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22 Febbraio 2022

A far la guerra per una gallina e dodici pulcini di pasta

far la guerra per una gallina e dodici pulcini di pasta

Ogni pretesto è buono per far la guerra. Soprattutto nella Romagna di metà Trecento, dove ci si prese a mazzate a causa di una gallina

La guerra è cosa seria, lo è sempre stata fin dagli albori della civiltà umana. Interi popoli sono scesi in campo armati di ferro per difendere i propri principi, l’identità, la vita stessa, oppure per rubare tutto quanto al nemico. O forse no. A volte anche la guerra avviene per i motivi più futili, come nel caso della Pasqua medievale più pazza di sempre: quando ci si prese a mazzate per una gallina e dodici pulcini di pasta (con carne cotta).

“Come per lievi cagioni suscitò novità in Romagna.
Essendo conte di Romagna messer Astorgio di Duraforte di Proenza il quale avea per moglie una nipote di papa Clemente sesto, o che più vero fosse sua figliuola, il papa l’amava, e intendeva a farlo grande. Costui il dì della Pasqua di Natale del detto anno, mostrando familiarità co’gentiluomini di Faenza, gli fece invitare a pasquare seco. Ed essendo a desinare riscaldati dalla vivanda e dal vino, messer Giovanni de’Manfredi dimestico del conte gli disse; in cotale mattina per cagione di padronatico, ci è debitore il vescovo di Faenza di mandare una gallina con dodici pulcini di pasta, e con carne cotta, e quando questo e’non fa, a noi è lecito mandare alla sua cucina e trarne la vivanda, e ciò che in quella si trova. La gallina non è venuta, e però piacciavi che con vostra licenza noi possiamo usare la ragione del nostro padronatico.”

Giovanni Villani, Nuova Cronica. Libro Primo. Capitolo LIII

Il conte di Romagna, il francese Hector de Durlort, legato al papa per via del matrimonio con sua nipote (oppure figlia, azzarda il cronista), invitò per il pranzo pasquale alcuni signori di Faenza. La ragione di tale convivialità non era però dovuta alla sola festa religiosa. Perché fra le due parti vi erano motivi di tensione, primo fra tutti lo squarcio che spaccava in due l’Italia di quel tempo: la guerra fra guelfi e ghibellini.

Il conte era naturalmente di parte guelfa per via dei suoi legami col papa, ma il signore di Faenza, Giovanni Manfredi, era invece ghibellino. E, a quanto pare, aveva in mente di far valere le proprie ragioni proprio durante quella sacra occasione.

Era ormai consuetudine che il vescovo, la mattina di Pasqua, gli mandasse una gallina con dodici pulcini di pasta e carne cotta. Si trattava di un uso dovuto al “padronatico”, ovvero ai privilegi che Giovanni poteva impugnare contro il clero stesso, legati a contratti e concessioni terriere, di cui la gallina era un simbolo: ricevere un dono “obbligato” dal vescovo era infatti una dimostrazione di supremazia, non importa quanto ci appaia frivolo oggi giorno (e perfino all’epoca, considerato che il cronista stesso parla di “lievi cagioni”).

Della ricetta trecentesca non ho trovato niente di più approfondito. Posso solo ipotizzare che la gallina fosse arrostita o bollita e che i dodici pulcini di pasta e carne cotta fossero dei pasticci da servire assieme alla gallina, come contorno. Il tutto presumibilmente innaffiato con vino al miele e acqua santa (per una perfetta benedizione pasquale!).

Quella mattina, però, Giovanni si lamentò col conte di non aver ricevuto alcuna gallina. E siccome gli era dovuta per ragioni di padronatico, chiese d’andarsela a prendere direttamente dalla cucina del vescovo.

“La domanda fu indiscreta essendo in casa altrui, che non era certo che il vescovo avesse fallato: e il conte con poco sentimento, non considerando il pericolo della novità, concedette quella licenza follemente. Il vescovo avea fatto suo dovere, e avea mandata a casa messer Giovanni d’Alberghettino la gallina e i pulcini, a cui l’anno toccava quello onore, e la donna per un suo scudiere l’avea mandata al marito al palagio del conte; ma per comandamento fatto a’portieri per lo conte che alcuno non vi lasciassero entrare, se n’era tornato a casa.”

In realtà il vescovo aveva rispettato gli accordi pasquali. La gallina infatti era stata mandata a casa di messere d’Alberghettino, che in quel momento si trovava a desinare col conte. Tuttavia, lo scudiero che aveva fatto tutta la strada fin lì per portarla si era visto sbattere le porte in faccia dai soldati del conte stesso, che stranamente avevano ricevuto ordini di non far entrare nessuno. Quindi il pretesto era bello che servito: il conte “non considerando il pericolo della novità” concesse la licenza a Giovanni d’andarsi a prendere la gallina nella cucina del vescovo. E le cose sfuggirono presto di mano.

“Messer Giovanni, ch’avea avuta la licenzia dal conte, disse a’suoi famigli: andate, e chiamate de’nostri amici, e dite loro rechino le scuri, ed entrate nel vescovado: e se le porti non vi sono aperte, colle scuri l’aprite, e della cucina del vescovo gittate fuori vivanda, e ciò che vi trovate dentro. Costoro andando agli amici di messer Giovanni diceano: togliete le scuri, e venite con noi. Coloro ch’erano invitati che togliessono le scuri non sapendo la cagione, pigliarono anche l’altre armi, e l’uno confortava l’altro: e così armati traevano a casa messer Giovanni.”

Giovanni disse ai suoi cavalieri di chiamare a raccolta gli uomini, di impugnare le scuri ed entrare nel vescovado per tirar fuori “vivanda, e ciò che vi trovate dentro”. Gli uomini impugnarono le scuri, ma già che c’erano si armarono di tutto punto e si radunarono attorno alla casa di Giovanni, pronti a far la guerra.

“Le masnade del conte a piè e a cavallo che il dì aveano la guardia, temendo di questa novità, trassono a casa messer Giovanni, e cominciarono mischia contro a coloro vi trovarono armati. I Terrazzani si difendeano non sappiendo la cagione del fatto: la gente traeva da ogni parte a romore. Sentendosi la novità al palagio dov’erano i convitati, facendosi il conte alle finestre, vidde a pié del palagio uno Franceschino di Valle, grande amico di messer Giovanni Manfredi, a cui commise che andasse da sua parte a comandare alla sua gente e ai cittadini che lasciassono la zuffa e non contendessono assieme.”

I masnadieri del conte francese, che aveva condotto con sé in Italia quattrocento cavalieri provenzali e 1800 lance fornitegli dai signori lombardi1 si accorsero della compagnia armata e, temendo una ribellione, si diressero alla casa del signore di Faenza. I due schieramenti cominciarono a combattere, ignorando la ragione della zuffa. Gli abitanti nell’udire rumori di guerra si spaventarono e uscirono in strada, tanto che le voci giunsero pure alle orecchie del conte, chiuso nel suo palazzo. Per fermare quello scontro insensato mandò un messaggero fino al luogo della mischia, qualcuno che avrebbe dovuto ordinare la resa delle due parti e che, senza saperlo, stava andando incontro al suo destino.

“Costui disarmato andò a fare il comandamento da parte del conte. La gente del conte, che conoscano costui amico di messer Giovanni, presono maggiore sospetto, e rivolsonsi contro a lui e volendogli uno dare della spada in sulla testa, parando la mano al colpo gli fu tagliata: e seguendo i colpi contro a lui, fu morto, e in quello stante tre altri amici di messer Giovanni vi furono tagliati e morti. Per la qual cosa, al matto movimento aggiunto la vergogna e il danno, generò fellonia e sdegno in messer Giovanni, e conceputo nel petto, propose nella mente di tentar cose quasi incredibili a poterli venir fatte, secondo il suo piccolo e povero stato, le quali per molto studio copertamente, come vedere si potrà appresso, condusse al suo intendimento.”

Il messaggero del conte raggiunse la mischia e tentò di fermare quella stupida guerra, ma i cavalieri francesi sapevano che costui era amico di Giovanni e quindi s’insospettirono. Uno di loro gli andò incontro con la spada sollevata. Il messaggero alzò la mano per coprirsi e se la ritrovò tagliata. Dopodiché venne trafitto ancora fino a stramazzare al suolo. Giovanni lo vide morire, così come vide gli altri suoi uomini e amici. E da quel momento in poi maturò in lui la voglia di “tentar cose quasi incredibili a poterli venir fatte”.

“Come messer Giovanni Manfredi rubellò Faenza alla Chiesa.
Messer Giovanni Ricciardi de’Manfredi avendo conceputo il tradimento ch’egli intendea fare, cominciò segretamente a dare ordine al fatto: e avvennegli bene, che il conte sopraddetto andò a corte a Vignone. E per alcuno sentimento di gelosia, per sicurtà menò con seco messer Guglielmo fratello carnale del detto messer Giovanni, come per grande confidenza di sua compagnia, e lasciò vececonte un Provenzale di poca virtù, con trecento cavalieri a sua compagnia. E oltre a ciò, lasciò fornite le fortezze della città e le castella di fuori. Messer Giovanni de’Manfredi con molta stanzia tenea grande familiarità col vececonte, e con singulare studio traeva a sé l’amore e la benivolenza de’cittadini. E come gli parve tempo, cominciò a mettere copertamente fanti in Faenza a pochi insieme, e feceli ricettare a’suoi confidenti. E seppe sì fare, che in poco tempo ebbe nella città cinquecento fanti forestieri a sua petizione, innanzi che il vececonte o alcuno se ne fosse accorto.”

Giovanni Villani, Nuova Cronica. Libro Primo. Capitolo LIV

Approfittando dell’assenza del conte, tornato a corte in Provenza, e del viceconte di “poca virtù” lasciato a comandare con trecento cavalieri, Giovanni diede inizio al piano di riconquista della città di Faenza. Fece arrivare, pochi alla volta ma in breve tempo, cinquecento fanti mercenari senza che nessuno se ne accorgesse, e raccolse così un esercito per dare inizio alla guerra vera e propria.

“E appressandosi il tempo che il fatto si dovea muovere, la cosa si venia più scoprendo. Allora il visconte ingelosito mandò a fare richiedere degli amici di messer Giovanni: costoro andarono prima a messer Giovanni a sapere quello ch’avessono a fare. Messer Giovanni disse loro: tornatevi a casa, e armatevi co’vostri parenti e amici, e levate il romore. Ed egli co’cittadini con cui egli si confidava, e co’fanti che avea messi in Faenza s’andò ad armare, e accolto il suo aiuto, uscì delle case armato, e fecesi forte a’suoi palagi. Levato il romore, il visconte fu a cavallo co’ suoi cavalieri e con fanti appie soldati, e dirizzossi alle case di messer Giovanni, ove sentiva la gente armata. E giunto al luogo, trevando messer Giovanni co’ suoi armati cominciò a combattere con loro fortemente. Messer Giovanni co’suoi si difendeva virtodiosamente, sostenendo il dì e la notte, senza perdere della piazza.”

Giovanni e la sua masnada di ghibellini armati per la guerra uscirono dai nascondigli per radunarsi attorno ai palazzi fortificati. Il viceconte non appena ebbe udito il levarsi del “romore” scese a sua volta con tutti i cavalieri di Provenza e si diresse a spron battuto verso di loro, per ingaggiare battaglia. Combatterono per tutto il giorno e per tutta la notte.

“La mattina messer Giovanni prese una parte della sua gente, e misesi sul fosso della città, onde attendea soccorso da alcuni suoi amici di fuori, e sforzandosi il visconte di levarlo di quel luogo, non ebbe podere. La gente venne, e misono un ponte, ch’aveano fatto però, sopra il fosso, e aiutati  da quelli d’entro valicarono senza contrasto, e furono trecento fanti di Valdilamone, e altri amici di messer Giovanni, e due bandiere di quaranta cavalieri che vi mandò il signore di Ravenna.”

All’alba, dopo una notte intera di combattimenti, Giovanni coi suoi masnadieri prese possesso di una porta della città, ai piedi del fosso, nell’attesa di rinforzi dagli alleati forestieri. Il viceconte cercò di sconfiggerlo per impedire che l’accesso alla città venisse mantenuto aperto, ma non vi riuscì. Giovanni tenne duro fino all’arrivo dei rinforzi, fra cui trecento fanti di Valdilamone e “due bandiere di quaranta cavalieri” da Ravenna. Le bandiere cui fa riferimento erano unità militari attorno cui si raccoglievano i cavalieri di città che, diversamente dalla guerra feudale combattuta in gran parte d’Europa, non rispondevano a uno specifico signore ma alla collettività e al governo urbano.

“Il provenzale sbigottito per codardia, avendo la maggior parte de’cittadini in suo aiuto, e tutte le fortezze della città in sua guardia, e l’aiuto delle masnade di santa Chiesa a cavallo e a pié, ed essendo vincitore, standosi fermo, tanta viltà gli occupò la mente, ch’egli abbandonò le fortezze della terra, e la libera signoria ch’egli avea nelle sue mani e tutto il suo onore, e non stato cacciato, abbandonò la città, e fuggissi a Imola colla sua gente, ove per reverenzia di santa Chiesa fu ricevuto, e raccettato mansuetamente. E abbandonata per costoro la città di Faenza e le sue fortezze, messer Giovanni di messer Ricciardo de’Manfredi ne rimase libero signore. E incontanente si collegò col capitano di Forlì, e col signore di Ravenna, e co’signori di Bologna, che temeano della Chiesa, perché per tirannia teneano le città contro al volere della Chiesa, e segretamente davano aiuto e consiglio a messer Giovanni, acciocché Faenza e Romagna non rimanesse all’ubbidienza della Chiesa. Questo appresso si dimostrò manifestamente, come leggendo nostro trattato si potrà trovare. E questo rubellamento avvenne al dì ventisette di febbraio del detto anno.”

Con l’arrivo dei rinforzi, ma soprattutto con il valore degli uomini e dello stesso signore che li comandava, Giovanni ebbe la meglio sui guelfi provenzali e riuscì a cacciarli dalla città. La guerra era finita e Faenza era tornata libera dall’obbedienza della Chiesa, pronta a festeggiare con gallina e pulcini di pasta. Sempre che fossero avanzate delle porzioni, da qualche parte.

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  1. Astorgio di Duraforte, di Albano Sorbelli, Enciclopedia italiana, 1930
Lorenzo Manara
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