Close

2 Marzo 2023

I sacrifici nella Roma Antica: la Devotio

la devotio di publio decio mure

Articolo del podcast Storia della Magia, episodio 4: i sacrifici rituali nella Roma Antica, la devotio di Publio Decio Mure

L’ultima cosa che ci viene in mente quando pensiamo ai sacrifici umani perpetrati per scopi magico-religiosi, è proprio Roma: la culla della civiltà, dell’arte militare, dell’ingegneria idraulica, eccetera eccetera. Magari è più facile pensare agli aborigeni precolombiani che si mozzavano teste a vicenda per poi scagliarle di sotto dalle piramidi a gradoni placando la sete di sangue dei loro spietati dèi.

Eppure, persino nella storia della penisola italica esistono attestazioni di sacrifici rituali, propiziatori, per ottenere il favore divino. Documentati dalle cronache d’epoca.

Nell’anno 657 della città di Roma, che per noi corrisponde al 97 avanti Cristo, il Senato legiferò sull’abolizione del sacrificio umano, come ci racconta Plinio il Vecchio. Ciò significa che fino ad allora i sacrifici umani erano praticati

I romani in epoca repubblicana misuravano il tempo a partire dall’origine di Roma, datata 753 a.C., quindi ci vollero 657 anni per giungere all’abolizione di una pratica così sanguinosa, un requisito per noi, oggi, indispensabile in una società civile.

Ma cosa sappiamo di questi sacrifici avvenuti nell’Antica Roma? Ben poco, in realtà. L’episodio più famoso, di cui abbiamo descrizioni dettagliate, è legato a una battaglia che ancora oggi rievochiamo nel parlare comune, grazie all’espressione “vittoria di Pirro“. La battaglia è quella di Ascoli del 279 a.C., un furioso scontro che vide le legioni romane, alleate con dei contingenti latini, sanniti ed etruschi, contro quello che Annibale definì come il più astuto degli strateghi: Pirro, il re dell’Epiro. Pirro portò con sé il meglio dei reparti armati provenienti da ogni angolo della Magna Grecia, oltre a numerosi cavalieri tessali, falangiti macedoni, i mitici frombolieri di Rodi e 20 elefanti da guerra.

L’elefante da guerra svolgeva la funzione di macchina da sfondamento da prima linea. Veniva condotto nel centro della formazione per guidare la carica o addirittura prevenirla: poiché i nemici che si trovavano di fronte questi animali giganteschi non erano del tutto propensi a corrergli incontro. Gli elefanti erano così pericolosi che gli stessi alleati avevano il timore che potessero imbizzarrirsi e travolgere indistintamente amici e nemici. Tali animali vennero impiegati a lungo attraverso i secoli. Tuttavia, quando Pirro sbarcò in Italia, è probabile che i romani si fossero scontrati con degli elefanti una sola volta, prima di allora. Di fatto, era una novità sconvolgente.

Per contrastare una simile potenza Roma affidò il comando del suo esercito a Publio Decio Mure. Publio Decio Mure era un console della Repubblica romana, originariamente membro della gens plebea che a furia di conquiste e vittorie sul campo si guadagnò l’accesso a una carica di governo fino ad allora raggiungibile solo dai patrizi. Era un uomo determinato e particolarmente devoto, la cui proverbiale fede negli dèi gli consentì di contrastare la potenza di Pirro, pagando però un caro prezzo.

Pirro avanzava col suo poderoso esercito verso Roma e Decio decise di schierarsi a protezione della città per ingaggiare una battaglia campale. Il console romano poteva contare su una forza di circa 40.000 uomini, ma l’urto degli elefanti era pressoché inarrestabile: niente poteva fermare quelle bestie mastodontiche gettate nella mischia. I romani provarono tutto quello che avevano a disposizione, dal lancio dei pila (i giavellotti) alle frecce, ma è difficile far fuori un elefante. Non solo: più venivano feriti, e più i pachidermi s’imbestialivano.

Dopo svariate ore di combattimento, la battaglia si fermò al calare del sole, per riprendere il giorno dopo, ancora più sanguinosa. Ed è in quel frangente che il comandante Publio Decio Mure, dopo aver compiuto un rituale, invocando gli dèi tramite un’ultima solenne preghiera, decise di montare a cavallo, e lanciarsi, da solo, in mezzo al nemico.

Il suo fu un atto di natura magico-religiosa chiamato devotio, ovvero un’immolazione per ottenere la vittoria. In cambio della propria vita, il comandante chiedeva l’intervento degli Dei: la forma più alta tra i sacrifici umani. Proprio come avevano già fatto suo padre e il nonno, prima di lui.

Già, perché non era la prima volta che si verificava una devotio in piena battaglia. La stessa cosa era accaduta al padre di Decio nella battaglia di Sentino del 295 a.C. e al nonno nella battaglia del Vesuvio, nel 340 a.C.: tutti e tre omonimi, consoli, e comandanti dell’esercito di Roma. Se questo risulta confusionario per noi, oggi, può essere un campanello d’allarme per mettere in dubbio che questi sacrifici fossero avvenuti per davvero. Alcuni storici concordano che la più autentica e meglio documentata sia quella di Decio figlio, nel 295 a.C.

Ma come andò a finire la battaglia contro Pirro?

I romani non ottennero una vera e propria vittoria. Al termine della giornata, dopo la strage di corpi lasciati sul campo dai micidiali elefanti, poteva anzi sembrare che fosse stato proprio Pirro a vincere. Tuttavia il re dell’Epiro se ne uscì con una frase abbastanza significativa riguardo l’accaduto, divenuta poi leggendaria: “Un’altra vittoria così e sarò perduto.“. Il fatto è che quella singola battaglia aveva logorato il suo esercito e frenato la spinta verso Roma. Il re dell’Epiro aveva vinto, sì, ma ad un prezzo così alto che l’intera campagna militare era praticamente destinata a fallire.

Da lì, il detto: vittoria di Pirro.

La devotio dei Deci è solo una delle tipologie di sacrifici umani praticati nell’Antichità. Ed è probabilmente l’usanza che più mi ha ispirato nella scrittura de La Stirpe delle Ossa, dove l’immolazione gioca un ruolo molto importante. Altre usanze invece aderiscono in maniera più fedele al modello crudele e barbarico che tutti abbiamo in mente quando si parla di sacrificio rituale: episodi spesso citati dagli stessi storici romani, che ci hanno tramandato leggende ancora oggi affascinanti. Come fece uno degli autori più celebri della storia romana: Gaio Giulio Cesare.

Nel De Bello Gallico, molti paragrafi sono dedicati alla misteriosa figura del druido, anello di congiunzione tra il mondo reale e il regno delle fate. Si credeva infatti che il sapere e i poteri magici dei Celti venissero trasmessi dal contatto con le fate, e che gli aspiranti druidi dovessero studiare come novizi per venti anni prima di padroneggiare simili capacità.

Cesare ci racconta che i druidi chiedessero il favore degli Dei tramite sacrifici umani qualora ne avessero bisogno, in malattia o in guerra. Essi credevano infatti che senza un’adeguata offerta di sangue le divinità non sarebbero potute essere soddisfatte. Le uccisioni rituali, quindi, erano molteplici. In alcune occasioni certi galli costruivano “statue enormi, fatte di vimini intrecciati, che riempivano di uomini vivi e che poi incendiavano, facendoli morire tra le fiamme.”

Ma dei druidi e dei loro rituali, ne parlerò nel prossimo episodio. Ascolta il podcast Storia della Magia, se vuoi scoprire le vere origini della magia a partire dalle fonti storiche.

Lorenzo Manara
Latest posts by Lorenzo Manara (see all)