fastidio ai vivi, vuol dire che c’è qualcosa che li turba. E non è che, per caso, quel qualcosa è un peccato non assolto?
Il vescovo scrisse una lettera di assoluzione indirizzata al morto redivivo, e comandò l’arcidiacono Stefano di dissotterrarlo, porre la lettera sul petto del cadavere, e di ricoprirlo nuovamente con la terra. Ed è proprio così che fu risolta la questione. Dopo aver nuovamente sotterrato la salma, gli attacchi del morto vivente cessarono: la maledizione fu spezzata. E si concluse l’assalto infernale di questo marito un po’ troppo morboso.
“La notte seguente, però, entrato nel letto dove riposava la moglie, non solo la terrorizzò al risveglio, ma la fece quasi schiacciare dal peso insopportabile del suo corpo. Anche la notte successiva afflisse allo stesso modo la donna stupita, la quale, spaventata dal pericolo, mentre si avvicinava la lotta della terza notte, si preoccupò di rimanere sveglia lei stessa e di circondarsi di compagni vigili. Eppure è venuto; ma essendo respinto dalle grida degli astanti, e visto che gli era stato impedito di fare del male, se ne andò. Scacciato così dalla moglie, molestò in modo simile i suoi stessi fratelli, che abitavano nella stessa strada; ma essi, seguendo il cauto esempio della donna, passavano le notti in veglia con i loro compagni, pronti ad affrontare e respingere il pericolo atteso. Sembrava, tuttavia, come con la speranza di sorprenderli se fossero stati sopraffatti dalla sonnolenza; ma essendo respinto dalla prudenza e dal valore degli osservatori, si ribellò tra gli animali, sia all’interno che all’esterno, come testimoniavano la loro ferocia e movimenti insoliti.
Divenuto così un grave fastidio per i suoi amici e vicini, impose a tutti la stessa necessità della vigilanza notturna; e in quella stessa strada si teneva una guardia generale in ogni casa, ciascuno temendo di avvicinarsi inavvertitamente. Dopo aver per qualche tempo insorto in questo modo solo durante la notte, cominciò a vagare all’aperto alla luce del giorno, formidabile sì a tutti, ma visibile solo a pochi; poiché spesso, incontrando un certo numero di persone, appariva solo a una o due, sebbene allo stesso tempo la sua presenza non fosse nascosta agli altri.
Alla fine gli abitanti, allarmati oltre misura, ritennero opportuno chiedere consiglio alla chiesa; e dettagliarono l’intera faccenda, con lamento lamentoso, al suddetto arcidiacono, in una riunione del clero su cui presiedeva solennemente. Al che fece subito presente per iscritto tutte le circostanze del caso al venerabile vescovo di Lincoln, che allora risiedeva a Londra, il cui parere e giudizio su una questione così insolita era giustamente di opinione: ma il vescovo, stupito del suo racconto, condusse un’accurata indagine con i suoi compagni; e c’erano alcuni che dicevano che tali cose erano spesso accadute in Inghilterra, e citavano frequenti esempi per mostrare che la tranquillità non poteva essere restituita al popolo finché il corpo di questo miserabile uomo non fosse stato dissotterrato e bruciato. Questo procedimento, però, parve indecente e improprio in ultimo grado al reverendo vescovo, il quale poco dopo indirizzò all’arcidiacono una lettera di assoluzione, scritta di suo pugno, perché si dimostrasse mediante ispezione in quale stato fosse il corpo di quell’uomo era davvero; e comandò che la sua tomba fosse aperta, e che la lettera fosse stata posta sul suo petto, che fosse di nuovo chiusa: così aperto il sepolcro, il cadavere fu trovato come vi era stato deposto, e deposta la carta dell’assoluzione sul suo petto, e la tomba ancora una volta chiusa, da allora in poi non fu mai più visto vagare, né gli fu permesso di infliggere fastidio o terrore a nessuno.”
Un evento simile accadde a Berwick, nell’estremo nord dell’Inghilterra, in un territorio allora di pertinenza scozzese. In quella città un uomo molto ricco fu sepolto… per poi uscire dalla tomba, la notte seguente. Ed è così che ha inizio la seconda storia di morti viventi medievali. Secondo l’autore della cronaca, il motivo per cui l’uomo uscì dalla tomba era da imputarsi allo stesso Diavolo, poiché tale defunto era stato molto cattivo in vita. Questo zombie medievale cominciò a vagare per le strade, di notte, inseguito da un branco di cani rabbiosi che abbaiavano rumorosamente, e gli abitanti ne furono terrorizzati. La risurrezione durava fino all’alba quando, appena sorgeva il sole, il redivivo se ne ritornava nella tomba.
Le passeggiate notturne del morto vivente durarono diverse notti, e la gente cominciò a barricarsi in casa, senza che nessuno aveva il coraggio di uscire (e già che erano parecchio pericolose le strade, di notte, anche senza non-morti). Ognuno, infatti, temeva d’incontrare questo dannato, quindi i cittadini si riunirono per discutere a riguardo e trovare una soluzione. Le menti più semplici, e ignoranti, suggerivano di non agire affatto, temendo di aizzare ancor di più quel prodigio soprannaturale, e attendere che le cose si sistemassero da sole, così come si erano presentate. I più accorti, invece, dissero che sarebbe stato meglio non ritardare eventuali contromisure, poiché il morto avrebbe infettato l’atmosfera con la sua putrida presenza, generando morte e malattia. Dandoci modo, tramite questo pensiero, di comprendere il paradigma mentale riguardo le malattie e la loro trasmissibilità attraverso l’aria sporca, corrotta, diffuso in larga parte nel Medioevo. La stessa cosa che si sarebbe pensato, qualche secolo più tardi, riguardo la terribile peste trecentesca. Aspetti che mi sono serviti per descrivere dettagliatamente le paure degli abitanti di Malarocca, protagonisti del mio romanzo ambientato in un medioevo italiano.
Per neutralizzare la minaccia soprannaturale, gli abitanti di Berwick decisero di mandare 10 giovani temerari, armati fino ai denti, alla tomba del malvagio redivivo, di giorno, per dissotterrare la salma e farla a pezzi. La smembrarono in molte parti e la diedero in pasto alle fiamme. Dopodiché, gli assalti infernali cessarono. Al contrario del marito zombie di Buckingham, il defunto riccone di Berwick non fu assolto dai suoi peccati, visto che tutti lo ritenevano malvagio fino all’osso. E si optò, quindi, per la sua distruzione. Tuttavia, ci spiega l’autore, poco tempo dopo scoppiò una terribile pestilenza che si portò via gran parte di quegli stessi abitanti, coloro che avevano dato alle fiamme lo zombie. Ancora una volta, le coincidenze prendono la forma di eventi di causa ed effetto, che William of Newburgh sparge abilmente lasciandoci trarre le nostre conclusioni.
“Capitolo 23: Di un evento simile a Berwick Nelle parti settentrionali dell’Inghilterra, inoltre, sappiamo che un altro evento, non dissimile da questo e altrettanto meraviglioso, accadde all’incirca nello stesso periodo. Alla foce del fiume Tweed, e sotto la giurisdizione del re di Scozia, sorge una nobile città chiamata Berwick. In questa città un uomo, molto ricco, ma come poi sembrò un grande furfante, essendo stato sepolto, dopo la sua morte uscì (per l’espediente, come si crede, di Satana) fuori dalla sua tomba di notte, e fu portato di qua e di là, inseguito da un branco di cani che abbaiavano rumorosamente; incutendo così grande terrore nei vicini e tornando alla sua tomba prima dell’alba. Dopo che questo era continuato per diversi giorni, e nessuno osava essere trovato fuori di casa dopo il tramonto – poiché ognuno temeva un incontro con questo mostro mortale – le classi alte e medie del popolo tenevano un’indagine necessaria su ciò che era necessario per ha fatto; i più semplici tra loro temendo, in caso di negligenza, di essere sonoramente battuti da questo prodigio della tomba; ma i più accorti concludessero che se un rimedio fosse ulteriormente ritardato, l’atmosfera, infettata e corrotta dai continui vortici attraverso di essa del cadavere pestifero, genererebbe malattia e morte in gran parte; la necessità di provvedere contro la quale è stata dimostrata da frequenti esempi in casi simili. Si procurarono quindi dieci giovani rinomati per arditezza, i quali dovevano dissotterrare l’orribile carcassa e, dopo averla tagliata membro per membro, ridurla in cibo e combustibile per le fiamme. Quando ciò fu fatto, il trambusto cessò. Inoltre, si afferma che il mostro, mentre veniva portato in giro (come si dice) da Satana, aveva detto a certe persone che aveva incontrato per caso, che finché fosse rimasto intatto il popolo non avrebbe avuto pace. Essendo bruciati, la tranquillità sembrava essere loro restituita; ma una pestilenza, che sorse in conseguenza, portò via la maggior parte di loro: poiché mai infuriò così furiosamente altrove, sebbene fosse allora generale per tutti i confini dell’Inghilterra, come sarà spiegato più ampiamente a suo luogo.”
La terza e ultima di queste storie di morti viventi medievali accadde nel castello di Anantis, all’incirca nello stesso periodo: una storia che fu raccontata al cronista da un vecchio monaco, e dunque, una fonte autorevole e tanto basta, secondo la visione delle cose dell’epoca.
Anantis è un luogo perduto, poiché oggigiorno non figura in nessun territorio del Regno Unito. Alcuni storici assimilano Anantis alla città di Annan, in Dumfriesshire, Scozia, dove si registra la presenza di un castello in tempi medievali. Ma sono solo ipotesi. E’ probabile che sia davvero un luogo perduto, come ce ne sono un’infinità in tutto il mondo, proprio come l’ambientazione del mio primo romanzo, La Stirpe delle Ossa, dove s’inscenano vita, morte e misteri di un frammento d’Italia trecentesca cancellato dalla memoria.
Un certo uomo di cattiva condotta (ovvero, un criminale), fuggì dai suoi nemici e dalla legge stessa per stabilirsi nel suddetto castello di Anantis, trovando lavoro presso il signore del luogo. Ma non si trattava di una fuga di redenzione, poiché cominciò a comportarsi ancora una volta in maniera spregevole, soprattutto dopo la sua morte.
Già, perché subito dopo aver preso moglie, il criminale cominciò a rodersi dal dubbio, preoccupato che lei lo tradisse. Un giorno finse di dover cominciare un lungo viaggio, ma invece di partire si nascose tra le travi del soffitto di camera sua, per osservare la moglie rimasta sola, durante la notte. Ed effettivamente, la moglie, quella notte, introdusse nel letto un giovane vicino, per fornicare con lui. Allora, infuriato, il criminale, che stava appeso, perse la presa e cadde giù, sul pavimento, battendo la testa così forte da svenire.
Il vicino se la diede a gambe, ma la moglie restò al suo fianco finché il marito non rinvenne, decidendo di giocare sul fatto che l’uomo aveva preso una bella botta in testa. La moglie disse, infatti, che non era mai entrato nessun giovane in camera da letto, e che il marito si era immaginato tutto a causa della contusione. Una storia che non reggeva appieno. E il criminale continuò a rodersi dal dubbio, anche dopo esser stato costretto a letto. Poiché la botta era stata così forte, che si ammalò.
Ed è a questo punto che entra in scena il vecchio monaco, colui che ha raccontato i fatti al cronista, il quale visitò il criminale e gli consigliò di confessarsi per ricevere assoluzione ed eucaristia cristiana. Era messo davvero male. Ma il criminale rifiutò, dicendo di voler aspettare la notte seguente, poiché aveva ancora per la testa la visione della moglie che lo tradiva. Una procrastinazione che si rivelò fatale, poiché l’uomo non vide mai il giorno seguente: “prima della notte successiva, privo della grazia cristiana e in preda alle sue meritate disgrazie, condivise il profondo sonno della morte.”
Ricevette una sepoltura cristiana, ma senza assoluzione da una vita tanto malvagia (di cui i dettagli vengono taciuti, nella cronaca). E per questo, per opera di Satana, il criminale risorse dalla tomba. Anche lui fu visto aggirarsi per le strade con un branco di cani rabbiosi al seguito, errando per i cortili e le case, di notte, costringendo gli abitanti a sprangare le porte e barricarsi dentro per paura d’incontrare il morto vagabondo e finire picchiati “neri e blu”, come viene scritto nel testo, ovvero di finire pieni di lividi.
Nascondersi, però, non serviva a niente. Poiché ancora una volta, l’aria fu appestata dalla fetida e infernale presenza della carcassa rediviva, che con il suo alito pestifero ammorbava le case e diffondeva malattie mortali. Molti morirono, altri ancora se ne andarono, e la città che fino a qualche tempo prima appariva popolosa, divenne deserta.
Il vecchio monaco, addolorato per le perdite della sua parrocchia, convocò un’assemblea di uomini saggi e religiosi, la domenica delle Palme. Dopo la celebrazione della messa si riunirono tutti a mangiare, discutendo animatamente sul da farsi, per trovare la miglior soluzione al dilemma sovrannaturale. Finché due giovani fratelli non presero parola: “Questo mostro ha già distrutto nostro padre, e presto distruggerà anche noi, se non prendiamo provvedimenti per impedirglielo. Facciamo dunque un’azione ardita che garantisca subito la nostra salvezza e vendichi la morte di nostro padre. Dissotterriamo questo malefico parassita e bruciamolo con il fuoco”
Allora un gruppo di abitanti armati di vanghe si diressero nel cimitero, alla tomba dell’uomo, e lo dissotterrarono. La visione che si parò loro davanti fu terrificante: il cadavere era “gonfio fino a essere divenuto enorme, col volto oltre misura ingigantito e soffuso di sangue; mentre il sudario in cui era stato avvolto era fatto a pezzi.”
Ma i giovani, spinti dall’ira, non ebbero paura, e ferirono la carcassa facendo sgorgare un tale fiotto di sangue che la salma si sarebbe potuta scambiare per una sanguisuga piena del sangue di molte persone. Quindi, lo trascinarono fuori del villaggio e costruirono un rogo funebre. A quel punto, però, uno di loro disse che il corpo pestilenziale non sarebbe bruciato a meno che il suo cuore non fosse stato strappato. E già che c’erano gli aprirono il fianco a colpi di vanga e, infilandoci dentro le mani, trassero fuori il cuore maledetto. Dilaniarono il cadavere, pezzo per pezzo, e lo diedero alle fiamme. Il cronista conclude così, l’episodio:
“Dopo il rogo, la pestilenza che dilagava tra il popolo cessò, come se l’aria, che era stata corrotta dai moti contagiosi dell’orrendo cadavere, fosse stata purificata dal fuoco che l’aveva consumato.”
Si conclude così la terza di queste storie di morti viventi medievali, scritte da William of Newburgh sul finire del XII secolo. Storie che secondo alcuni sono da considerarsi all’origine del mito del vampiro, ma non sono d’accordo con questa interpretazione. Personalmente, queste storie di morti che risorgono per dar fastidio ai viventi, le trovo parte di un folklore a sé stante, distante dai mostri notturni succhiasangue derivati dagli strix greco-romani. Un folclore che racconta di dannati inquieti, afflitti da tormenti e, spesso, da peccati non assolti, che diffondono malattie mortali, forse come tentativo di spiegare la natura delle pestilenze che terrorizzavano il mondo prima della medicina moderna, prima ancora della famigerata peste trecentesca.
Storie di morti viventi che questo autore medievale ha saputo riportare con maestria, in grado di farci correre un brivido sulla schiena ancora oggi, quasi mille anni dopo. Anche se devo ammettere di aver detto una piccola bugia. Perché William of Newburgh ci ha lasciato una quarta orrida storia di morti viventi, ambientata in un monastero maledetto della Scozia più remota, dove una squadra di coraggiosi frati armati di tutto punto si frappone a una minaccia dall’Oltretomba…
Racconterò di questa incredibile avventura medievale nel prossimo episodio di Leggende Affilate. Se non vuoi perderla, mi raccomando, seguimi. E ricorda che le storie che racconto non finiscono qui, ma proseguono e si ampliano nei miei romanzi, come “La Stirpe delle Ossa”, dove le maledizioni d’Oltretomba affliggono un decaduto cavaliere italiano e il suo feudo squassato dalla guerra. Puoi acquistare il romanzo in tutte le librerie e gli store online.
Alla prossima!
“Anche un altro avvenimento non dissimile da questo, ma più pernicioso ne’ suoi effetti, avvenne nel castello che si chiama Anantis, come ho udito da un vecchio monaco che visse in quelle parti onore e autorità, e che raccontò ciò evento come avvenuto in sua presenza. Un certo uomo di cattiva condotta fuggendo, per paura dei suoi nemici o della legge, fuori dalla provincia di York, presso il signore del suddetto castello, vi si stabilì e, dopo essersi affidato a un servizio che si addiceva al suo umore, ha lavorato duramente per aumentare piuttosto che correggere le sue inclinazioni malvagie. Sposò una moglie, davvero con sua rovina, come sembrò in seguito; perché, sentendo certe voci riguardo a lei, fu irritato dallo spirito della gelosia. Ansioso di accertare la veridicità di queste notizie, finse di partire per un viaggio dal quale non sarebbe tornato per alcuni giorni; ma tornando la sera, fu introdotto segretamente nella sua camera da letto da una serva, che era nel segreto, e giaceva nascosto su una trave a strapiombo, la camera di sua moglie, per poter provare con i propri occhi se qualcosa fosse stato fatto al disonore del suo letto matrimoniale. Allora vedendo sua moglie in atto di fornicazione con un giovane del vicinato, e nella sua indignazione dimentico del suo scopo, cadde e fu sbalzato pesantemente a terra, vicino a dove giacevano. L’adultero stesso balzò in piedi e si salvò; ma la moglie, astutamente dissimulando il fatto, si occupò di sollevare dolcemente da terra il marito caduto. Non appena si fu in parte ripreso, la rimproverò del suo adulterio e minacciò la punizione; ma lei rispondendo: “Spiegati, mio signore”, disse; “stai parlando in modo sconveniente che non deve essere imputato a te, ma alla malattia di cui sei turbato.” Essendo molto scosso dalla caduta e tutto il suo corpo stupefatto, fu assalito da una malattia, tanto che l’uomo che ho detto avendomi riferito questi fatti visitandolo nel pio adempimento dei suoi doveri, lo ammonì a confessarsi dei suoi peccati e ricevere l’Eucaristia cristiana nella forma corretta: ma poiché era occupato a pensare a ciò che gli era accaduto e a ciò che sua moglie aveva detto, rimandava il sano consiglio al domani – quel domani che in questo mondo era destinato a non vederlo mai! – per la notte successiva, privo della grazia cristiana e in preda alle sue meritate disgrazie, condivise il profondo sonno della morte. Una sepoltura cristiana, infatti, ha ricevuto, anche se indegna di esso; ma non gli giovò molto: perché uscendo, per opera di Satana, dalla sua tomba di notte, e inseguito da un branco di cani con orribili latrati, errava per i cortili e per le case mentre tutti gli uomini sprangavano le loro porte, e non osava uscire per nessuna commissione dall’inizio della notte fino all’alba, per paura di incontrare ed essere picchiato nero e blu da questo mostro vagabondo. Ma quelle precauzioni non servirono; poiché l’atmosfera, avvelenata dai capricci di questa immonda carcassa, riempiva ogni casa di malattie e morte con il suo alito pestifero.
Già la città, che fino a poco tempo fa era popolosa, appariva quasi deserta; mentre quelli dei suoi abitanti che erano sfuggiti alla distruzione migrarono in altre parti del paese, per timore di morire anche loro. L’uomo dalla cui bocca udii queste cose, addolorato per questa desolazione della sua parrocchia, si applicò a convocare un’adunanza di uomini saggi e religiosi in quel giorno sacro che si chiama Domenica delle Palme, affinché impartissero salutari consigli in così grande un dilemma, e rinfrescare gli animi del miserabile residuo del popolo con consolazione, per quanto imperfetta. Dopo aver tenuto un discorso agli abitanti, dopo che le solenni cerimonie del santo giorno furono compiute correttamente, invitò alla sua mensa i suoi ospiti ecclesiastici, insieme alle altre persone d’onore che erano presenti. Mentre stavano così banchettando, due giovani (fratelli), che avevano perso il padre a causa di questa pestilenza, incoraggiandosi a vicenda, dissero: “Questo mostro ha già distrutto nostro padre, e presto distruggerà anche noi, se non prendiamo provvedimenti per impediamolo. Facciamo dunque un’azione ardita che garantisca subito la nostra salvezza e vendichi la morte di nostro padre. silenziosa come se fosse deserta. Dissotterramo questo malefico parassita e bruciamolo con il fuoco”.
Allora afferrata una vanga di affilatura non indifferente, e affrettandosi al cimitero, iniziarono a scavare; e mentre pensavano di dover scavare più in profondità, ad un tratto, prima che gran parte della terra fosse stata tolta, misero a nudo il cadavere, gonfio fino a essere divenuto enorme, col volto oltre misura turgido e soffuso di sangue; mentre il sudario in cui era stato avvolto appariva fatto a pezzi. Ma i giovani, spinti dall’ira, non ebbero paura, e ferirono la carcassa innaturale, da cui sgorgò incontinente un tale fiotto di sangue, che si sarebbe potuta scambiare per una sanguisuga piena del sangue di molte persone. Quindi, trascinandolo fuori del villaggio, costruirono rapidamente un rogo funebre; e su uno di loro dicendo che il corpo pestilenziale non sarebbe bruciato a meno che il suo cuore non fosse stato strappato, l’altro gli aprì il fianco con ripetuti colpi della vanga smussata e, spingendo nella mano, trasse fuori il cuore maledetto. Dilaniato questo pezzo per pezzo, e dato il cadavere alle fiamme, fu annunziato ciò che avveniva agli ospiti, i quali, correndo là, si permisero di testimoniare d’ora innanzi delle circostanze. Quando quell’infernale segugio infernale fu così distrutto, la pestilenza che dilagava tra il popolo cessò, come se l’aria, che era stata corrotta dai moti contagiosi dell’orrendo cadavere, fosse già purificata dal fuoco che l’aveva consumato. Così esposti questi fatti, torniamo al filo regolare della storia.
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