Caccia selvaggia: una grottesca storia medievale
Un’autentica storia medievale sul mito della caccia selvaggia ripresa dalle antiche cronache, tra Hellequin e re Artù
La prima cosa che ho pensato quando mi sono messo a pianificare la stesura del mio secondo romanzo “La Canzone dei Morti” è stata: voglio raccontare di un esercito dannato; voglio vedere le schiere condannate alla sofferenza tramite il contrappasso delle armi, costrette a marciare, o galoppare, in cerca dell’eterno scontro, trascinando le membra morte; e voglio farlo nella maniera più realistica possibile, come ho già fatto con La Stirpe delle Ossa, per quanto riguarda un altro tipo di maledizione.
Un’idea, quella dell’armata dei morti, che conosciamo ormai da secoli. Se ne sono viste tante di schiere d’oltretomba nei romanzi, nei fumetti, nei videogiochi, nei cartoni animati, al cinema: spesso identificate con un nome leggendario, che è quello della caccia selvaggia (anche se, a seconda della località, questo termine può mutare). Io stesso ho raccontato molte storie antiche e medievali a riguardo, ma oggi voglio aggiungere altra carne al fuoco, vista la mole di resoconti che ho raccolto nelle fasi di documentazione di questo secondo romanzo.
L’episodio di caccia selvaggia che sto per raccontare è contenuto nel “Trattato su vari materiali di predicazione”, scritto sul finire del XIII secolo da Étienne de Bourbon, un inquisitore domenicano che abbiamo già conosciuto per i suoi racconti di diavoli ed esorcismi. La sua opera è piena di storie fantastiche chiamate exempla: brevi racconti che dovevano servire come materiale di predicazione, da utilizzare nei sermoni, e che in maniera divertente, a tratti spaventosa, dovevano catturare l’attenzione del pubblico, per poi indottrinarlo. Una tipologia di storia a carattere religioso che abbiamo scoperto più volte, in Leggende Affilate.
L’inquisitore domenicano spiega che, talvolta, “i diavoli giocano a trasformarsi in cavalieri dal volto ardente e si combattono tra loro”. Con questa frase iniziale subito comunica svariate informazioni, su più livelli, compresa la posizione dottrinale più comune in seno alla Chiesa: ovvero che, sì, gli avvistamenti di eserciti dell’Aldilà sono avvenuti, ma sono frutto dell’operato del Diavolo.
Ancora una volta, i religiosi cristiani entrano a gamba tesa nell’insieme delle credenze popolari derivate da un’antica tradizione pagana, per riadattarle e riconfigurarle. Come ho già detto più volte in altri episodi, non sarebbe stato possibile sostituire integralmente una religione con un’altra, ecco perché la Chiesa assorbì, a mano a mano, i caratteri pagani, modificandoli, giustificandoli. Le armate soprannaturali che si scontravano tra loro già nell’Antichità, come riportano molti autori tra i quali Plinio il Vecchio1, sono presenti anche nella nuova religione monoteistica, ma la loro origine diventa demoniaca.
L’inquisitore racconta che la gente li chiamava “gli ardenti”, o “fiammeggianti”, per rimarcare il fatto che fossero figure legate al fuoco dell’Inferno. Nomi che suonano davvero fantasy, probabilmente diffusi in determinati luoghi della Francia del periodo, e infatti non sono riuscito a trovare nessun altro termine simile, in riferimento ai guerrieri della caccia selvaggia. Un binomio, però, quello del guerriero soprannaturale e del fuoco, che ricorre, anche nell’Antichità; lo stesso Plinio il Vecchio ci racconta di eserciti impegnati in straordinarie battaglie cosmiche che, guarda un po’, provocavano incendi tra le nubi. Tra l’altro, chissà perché, un episodio tra i più mirabili avvenne in Umbria.
“Clangore d’armi e squilli di trombe furono uditi nel cielo, (…) quelli di Amelia e di Todi scorsero armi nel cielo scontrarsi fra loro, venendo da oriente a occidente, e furono sconfitte quelle che venivano da occidente. Che persino il cielo si infiammi, non ha nulla di stupefacente, e in effetti lo si è visto spesso, quando le nubi sono invase da un incendio particolarmente grande.”
Historia Naturalis II
Chi abita da quelle parti, insomma, ogni tanto alzi lo sguardo al cielo per dare un’occhiata, che non si sa mai.
L’inquisitore domenicano prosegue la sua descrizione cristianizzata della caccia selvaggia spiegando che talvolta i diavoli in armi vestono i panni di sovrani che cacciano o giocano, chiamati dalla gente comune: masnada di Hellequin, o cavalieri di Artù.
Ed ecco che entriamo di prepotenza nel calderone dei miti europei, dando luogo a un vero e proprio minestrone. Due nomi: Hellequin e Artù, che sembrerebbero non c’entrare niente l’uno con l’altro, ma in realtà presentano molti aspetti in comune. Hellequin, Harlequin o Helleking guidava l’eterna processione di dannati al sopraggiungere del solstizio d’inverno.
“Li guidava un grande gigante
Roman de Fauvel, 1310-14
Che arrivò con un grande tumulto
Era vestito del suo sudario.
Credo fosse Hellequin
E tutto il resto dell’esercito
che lo segue, completamente infuriato.”
In principio era lo stesso Odino a guidare la schiera furiosa, ma col tempo la figura di questo condottiero assunse caratteristiche completamente differenti, consone alla nuova religione. Hellequin, quindi, conduce le schiere dei morti infuriati talvolta vestito di ferro, talvolta coperto da un sudario, per rimarcare la sua appartenenza all’Oltretomba. Vi sono numerose altre varianti del termine che condividono la stessa radice linguistica, sia germaniche che francesi. Per quanto riguarda l’Italia, però, dobbiamo attendere Dante Alighieri e il suo Inferno: poiché Alichino è uno dei diavoli delle Malebolge, comparso nei canti XXI, XXII e XXIII dell’Inferno. Poi, secondo alcuni storici, il termine avrebbe dato vita alla maschera carnevalesca dell’Arlecchino. Ma quella è tutta un’altra storia.
Di artù, invece, non c’è molto da spiegare. Tutti lo conoscono, anche se in maniera superficiale. Difficile stabilire l’origine esatta di tale personaggio, anche perché si è modificato molto nel corso dei secoli. In ogni caso, Artù è un condottiero come Hellequin, che condivide una genesi germanica, poi anglicizzata e, infine, assorbito dal cristianesimo (come Hellequin).
Il racconto dell’inquisitore prosegue con il coinvolgimento proprio di Artù, quando un certo contadino, secondo quel che si diceva in giro, da quelle parti, si scoprì testimone di un avvistamento. Una notte, al chiaro di luna, mentre il contadino trasportava un fascio di legna, comparve un’innumerevole schiera di cani da caccia, seguita da persone a piedi e a cavallo. Di certo, non una caccia signorile, visto l’ora. Il contadino si avvicinò per chieder loro chi fossero, e la risposta fu: “noi siamo il seguito di Artù, alla cui corte puoi venire con noi, se lo desideri.”
Il contadino non se lo fece ripetere due volte. Seguì la caccia selvaggia fino a un “palazzo grande e nobilissimo, dove vide cavalieri e dame giocare e ballare, mangiare e bere piatti raffinati”. Lui rimase nel palazzo fino a tarda notte, finché non gli fu detto d’andare a dormire in una stanza con un letto riccamente ornato in cui giaceva una signora meravigliosamente bella. Presumibilmente, dopo aver mangiato, bevuto e consumato un altro tipo di pietanza con la signora meravigliosamente bella, il contadino si addormentò.
Il finale del racconto, naturalmente, ci riporta coi piedi per terra, ricordandoci della natura demoniaca di queste visioni: i diavoli si divertono, e ingannano di proposito, soprattutto avvalendosi di tentazioni. E, infatti, al mattino dopo, il contadino si risvegliò sbracato sul suo fascio di legna, che gli aveva fatto da giaciglio, all’addiaccio, per tutta la notte: altro che letto riccamente ornato. Insomma, si era sognato tutto. Un finale, a dir la verità, un po’ sottotono. Poiché mi aspettavo qualcosa di più truculento, come la morte del contadino che aveva gozzovigliato in sogno per poi finire all’Inferno.
Un altro contadino fu spettatore di un avvistamento simile, stavolta però dai risvolti più comici, o macabri, dipende dal senso dell’umorismo cui si è abituati. Poiché dopo la comparsa di simili cavalieri, quest’altro contadino si avvicinò per chiedere a quegli individui chi fossero, e uno di loro, vedendolo, ruotò all’indietro la testa sul collo, di 180°, in maniera del tutto innaturale, e gli rispose: “Mi sta dritto il cappuccio?”
Questo cavaliere, con la testa girata al contrario, che dava sulla schiena, chiedeva se gli stava dritto il cappuccio; un cappuccio che stava dritto rispetto alla testa, ma non rispetto al resto del corpo. Una scena grottesca, che anticipa di svariati secoli la commedia alla Rabelies, e che rientra nell’ambito del mondo “al contrario”, ovvero i “marginalia”, quei disegnetti a margine dei manoscritti medievali che raffigurano scene assurde, comiche, violentissime, talvolta sessualmente esplicite.
Tutti elementi che servono, come già detto, a catturare l’attenzione del pubblico. Questo racconto, infatti, doveva servire ai predicatori per insegnare la dottrina, e farlo tramite sketch divertenti risultava più facile. Immagino le grasse risate che scaturivano tra gli spettatori della predica, nell’udire queste scenette divertenti. Lo stesso tipo di atmosfera che ho inserito ne “La Canzone dei Morti”, la cui storia principale viene guidata proprio da una canzone cantata di bocca in bocca e apprezzata da tutti, poiché ironica, dissacrante. Così dissacrante da piacere pure ai dannati.
Se questa storia di caccia selvaggia ti ha appassionato, cantala a tutti, o ancora meglio condividi l’episodio, così mi aiuterai a diffondere queste Leggende Affilate tra i sanguinari e le sanguinarie più meritevoli. Alla prossima.
“A volte i diavoli giocano a trasformarsi in cavalieri dal volto ardente che si combattono tra loro. La gente li chiama tradizionalmente gli arzei, cioè quelli ardenti o fiammeggianti. Oppure talvolta assumono l’aspetto di re che cacciano o giocano, nel qual caso vengono chiamati seguito di Allequin o di Artù. Ho sentito una volta di un certo contadino vicino al Mont du Chat il quale, mentre riportava un fascio di legna al chiaro di luna, scorse un numero innumerevole di cani da caccia, seguiti da una moltitudine infinita di persone a piedi e a cavallo. Quando chiese a uno di loro chi fossero, rispose che erano il seguito di Artù, alla cui corte vicina entrambi avrebbero potuto recarsi, se lo avesse desiderato. Al contadino sembrò di seguirli ed entrare in un palazzo grande e nobilissimo, dove vide cavalieri e dame giocare e ballare, mangiare e bere piatti raffinati. Alla fine della serata gli fu detto di andare a letto e fu condotto in una stanza con un letto riccamente ornato in cui giaceva una certa signora che era meravigliosamente bella. Dopo essere entrato e aver dormito, il giorno dopo si svegliò e si ritrovò disteso a faccia in giù, drappeggiato sulla legna da ardere a mo’ di scherzo. Ho sentito parlare anche di un altro contadino che si è imbattuto in una compagnia simile di cavalieri. Uno di loro si voltò verso un altro e poi girò la testa all’indietro. Ha detto: “Il mio cappuccio è dritto?” E continuavano a farlo ancora e ancora. Le donne intraviste nelle danze sembrano essere dello stesso tipo. Ancora una volta, ho sentito che qualcun altro ha incontrato una famiglia simile cavalcando allo stesso modo; e l’uno si volse all’altro, e girò la testa, dicendo: “Il berretto mi sta bene.” E questo lo ripetevano spesso. Sembra che facciano la stessa cosa con le donne nei balli.”
Étienne de Bourbon, Trattato su vari materiali di predicazione
- Historia Naturalis II ↩
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