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30 Agosto 2022

La danza mortale: una maledizione del Medioevo

danza mortale medievale

La leggenda medievale dei danzatori maledetti, condannati a un’eterna danza mortale

In una cittadina della Sassonia medievale, nell’anno 1012, un gruppo di 19 individui, 16 uomini e 3 donne si riunisce nel cimitero della chiesa di San Magnus. L’occasione è speciale: si tratta, infatti, della vigilia Natale e questi fedeli vorrebbero festeggiare a modo loro. Si prendono per mano, formano un cerchio e cominciano a cantare e danzare in un girotondo dal sapore antico e pagano; e lo fanno in una cornice alquanto pittoresca, ovvero in mezzo alle lapidi alle croci di pietra1.

Il prete della chiesa che in quel momento sta cerimoniando la Santa Messa viene interrotto dagli schiamazzi e come lui vengono interrotti anche i fedeli, quelli devoti veri, che si trovano nella casa del Signore a pregare e ad ascoltare la messa come dovrebbero far tutti. Per questo il prete, già infastidito, varca la soglia della chiesa per entrare nel cimitero e andare a dirgliene quattro a quei mascalzoni che forse forse sono anche un po’ eretici.

I giovani ascoltano le lamentele del prete e il suo comandamento a tacere, e togliersi di lì, ma non gli danno peso: anzi, lo ignorano e continuano a danzare in cerchio tenendosi per mano. Ed è a questo punto che il prete va su tutte le furie perché scaglia su di loro un anatema: “piaccia a Dio e a San Magnus che continuiate a danzare.”

Queste parole gridate dal prete sono una vera e propria maledizione, poiché pronunciate al cospetto di Dio e del santo martire che ha dato il suo nome alla chiesa, che è lì imponente, che proietta la sua ombra sul cimitero. Come nelle antiche storie di tormenti e maledizioni, le parole hanno subito effetto: la maledizione della danza mortale colpisce quei disgraziati, i quali non riescono più a fermarsi.

Questo è un racconto, anzi una cronaca contenuta in un manoscritto del XII, Gesta regum Anglorum, di William of Malmesbury. Dico cronaca perché al tempo si credeva che questi eventi fossero realmente accaduti. Infatti, assieme alle gesta dei re, dei sovrani e ai resoconti delle grandi battaglie vengono narrati anche questi episodi mistici, misteriosi, prodigi divini e, appunto, maledizioni. L’episodio della danza mortale, nello specifico, viene riportato da un testimone oculare che è un tale Etelberto, il quale dice di essere proprio uno di quei danzatori che è stato colpito dalla maledizione del prete. Uno di quelli che è riuscito a sopravvivere, perché si tratta di un anatema mortale quello che ha scagliato il prete della chiesa di San Magnus.

“Io Etelberto, peccatore, anche se volessi nascondere il giudizio divino che mi ha preso, il tremore delle mie membra mi tradirebbe; perciò racconterò come accadde, affinché tutti conoscano la pesante punizione dovuta alla disobbedienza. Eravamo, alla vigilia della natività di nostro Signore, in una certa città della Sassonia, in cui era la chiesa di Magnus il martire, e un prete di nome Roberto aveva iniziato la prima messa. Ero nel cimitero con diciotto compagni, quindici uomini e tre donne, ballando e cantando canti profani a tal punto che interruppi il prete, e le nostre voci risuonarono nella sacra solennità della messa.”

Secondo alcune versioni del racconto presenti nei manoscritti tardo medievali2, la città della Sassonia sarebbe Colbeck (o Kolbigk), situata nell’attuale Germania orientale. Etelberto che festeggia il Natale nel cimitero assieme ai suoi compagni, alla maniera pagana, viene redarguito dal prete, che scopriamo chiamarsi Roberto, e purtroppo non lo sta a sentire. Quindi, tutti quanti si buscano una bella maledizione.

La maledizione del prete, in nome di Dio e san Magno (da Magnus), colpì gli irriducibili ballerini obbligandoli perfino a tenersi per mano, legati anima e corpo a quello sfrenato e terribile ballo. Questo dettaglio del “tenersi per mano” lo si deduce da un passaggio che compare più avanti nel testo, poi ripreso nelle numerose varianti storiche del racconto, talvolta arricchite con altri macabri dettagli.

Gli impenitenti furono così condannati a una danza mortale senza alcuna possibilità di interromperla. Continuarono a danzare e a cantare, in cerchio. Passarono le ore, i giorni e questo girotondo diventò presto un girotondo infernale, che ricalca i tormenti degli Inferi. Quasi un contrappasso, come Dante Alighieri un paio di secoli più tardi avrebbe descritto nella Divina Commedia. Questi danzatori maledetti diventano quindi dei dannati che assaggiano un’anticipazione di Inferno sulla terra.

A questo punto del racconto, quando già le cose si sono fatte interessanti, avviene un colpo di scena che fa capire quanto fossero bravi a narrare le storie. Tra i malcapitati si scopre che vi è una donna che ha un legame di sangue con lo stesso prete. Una delle tre donne colpita dalla maledizione, che sta ballando e cantando con tutti gli altri, è la figlia del prete. Colpo di scena Per noi è un doppio colpo di scena, perché non ci aspettiamo che il prete abbia una figlia. Per noi non è una cosa normale. Non era normale neanche all’epoca, eh, però accadeva. Alcuni preti avevano figli e molti preti continuarono ad avere figli pure dopo, nel Rinascimento e nell’Età Moderna.

Per questo non era poi così strano che la figlia del prete si trovasse con quelli là, a danzare e a cantare. Ma non solo: non era strano che il prete avesse pure un altro figlio, perché di fatto, ne aveva due: una femmina e un maschio. Doppio colpo di scena. 

Il figlio maschio, che non si trova tra i dannati a ballare, viene a sapere che la sorella sta lì, nel cimitero, maledetta da Dio e san Magnus. Quindi corre da lei per andarla a prendere e tirarla via da quel girotondo infernale. Tuttavia, ecco cosa successe, secondo le parole di Etelberto:

“Il figlio del sacerdote, Giovanni, afferrò per un braccio la sorella che cantava con noi e subito glielo strappò dal corpo.”

Purtroppo le maledizioni non possono essere interrotte così, soprattutto con la forza. Perciò, prendendola per il braccio, il fratello ottiene l’orrido risultato di strapparglielo dal corpo. Dopo questa conclusione un po’ splatter, come se non bastasse, la sorella prosegue a ballare, menomata. E può farlo, perché dalla ferita non spilla una sola goccia di sangue.

La maledizione, quindi, è così forte da non poter essere fermata neppure da una ferita mortale. Neppure la morte può impedire ai danzatori di sottrarsi al supplizio. Sono veramente dei dannati, questi qua, come se si trovassero all’Inferno: poiché all’Inferno si soffre per l’eternità, ma non si muore di nuovo. Ed ecco che, quindi, oltre a questo, i danzatori maledetti non possono morire di fame, o di sete, o in nessun altro modo. Possono solo danzare.

“La pioggia non ci fermò; né il freddo, né il caldo, né la fame, né la sete, né la fatica ci assalivano: non indossavamo né vestiti né scarpe, ma continuavamo a cantare come fossimo pazzi. Per prima cosa siamo sprofondati nel terreno fino alle ginocchia: vicino alle nostre cosce; una copertura fu infine costruita su di noi, con il permesso di Dio, per evitare la pioggia.”

Passano i giorni, passano le settimane, passano i mesi; con la pioggia la tempesta il sole cocente, loro continuano. E qui si manifesta anche una conseguenza interessante del loro continuo calpestio, ovvero che questi disgraziati muovendosi sempre in cerchio, così a lungo, cominciano a scavare una sorta di fossa circolare. Perché a furia di di ballare, di pestare con i piedi sul terreno, giorno dopo giorno settimana dopo settimana, scavano una trincea e quindi si immergono nel terreno fino alla cintola. Chissà fin dove arriverebbero, probabilmente fino all’oltretomba. Di fatto, si stanno letteralmente scavando la fossa da soli.

Un’altra cosa divertente, è che gli abitanti della città costruiscono una copertura su di loro, una tettoia o qualcosa di simile, per ripararli dalla pioggia. E capirai.

“Trascorso un anno, Herbert, vescovo della città di Colonia, ci liberò dal vincolo con cui ci legavano le mani e ci riconciliò davanti all’altare di San Magno. La figlia del sacerdote, con gli altri due maledetti, morì subito; noialtri dormimmo tre giorni e notti interi: alcuni morirono in seguito, e sono famosi per miracoli: gli altri tradiscono la loro punizione per il tremito delle loro membra. Questa narrazione ci è stata data dal signore Pellegrino, successore di Herbert, nell’anno di nostro Signore 1013.”

Infine, dopo un anno, il vescovo di Colonia decide di intervenire. La massima carica ecclesiastica di quelle zone raggiunge il luogo della maledizione per liberare quei poveracci dal vincolo che li tiene stretti fra loro, per mano. Tranne la figlia del prete, lei la mano non ce l’ha più.

Ma come può un vescovo interrompere una maledizione? Semplice, con un altro rituale. Con un’altra formula liturgica, ovvero una santa messa nella chiesa di San Magnus, al cospetto dello stesso santo martire che in primo luogo intercesse il prodigio divino tramite il prete (perché il prete non aveva poteri, tutto ciò è giunto dall’alto). Quindi il vescovo, proprio come il prete, ricerca questa intercessione che stavolta è benevola e quindi San Magnus permette l’interruzione della danza. Per la prima volta quei 19 individui si fermano. Però la maledizione lascia un segno abbastanza grave, visto che molti di loro al termine del girotondo cadono a terra, morti.

Il prodigio che ha permesso loro di andare avanti tutto questo tempo (nonostante la fame, la sete e la sofferenza) adesso è concluso. I loro corpi sono diventati di nuovo dei corpi terreni e quindi il male che hanno subito si manifesta tutto assieme. La figlia del prete, ad esempio, che è senza braccio, muore all’istante. Alcuni, però, sopravvivono. Etelberto, il testimone che ha raccontato la storia al cronista, è ancora vivo. Ma le sue membra tradiscono un tremito, segno dell’anatema di quell’anno 1012. Altri suoi compagni tremano così tanto che non riescono neppure a camminare normalmente ma, piuttosto, saltellano. Inoltre, non si poterono mai più unire per mano, e “le loro vesti non marcivano né le loro unghie crescevano; i loro capelli non si allungavano né la loro carnagione cambiava. Né mai hanno avuto sollievo…“

Isterie danzanti simili a questa danza mortale sono state ben documentate nell’Europa antica: da Erfurt e Maastricht intorno al 1247, ad Aquisgrana nel 1374, a Strasburgo nel 1518 (la celebre Piaga del Ballo) e molti altri durante il XVI e XVII secolo. Compresa l’Italia. Ancora oggi, in molti luoghi del Bel Paese, si trovano ampie tradizioni di balli sfrenati, divenuti feste popolari, che in origine condividevano la natura mistica, a cavallo tra religione e superstizione.

La tragedia del padre che maledice la figlia può essere letta come un’ulteriore sottotesto riguardo il fenomeno dei preti e dei loro figli, avuti contro i dettami della dottrina ecclesiastica, talvolta con vere e proprie concubine. Per questo, altre versioni della storia successive all’opera di William of Malmesbury si concludono con la morte dello stesso prete, addolorato dalla perdita della figlia. Si dice anche che il braccio della ragazza sia finito chiuso nella teca di una qualche chiesa germanica, venerato come una reliquia.

L’insegnamento che potremmo trarre da tutto questo, è quello di non schiamazzare troppo durante la messa: meglio non fare arrabbiare il prete. Se questa storia della danza mortale ti è piaciuta, seguimi e ascolta Leggende Affilate, il podcast disponibile sulle migliori piattaforme streaming.

  1. Gesta regum Anglorum, di William of Malmesbury, XII sec
  2. Robert Mannyng, The Cursed Dancers of Colbeck (Translated from Middle English by Lee Patterson)
Lorenzo Manara
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