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14 Giugno 2023

La vera storia dell’apprendista stregone

apprendista stregone

Da Fantasia di Walt Disney, passando per Goethe, Luciano di Samosata e la letteratura dell’Antico Egitto: la vera storia dell’apprendista stregone

Quando il fagotto comincia a suonare quel tema goffo e al tempo stesso baldanzoso che accompagna topolino giù per la scalinata di pietra, seguito da un’armata di scope animate da un incanto, personalmente provo un brivido nostalgico. Io come molti altri cresciuti con quel capolavoro della Walt Disney, Fantasia, del 1941.

Perché non c’è niente di più incisivo di una bella storia in musica, come lo è il poema sinfonico di Paul Dukas, composto nel 1897, scelto dalla Disney per la sua carica melodica e narrativa. Dukas creò un’opera magistrale, onorando le affascinanti vicende del maldestro apprendista stregone. Vicende che il compositore non inventò di sana pianta, bensì prese in prestito da un altro autore che le aveva scritte esattamente cento anni prima: nientemeno che Goethe.

La storia dell’apprendista stregone fu composta da Wolfgang Goethe, sotto forma di ballata, nel 1797. 

E ora, vecchia scopa, vieni,
prendi gli stracci miseri!
È da tempo, ormai, che servi;
ora esegui i miei ordini!

La ballata racconta di uno stregone che, lasciato lo studio, incarica il suo apprendista di dare una pulita. Ma quest’ultimo, invece di rimboccarsi le maniche, utilizza un incanto rubato dai libri del suo maestro. Un incanto che non sa padroneggiare, e infatti gli sfugge di mano: la scopa rianimata magicamente continua a portare acqua e l’apprendista è costretto a frantumarla a colpi d’accetta. Nonostante questo, la scopa, divisa in pezzi, prosegue l’eterno compito, e solo il ritorno del maestro permetterà di risolvere la situazione. 

Una storia che conosciamo bene grazie a Fantasia. Ma c’è dell’altro. Per scoprire le vere origini dell’apprendista stregone dobbiamo fare un ennesimo passo indietro, stavolta di 1500 anni. Perché tale ballata non è tutta farina del sacco di Goethe.

Nel II secolo dopo Cristo, un autore di nome Luciano, nato a Samosata, una città della provincia romana della Siria, scrisse un insieme di racconti nel racconto, il Filopseudes o l’incredulo. In una cornice narrativa basata su un gruppo di personaggi che si narrano a vicenda delle storie a sfondo soprannaturale, spicca il racconto di Eucrate, un insolito personaggio che ha trascorso la giovinezza in Egitto: terra da sempre considerata magica.

“Vi narrerò un altro caso capitato a me, non riportato da altri, di cui forse pure tu, oh Tichiade, riconoscerai la veridicità. Da giovane vivevo in Egitto (colà mio padre mi fece studiare). Ebbi voglia di risalir il Nilo fino a Copto, e di lì andar alla statua di Memnone, per udire lo straordinario suono che fa al sorger del sole. Ma anziché fare il solito suono inarticolato, Memnone mosse la bocca e pronunciò un oracolo di sette parole (inutile stare a ripetervelo). Rinavigando il fiume ebbi compagno un sacro scriba del tempio di Menfi, mirabile per sapienza, e dotto in tutta la cultura egiziana. Dicevano che avesse abitato 23 anni negli aditi sottoterra, e appreso la magia da Iside”.
Arignoto disse: “È il mio maestro, Pancrate: un sacerdote, sempre rasato, pensoso, parlante il greco con accento straniero, altissimo, col naso camuso, le labbra sporgenti, le gambe sottili”.
Rispose:
«Proprio lui, Pancrate. All’inizio ignoravo chi fosse; ma poi lo vidi, ad ogni approdo, fare prodigi, cavalcar e nuotare coi coccodrilli che gli scodinzolavano, e capì che era un uomo superiore. A suon di gentilezze divenni suo amico, tanto intimo che mi confidò tutti i suoi segreti. Infine mi convinse a lasciare tutti i miei servi a Menfi, e ad andare solo con lui, dicendomi che non ci sarebbero mancati servi. Infatti ecco come vivemmo».

Eucrate viaggiò nella terra dei faraoni in lungo e in largo, risalendo il Nilo fino ai colossi di Memnone per udire “lo straordinario suono che facevano al sorgere del sole”. Si trattava di due statue situate a Tebe, in Egitto, che gli storici greci attribuivano a Memnone, l’eroico semidio della stirpe reale troiana e figlio della dea Aurora. I colossi avrebbero dovuto celebrare la sua morte contro Achille, ma si tratta di una rivisitazione leggendaria. I colossi di Memnone sono in verità statue del faraone Amenhotep III.

Si dice che una di queste statue fosse concava, con un buco nella bocca da cui, al levar del sole, l’aria calda passava sibilando: un suono che veniva interpretato dai greci come il saluto quotidiano dell’eroe alla madre Aurora. Una tradizione che, dall’anno 199 dopo Cristo, cessò di esistere a causa di un restauro romano, successivamente al quale non si udì più alcun suono.

In ogni caso, dopo la visita ai colossi, Eucrate conobbe un sacro scriba del tempio di Menfi, “sempre rasato, pensoso, parlante il greco con accento straniero, altissimo, col naso camuso, le labbra sporgenti, le gambe sottili”. Viene descritto come un uomo mirabile per sapienza, e dotto in tutta la cultura egiziana, che aveva abitato 23 anni nei luoghi segreti del sottosuolo, dove aveva appreso la magia. Tale sacro scriba era Pancrate, sacerdote di Iside, nonché potente stregone. Il nome stesso, significherebbe “onnipotente”.

«Ogni volta che giungevamo in una locanda, serrava la porta, prendeva una scopa o un pestello, lo ricopriva col mantello, e con una formula magica lo faceva camminare e apparire umano agli occhi di tutti gli altri. E quello andava ad attingere l’acqua, cucinava, rassettava, cioè faceva benissimo i compiti di schiavo. Allorché non ne servissero più i servigi, Pancrate con un’altra formula ritrasformava la scopa in scopa, e il pestello in pestello. Questo era il solo segreto di cui lui fosse geloso, che invano mi sforzavo di farmi rivelare. Ma un giorno origliai di nascosto la parola magica (aveva tre sillabe). Egli impartì gli ordini al pestello e uscì in piazza».
«L’indomani, con lui fuori a curare i suoi affari, io presi il pestello, lo avvolgo, gli dico le tre sillabe, e gli comando di portare acqua. Esso riempì e mi portò un’anfora. Dissi: “Basta, non portarne più, e torna ad esser pestello”. Ma esso non voleva più ubbidirmi, e seguitò a portar acqua fino ad allagar la casa. Non sapendo che fare (temevo che Pancrate si adirasse al ritorno, come fece) presi un’ascia e spaccai il pestello in due; ma ciascun pezzo prese un’anfora e portò acqua: i servi divennero due. Finché giunse Pancrate, che capì al volo, fece tornare i pestelli come prima dell’incantesimo: e poi pure lui sparì nel nulla, abbandonandomi».
Dinomaco disse:
«Sai ancora mutare un pestello in uomo?».
Ei rispose:
«Purché sia forato! Ché non saprei farlo tornare come era, e una volta spedito per acqua allagherebbe la casa».

Eucrate divenne amico di quello straordinario sacerdote, tanto da farsi dare una dimostrazione della sua magia, in particolare dell’incantesimo per animare oggetti lignei di una certa lunghezza, ovvero pestelli (che, in questo contesto, sono lunghe verghe di legno per frantumare ingredienti all’interno di un recipiente posto sul pavimento, da utilizzarsi in piedi) e scope. Lo stregone Pancrate di solito prendeva uno di questi oggetti, lo ricopriva con un mantello e dopo aver recitato una formula magica lo faceva apparire umano agli occhi di tutti gli altri. La verga antropomorfa quindi si occupava dei compiti da schiavo, come attingere l’acqua, cucinare, rassettare, e una volta concluso il lavoro, Pancrate la ritrasformava con una seconda formula.

Un incantesimo di cui il sacerdote egizio era gelosissimo, tanto da non voler rivelare a nessuno. Il curioso Eucrate, però, origliò di nascosto la prima formula magica, che aveva tre sillabe, e volle provare a utilizzarla egli stesso. Attese che lo stregone se ne andasse via di casa per curare i suoi affari, scelse un pestello, lo avvolse in un mantello e recitò la formula magica di tre sillabe, comandandogli di portare dell’acqua.

Il pestello si rianimò per ubbidire all’apprendista stregone. Andò a prendere l’acqua con un’anfora e gliela portò. Eucrate si disse soddisfatto, comandando al pestello di non portarne più. Tuttavia, il pestello non lo ascoltò. Andò a prendere l’acqua con l’anfora, più e più volte, e finì per allagare la casa. L’apprendista stregone, che aveva paura dell’imminente ritorno di Pancrate, prese un’accetta e spaccò il pestello a metà. Ma i due pezzi, inarrestabili, proseguirono la loro marcia e, presa un anfora ciascuno, andarono a prendere l’acqua: i servi, adesso, erano divenuti due.

Eucrate, disperato, non sapeva proprio come risolvere la situazione. Anche perché non conosceva la seconda formula magica, quella che serviva a porre fine all’incantesimo. Dovette attendere l’arrivo di Pancrate, il quale, adirato, pose fine alla magia per poi dileguarsi, scomparendo per sempre dalla vita di Eucrate, l’apprendista stregone.

Questo racconto del II secolo dopo Cristo, scritto in lingua greca, fu ambientato in Egitto non a caso. Perché la terra dei faraoni era ricca di tradizioni magiche, alcune delle quali pervenute a noi grazie a manufatti, simboli, iscrizioni su pietre preziose, ostraka, ciotole di argilla, e anche su tavolette d’oro, argento, piombo, stagno e, soprattutto, grazie ai celebri papiri magici: ovvero testi contenenti una varietà di incantesimi, formule, inni e rituali. Veri e propri trattati di magia antica.

Luciano di Samosata potrebbe aver preso ispirazione per il suo apprendista stregone proprio dalle tradizioni dell’Antico Egitto, e più precisamente da una storia che narra di libri magici e incantesimi rubati, scritta in lingua demotica all’incirca nel III secolo avanti Cristo: la storia del principe Khaemuaset, o più comunemente chiamato Setne, quarto figlio di Ramses II e sommo sacerdote di Ptah, a Menfi1; da alcuni definito tra i primi archeologi del mondo, considerato il suo impegno nello studio delle opere dell’Antico Regno (ed è straordinario pensare che gli antichi avessero a loro volta una loro “Antichità”, insegnandoci quanto sia soggettiva la classificazione dello scorrere del tempo).

Setne, un saggio scriba e portentoso mago (proprio come lo era Pancrate nel racconto greco di Luciano), setacciava il deserto di Menfi alla ricerca di un libro magico scritto dal dio Thoth che avrebbe permesso a chiunque l’avesse studiato di comprendere il linguaggio di tutte le creature del mondo e molte altre cose. Lo trovò nella tomba sotterranea di Naneferkaptah, illuminato da un bagliore sovrannaturale (nel sottosuolo, proprio come Pancrate aveva appreso le sue capacità). Tuttavia il libro era protetto dallo spirito dello stesso Naneferkaptah e dalla moglie. Costoro erano stati distrutti e maledetti dal dio Thoth in persona, adirato per aver perduto il libro: lo stesso destino che attendeva Setne, se avesse osato impadronirsene. Ma il principe, ovviamente, non ascoltò gli avvertimenti, e si ritrovò coinvolto in una macabra ricerca tra le tombe antiche, per recuperare i corpi mummificati della moglie e del figlio di Naneferkaptah, rimuovere la maledizione e pacificare il dio Thoth.

Una vera e propria avventura mitologica, rievocata ancora oggi nelle storie moderne a tema “Magia d’Egitto” come il ciclo di film di Indiana Jones o La Mummia, oltre allo stesso “Apprendista Stregone” messo in opera in Fantasia della Disney, le cui origini storiche sono davvero più lontane di quanto si possa immaginare, addirittura millenarie. Insomma, per quanto possa sembrar strano, Topolino e gli stregoni egizi come Pancrate, Khaemuaset o Naneferkaptah hanno davvero qualcosa in comune.

Se questa storia ti ha appassionato, mi raccomando, seguimi, così non perderai occasione di vivere le prossime Leggende Affilate.

  1. Papiro demotico n. 30.646 conservato al Museo del Cairo
Lorenzo Manara
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