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6 Settembre 2023

Mostri, draghi ed eroi: la storia delle armature chiodate

armature chiodate nella storia

Armature chiodate: le armi segrete per sconfiggere i draghi? Scopri la storia e i leggendari eroi che le hanno utilizzate.

Nel II secolo dopo Cristo venne scritta un’opera chiamata Periegesi della Grecia, ovvero una sorta di manuale geografico che racconta notizie legate a varie località, e ai loro popoli. Pausania, l’autore di questa guida storico-turistica, nel libro IX narra di un fatto straordinario avvenuto a Tespie, in Beozia: una città assoggettata, nientemeno, che da un drago.

“I Tespiesi hanno ancora nella città la statua di bronzo di Giove Saota. Narrano, che sendo una volta la loro città da un dragone infestata, ingiunse il Dio, che quello de’ giovani, sul quale fosse caduta la sorte, si desse ogni anno in preda al serpente. Di quelli, che perirono, dicono non ricordarsi i nomi: ma circa Cleostrato, che lo avea sortito, dicono, che l’amante suo Menestrato questo inventasse. Fece una lorica di bronzo, che in ciascuna squama avea rivolto all’insù un amo: rivestito di questa, si diè spontaneamente al dragone: egli morì; ma dovea far morire anche il serpente. In contraccambio di questo, ebbe Giove il soprannome di Saota.”

Pausania il Periegeta, Guida della Grecia, libro IX, capitolo 26

Quello del drago che flagella le terre di un determinato paese, è un mito assai frequente nella storia, un mito dal sapore medievale, ma che in realtà deriva da un folclore ancora più antico, in questo caso legato proprio alla tarda antichità greco-romana. Ce ne sono tanti, infatti, di mostri simili, così come esistono altrettanti eroi (la maggior parte dei quali santificati dalla Chiesa) che si sono adoperati per ucciderli. Nell’episodio di Leggende Affilate “Santi contro draghi” racconto alcune delle più appassionanti, e truculente. La leggenda presente nella guida della Grecia di Pausania, però, si distingue per una caratteristica peculiare.

A Tespie vigeva l’usanza di offrire in sacrificio al drago un giovane ragazzo: allo scadere di ogni anno, si tirava a sorte tra la popolazione e si nominava colui che avrebbe dovuto placare l’ira del mostro. Con la propria vita, naturalmente. Gli anni passarono, finché, un anno, la sorte scelse Cleostrato, l’eroe di questa storia, che di eroico, in verità, aveva ben poco. Poiché non era un guerriero, non sapeva combattere, ed era ben consapevole che il suo destino era già segnato. La stessa consapevolezza che aveva anche Menestrato, il suo amante.

Pausania con poche informazioni tratteggia le caratteristiche di un amore tragico, quello tra il condannato a morte, Cleostrato, e il suo Menestrato, senza purtroppo approfondire oltre. Sappiamo solo che per tentare il tutto per tutto, Menestrato, probabilmente un abile fabbro, costruì una lorica di bronzo: un’armatura tipica degli eserciti antichi, greci, ma anche romani, che proteggeva petto, pancia, fianchi e schiena. L’armatura creata per Cleostrato era composta da lamelle di bronzo poste una di fianco all’altra, simili alle squame di un pesce (ed è per questo che in latino, tale tipologia di armatura era chiamata lorica squamata).

Oltre a questo, la lorica di Cleostrato presentava una specialità: ovvero, “che in ciascuna squama avea rivolto all’insù un amo”. Ed ecco lo stratagemma per vincere la sorte avversa: nel caso in cui il drago avesse tentato di ghermire Cleostrato, questa particolare armatura lo avrebbe dilaniato dall’interno. Ci troviamo di fronte a uno dei primi esempi di armatura uncinata, spesso presente nella narrativa fantasy e oggi considerata, esteticamente, la divisa ordinaria del perfetto oscuro signore (Sauron, nella trilogia de Il Signore degli Anelli è forse il più evidente esempio di portatore d’armature chiodate). 

Cleostrato, dunque, partì per compiere il suo dovere, armato di lorica uncinata. L’orrida creatura lo divorò facendone un solo boccone e finì dilaniata dall’interno, a causa dell’indigesto (e affilato) pasto. Purtroppo, morì anche Cleostrato, ma grazie al suo sacrificio la città di Tespie si liberò per sempre dal giogo della bestia. E tutto è bene quel che finisce bene, più o meno.

Un altro esempio tra le armature chiodate presenti nelle fonti storiche compare nel Roman de Florimont, o romanzo di Fioramonte, di cui in Italia abbiamo un bellissimo manoscritto nella biblioteca di Padova, tradotto nel Quattrocento dal francese al veneto medievale, un idioma un po’ diverso dal veneto attuale (e ovviamente privo di quella peculiarità che tutti conosciamo, ovvero la fitta presenza d’intercalari profani)1.

“E poi lo domandò delo mostro, s’el era morto, e lui rispoxe e dise: «Io non vidi
mai tal diavolo: per do fiade io l’ò sì forte ferito ch’el nonn è alguna bestia al mondo
sì feroze che nonde fose morta; ma sì tosto come l’avìa ferito, lui se ne andavano a ba-
gniare in nel mare e di present’ el erano guarito. Et sapié per veritate ch’el non se in-
fenzenò de niente verso di me, ch’el mi preseno la prima fiada per portarme in lo mare e
volerme anegare; ma li raxori che intorno mi erano lo perchotevano in modo, non po-
sendome tignire, sì me lasono chadere sula marina in tale maniera ch’io mi stornino e
stitine una grande peza, et lui tornò subito come s’el non ’vueseno abuto algun male».”
“Respoxeno la donzela e dise: «Sapiate per fermo che, si el nonn è ferito, ancora
altramente farà ’lo ancora male asai se cusì el romagniano: lo carchaso e la carne e le
ose per sé midesime prenderano calore et retornerano vivo. Ma prendetilo cusì come
l’avete uziso e fazete uno grande fuogo et zitatilo dentro et fazetelo tuto ardere, poi
prendì la sua zenere e sì la zitate alo vento».
Il che Fioramonte preseno a parlare al doze suo padre e dise: «Misiere, fé’ fare uno
grandenisimo fuogo e fé’ zitare questo mostro dentra sì che el sia arso tuto, et la polvere
sia zitata alo vento azò non se ne chata mai più ni ramo ni frascha deli fati soi». E cusì
subito la zente ch’erano vegnuto per vederlo fize taiar legnie e fezeno fare focho, e zitò-
lo dentro per modo tuto lo brusò, e la polvere fo zitata alo vento.”

Marta Materni, Il Libro di Fioramonte da Durazzo: la tecnica di un prosificatore, le difficoltà di un volgarizzatore

Il romanzo narra di Fioramonte, figlio del duca di Durazzo Mathaquas d’Albania e di Edorie, una principessa persiana. Fioramonte, ovvero “fiore del mondo”, crebbe secondo i valori cavallereschi, addestrandosi a combattere con la spada, in sella al destriero, a sconfiggere i nemici e proteggere le dame. Divenuto uomo, decise di compiere la sua prima impresa: uccidere la spaventosa bestia che dilaniava le terre d’Albania.

Nel manoscritto del XV secolo conservato nella Biblioteca nazionale di Francia, Dipartimento dei manoscritti2, viene rappresentato Fioramonte nell’atto di uccidere il mostro con una lancia impugnata a due mani e una pesante armatura di metallo che lo ricopre da capo a piedi, cosparsa di uncini. Proprio come Cleostrato, Fioramonte affronta la bestia con una protezione spinata per contrastare i morsi e, in caso d’ingoio, per dilaniar viscere tramite estremo sacrificio. A differenza dell’eroe greco, però, l’eroe albanese riesce a vincere, e sopravvive pure allo scontro. Dopo la battaglia viene raggiunto da una misteriosa dama, una sorta di fata, che gli spiega che in realtà il mostro non è morto. Poiché nonostante le ferite di lancia, la carne e le ossa si sarebbero presto rianimate. L’unico modo per sconfiggerlo definitivamente, era quello di fare un bel rogo e bruciarlo. Proprio quello che decide di fare Fioramonte.

Dopo l’impresa, forte di alcuni oggetti magici quali un anello, una spada e un unguento, l’eroe porta a compimento altri sterminii, come l’uccisione del gigante Garganeus di Puglia (un nome ancora oggi presente nella geografia pugliese) anche lui che imponeva un tributo come facevano di solito i draghi della tradizione.

Dopo gli eroi greci e quelli albanesi, descritti all’interno di un romanzo francese, giungiamo infine al folclore inglese, all’interno del quale si muove John Lambton: un altro cavaliere vestito di ferro acuminato, e sterminatore di mostri. La leggenda lo vede combattere un mostro molto simile a un drago, ma in questo caso chiamato “worm”, verme: una sorta di serpente strangolatore gigante che, a differenza degli altri episodi che ho narrato, usa le spire per stritolare. Ed è proprio tentando di stritolare John Lambton che il vermone finisce trafitto dagli spunzoni dell’armatura, e muore.

Esistono altre rappresentazioni di armature chiodate nelle fonti storiche. La più importante, forse, è presente nel celebre trattato di scherma di Fiore dei Liberi, il Flos Duellatorum: la bibbia degli spadaccini antichi e contemporanei. La rappresentazione della figura del combattimento con spada a due mani ci restituisce l’immagine di un duellante armato di spine sugli arti inferiori e superiori, oltre che sulle spalle.

Non siamo più, quindi, nell’ambito del romanzo, ma all’interno di un’opera “tecnica”, scritta da esperti di combattimento. Ma allora esistevano davvero le armature chiodate? La risposta è: più no che sì. Perché di prove dell’esistenza di armature chiodate nelle fonti storiche, non ce ne sono molte altre.

Riguardo il duello, e più specificamente il torneo, sappiamo che nel 1446 un cavaliere di nome Baltasin si presentò il giorno della competizione in sella a un cavallo coperto di spuntoni d’acciaio3. Baltasin (chiamato anche Galeotto Balthazar, a seconda delle fonti4) venne rimproverato e costretto a rimuovere gli spuntoni dalla bardatura del destriero, poiché erano ritenuti contrari al regolamento del torneo5.

Questa testimonianza potrebbe voler dire due cose: la prima, che portare spunzoni addosso era pratica illegale e, dunque, conosciuta da tutti per la sua efficacia e pericolosità. La seconda, che tale Baltasin aveva sperimentato un’arma inconsueta, poco o per nulla conosciuta, e di conseguenza considerata un’anomalia fuori regolamento. Dato che non ci sono pervenute armature medievali e rinascimentali con gli spunzoni, e data l’assoluta rarità di queste armature nelle fonti bibliografiche (praticamente le ho quasi tutte menzionate qui, a fronte delle centinaia di migliaia d’armature normali giunte fino a noi), propenderei per il no: le armature chiodate non venivano usate in battaglia e nemmeno in duello. Questo, per motivi molto semplici, in verità.

Durante il combattimento si deve avere la possibilità di muoversi liberamente, senza impedimenti. Si deve poter alzare le braccia, ruotare il busto, allungarsi avanti, indietro, alzarsi, abbassarsi e fare tutto ciò che è necessario fare per vincere lo scontro. E’ impensabile che si possa combattere in maniera decente se ricoperti di spunzoni. A parte la punta dei piedi6 e il centro della schiena non esiste punto del corpo che non sia coinvolto dallo sfregamento o dal contatto degli arti, durante movimenti così intensi.

Inoltre, ciò che ha unificato secoli di innovazioni tecnologiche nel campo della metallurgia applicata alla guerra è proprio il design scivoloso delle armature. Fin dall’antichità gli uomini sanno che il modo migliore per deflettere un colpo è di farlo scivolare disperdendo la potenza energetica. Una palla d’archibugio avrà più possibilità di penetrare una superficie metallica completamente piatta rispetto a una arrotondata, così come una spada scivolerà via se la corazza è bombata (Basti pensare alle corazze “panciute” dei conquistadores del XV-XVI secolo). Perciò, un’armatura che intercetta i colpi invece di deviarli è la cosa più sbagliata che si possa immaginare.

Non a caso, esistono infinite armi inastate pensate per un unico scopo: agganciare i cavalieri e buttarli giù. I membri più poveri della società potevano neutralizzare un ricchissimo cavaliere semplicemente agganciandolo e buttandolo giù da cavallo: così, in tre o quattro, avrebbero potuto immobilizzarlo e tagliargli la gola. Una situazione comunissima, presente anche ne “La Stirpe delle Ossa” il mio primo romanzo di spadate e ammazzamenti, dove ho deciso di mettere in mostra varie rovinose cadute da cavallo, nel corso degli spietati scontri tra cavalieri decaduti di un’Italia trecentesca.

Cleostrato, Fioramonte, John Lambton sono quindi eccezioni letterarie, e se anche dovesse saltar fuori una fonte storica che narra di qualcuno, da qualche parte nella storia medievale, che ha prodotto e usato un’armatura uncinata, resterebbe comunque un’eccezione: l’esperimento eccentrico di qualcuno che ha voluto tentare qualcosa di straordinario. Perché la totalità delle armature giunte fino a noi non presenta una simile estetica fantasy.

Insomma, l’immaginazione corre veloce, e chiunque può immaginare sterminatori di draghi con l’armatura uncinata addosso, chiunque compresi gli autori delle opere letterarie medievali. Ma l’immaginazione, talvolta, s’infrange contro la dura realtà.

Se questa storia ti ha appassionato, seguimi e condividi l’episodio. Se te la senti, inoltre, puoi immergerti ancora di più in queste sanguinarie atmosfere medievali acquistando La Stirpe delle Ossa in tutte le librerie e negli store online, Amazon compreso. Alla prossima.

  1. versione da cui ho tratto alcuni frammenti di testo, tradotti da Marta Materni, Il Libro di Fioramonte da Durazzo: la tecnica di un prosificatore, le difficoltà di un volgarizzatore
  2. “Livre du roy Flourimont, filz du duc d’Albanye, et de la naissance du roy Phlippe, son filz, pere du roy Alexandre le grant” 1401-1500, Aimé de Varannes link: https://gallica.bnf.fr/ark:/12148/btv1b10537598k/f1.item.zoom
  3. Olivier de La Marche and the Rhetoric of Fifteenth-century, Catherine Emerson
  4. Olivier de la Marche and the Court of Burgundy, c. 1425-1502
  5. Philip the Good: The Apogee of Burgundy, Volume 3, Richard Vaughan, Graeme Small
  6. Le poulaine, calzature a punta in uso dai Franchi fin dal XI secolo, diedero origine alle famose scarpe di ferro con la punta molto pronunciata del XV secolo – An Illustrated History of Arms and Armour, Auguste Demmin
Lorenzo Manara
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