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5 Aprile 2023

L’ultimo pretoriano: Sempronio Denso

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L’estremo sacrificio dell’ultimo pretoriano fedele all’imperatore: l’eroica difesa di Sempronio Denso contro gli assassini di Galba

15 gennaio dell’anno 69 dopo Cristo. L’imperatore romano Galba, successore di Nerone, sta assistendo a un sacrificio propiziatorio nel tempio di Apollo tramite rito pubblico. L’aruspice però, leggendo le viscere della bestia ammazzata sull’altare, predice insidie incombenti e la venuta di un nemico, proprio sulla soglia di casa. Pronunciata tale nefasta profezia, un senatore abbandona di fretta la cerimonia, dicendo d’essere atteso dal suo architetto per l’acquisto di una casa in campagna. Una scusa che serve a coprire i suoi veri intenti: rovesciare l’imperatore e prenderne il posto. Perché i tempi sono maturi e persino gli dèi sono con lui. Il momento dell’assassinio è giunto.

Il nome di questo congiurato è Otone, potente senatore di origini etrusche un tempo intimo amico di Nerone, prima di rivoltarglisi contro. Giovane, molto più dell’imperatore Galba, e ambizioso, tanto da arrivare a credere che prima o poi sarebbe stato nominato successore dell’imperatore. Una nomina per lui scontata ma che, tuttavia, non avvenne. Poiché Galba aveva designato qualcun altro: Lucio Calpurnio Pisone.

Otone, però, non era un tipo da rinunciare facilmente. Anche senza nomina, si sarebbe preso il trono imperiale comunque, a qualsiasi costo.

“27. Il quindici gennaio Galba stava sacrificando davanti al tempio di Apollo: l’aruspice Umbricio gli dichiara che le viscere davano segni sinistri, predicendo insidie incombenti e un nemico in casa. Lo sente Otone, che gli stava vicino, e vuole interpretarlo, rovesciandone il senso, di buon augurio per sé e propizio ai suoi disegni. Passano pochi momenti e il liberto Onomasto gli annuncia che l’architetto e i costruttori lo aspettavano: questa la frase convenuta per indicare che i soldati si stavano radunando e che la congiura era pronta a scattare. Al suo allontanarsi, qualcuno gliene chiese motivo e lui diede loro a intendere di essere in trattative per una vecchia casa di campagna, il cui stato di solidità andava prima verificato; poi, appoggiandosi al braccio del liberto, si avvia attraverso i palazzi di Tiberio, verso il Velabro e di lì punta al miliare aureo nel foro, sotto il tempio di Saturno. Qui lo salutano imperatore ventitré guardie del corpo: Otone era preoccupato dell’esiguo numero dei presenti, ma essi lo fanno salire in fretta su una lettiga e, spade in pugno, lo portano via. Lungo il percorso si accoda un altro numero di soldati di analoga consistenza: alcuni perché complici, ma i più per la stranezza della scena, chi gridando e a spada levata, chi in silenzio e aspettando coraggio dall’evolversi della situazione.
28. Era di guardia alla caserma dei pretoriani il tribuno Giulio Marziale. Questi, o perché sconvolto dalla gravità di un attentato così improvviso, o temendo che le complicità interne fossero più radicate e che una resistenza equivalesse alla morte, suscitò in molti il sospetto d’una sua complicità. Anche gli altri ufficiali, tribuni e centurioni, preferirono accettare il presente piuttosto che affrontare un avvenire onorevole ma pericoloso. Risultato di questi comportamenti fu che pochi osarono quel colpo di stato, un certo numero lo volle, tutti lo subirono.”

Tacito Historiae, libro I

Otone raggiunse il miliario aureo nel foro di Roma, ai piedi del tempio di Saturno, ove si diceva che tutte le strade del mondo convergessero esattamente lì, in quel punto. Si incontrò con 23 pretoriani pronti ad appoggiare la sua rivolta, i quali lo acclamarono imperatore: soldati che avevano giurato di proteggere Galba, ma inaspriti dalle politiche austere di un vecchio ormai giunto alla fine dei suoi giorni.

Quei 23 pretoriani portarono Otone in lettiga fino alla caserma, dove gran parte dei soldati della guardia imperiale si levò in armi per unirsi alla congiura. Ufficiali, tribuni e centurioni, dinnanzi a quel principio di rivolta, preferirono non agire. Si fecero da parte senza impedire la chiamata alle armi. E così cominciò il colpo di stato che Tacito nelle sue Historie definisce condotto da pochi, ma subito da tutti. Come in verità avviene nella maggior parte delle rivoluzioni, il cui principio è spesso debole, e quindi sottovalutato.

“29. Galba, intanto, non sapeva nulla e, tutto preso dai sacrifici, si raccomandava agli dèi di un impero non più suo. A questo punto si sparse la voce che avevano trascinato alla caserma pretoriana un senatore non identificato, e, subito dopo, che questo senatore era Otone. Poi arrivarono informazioni da tutta la città sulla base del racconto di chi li aveva incontrati: chi esagerava per paura la realtà e chi minimizzava, condizionato, anche in quell’ora, dall’adulazione. Si consultarono e decisero di sondare la disposizione d’animo della coorte pretoria di guardia al Palazzo, ma non personalmente da parte di Galba, la cui autorità doveva restare intatta, per un intervento più energico. Pisone raccoglie i soldati e così parla dalla gradinata del Palazzo: “Soldati, oggi sono cinque giorni da che, ignaro del futuro e ancora se questo titolo fosse desiderabile o temibile, fui chiamato a essere Cesare: dipende ora da voi decidere quale destino della nostra casa e dello stato. Non perch’io tema un più funesto destino per me che, provato nelle avversità, apprendo ora come non minori rischi s’affaccino nel momento del successo; ma soffro per il padre, il senato e l’impero stesso, se oggi ci tocca morire o, ciò che per i buoni è altrettanto triste, uccidere. Consolava, nei recenti torbidi politici, vedere la città non insanguinata e il trapasso dei poteri verificarsi senza discordia. La mia adozione sembrava scelta sufficiente a evitare, anche dopo Galba, la guerra.
30. “Nessun merito avanzo per la mia nobiltà o la mia vita incorrotta. Del resto è superfluo far riferimento alle mie virtù in un confronto con Otone, i cui vizi, sua unica gloria, hanno sconvolto l’impero anche quando altri non era che amico dell’imperatore. Si deve allora al portamento, al suo incedere, al suo effeminato modo di vestire noto a tutti, se merita l’impero? S’ingannano quanti subiscono il fascino della sua dissipazione mascherata di generosità: costui non saprà donare, ma solo distruggere. Ora sogna dissolutezze, baldorie e la compagnia di femmine: questo ritiene privilegio di un potere, di cui vuole per sé le bizzarrie e i piaceri e per tutti la vergogna e il disonore; perché nessuno ha mai esercitato virtuosamente un potere acquistato con l’infamia. Galba è stato fatto Cesare dal consenso universale; Galba, col vostro consenso, ha fatto me Cesare. Se stato, senato e popolo sono parole prive di senso, è interesse vostro, commilitoni, impedire che siano i più scellerati a creare un imperatore. Qualche volta in passato si è sentito di legioni in rivolta contro i loro comandanti: la vostra fedeltà e la vostra reputazione sono rimaste fino a oggi senza macchia. Anche nel caso di Nerone, fu lui ad abbandonare voi, non voi Nerone. E ora saranno una trentina scarsa di transfughi e disertori, a cui nessuno consentirebbe di scegliersi un centurione o un tribuno, ad assegnare l’impero? Accetterete questo precedente e, senza muovere un dito, vi renderete complici di questo delitto? Un tale arbitrio dilagherà nelle province e su noi ricadranno le conseguenze di questo crimine, su voi quelle della guerra. Per uccidere il vostro principe, nulla vi si promette di più che per serbarvi senza colpa, anzi, per la vostra fedeltà avrete quel donativo che altri vi promette per il tradimento.”
31. Quel che restava della coorte (alcune guardie del corpo già prima si erano dileguate) ascolta l’arringa di Pisone senza disapprovarlo e, tipico delle situazioni confuse, leva in alto le insegne per impulso istintivo e senza piano prestabilito piuttosto che per mascherare il tradimento, come poi si interpretò. Subito dopo viene inviato Celsio Mario ai distaccamenti illirici accantonati nel portico di Vipsanio Agrippa; gli ex centurioni primipili Amullio Sereno e Domizio Sabino ricevono l’ordine di richiamare dall’atrio della Libertà i reparti dell’armata germanica. Non davano invece affidamento gli uomini della legione di marina, ostili per il massacro dei loro commilitoni voluto da Galba all’atto del suo ingresso in Roma. Intanto si portano alla caserma dei pretoriani i tribuni Cetrio Severo, Subrio Destro, Pompeo Longino, nella speranza di piegare a migliori consigli la rivolta, appena agli inizi e non ancora consolidata. Di questi tribuni, Subrio e Cetrio sono fatti oggetto di minacce da parte dei soldati; Longino invece subisce maltrattamenti e viene disarmato, perché, non per il grado ricoperto, ma per la sua appartenenza alla cerchia degli amici di Galba, era a lui fedele e quindi più sospetto ai rivoltosi. La legione di marina non esita a unirsi ai pretoriani. Celso si vede puntare contro le armi dai distaccamenti illirici e deve fuggire. Si protrasse invece l’incertezza dei reparti di Germania, indeboliti nel fisico ma tranquilli nell’animo, perché, inviati da Nerone ad Alessandria e tornati malconci per i dissesti della traversata, avevano ricevuto da Galba cure particolari.”

L’imperatore Galba, nel frattempo, non sapendo nulla di tutto ciò proseguiva con i suoi sacrifici e cerimonie, raccomandando agli dèi un impero non più suo. Finché le voci della rivolta non giunsero alle sue orecchie, esagerate da alcuni, minimizzate da altri. Allora si decise di rivolgersi alla coorte pretoriana che stava di guardia al palazzo, per avvisare dell’imminente pericolo ma, soprattutto, per misurare lo stato d’animo dei soldati. Poiché la vita dell’imperatore dipendeva da quegli uomini, qualunque fossero le loro intenzioni: che decidessero di combattere per lui o contro di lui.

Ad arringare i pretoriani fu mandato proprio Pisone, il successore che Galba aveva designato come futuro imperatore di Roma. Il discorso fu tenuto sugli scalini del palazzo, dinnanzi agli uomini che componevano l’élite dell’esercito romano, per la verità in numero minore di quanto dovevano essere. Molti, infatti, non si erano presentati. E questo, di per sé, era già un brutto segnale.

“Soldati, oggi sono cinque giorni da che fui chiamato a essere Cesare: dipende ora da voi decidere quale sarà il destino della nostra casa e dello stato.” Comincia così il discorso di Pisone alla coorte pretoriana. Un discorso che mira ad avvisare i cittadini riguardo il futuro dell’Impero, minacciato da uomini corrotti la cui unica gloria sta nel vizio e negli “effeminati modi di vestire” dovuti alla dissolutezza, ai sogni di baldoria. Pisone, come l’imperatore che lo aveva adottato discendente, rappresentava la severa austerità e l’equilibrio. Otone, invece, l’effimera passione che spinge gli uomini ad agire impulsivamente. “Vi rendereste complici di un delitto senza muovere un dito?” chiese il futuro imperatore ai pretoriani. E i pretoriani, naturalmente, risposero di no, levando in alto le armi e le insegne. Non si sa se in quel momento stessero mascherando le loro vere intenzioni, o se stessero invece ancora decidendo da che parte schierarsi. Tacito propende per la seconda ipotesi. Anche perché fra di loro si trovava Sempronio Denso, colui che si sarebbe dimostrato fedele fino alla fine, fino alla morte. Il gioco degli schieramenti era appena iniziato.

Sul territorio si trovavano diverse legioni pronte a intervenire rapidamente. Ciascuna legione, però, possedeva una propria storia, delle proprie preferenze politiche, anche piuttosto marcate, e nei casi di rivolta i soldati avrebbero potuto manifestare tali preferenze in maniera indipendente, autonoma, con la spada in pugno, decretando le sorti dell’intero impero. Ed è quel che accadde dopo che Otone levò in armi i pretoriani della guardia. Alcune legioni non avevano in simpatia l’imperatore Galba e la sua austerità, in particolare la Legio I Adiutrix, decimata poco tempo prima per volere dello stesso imperatore tramite la terribile condanna a morte di un soldato ogni dieci. Tale legione, infatti, si schierò con Otone, alimentando le file dei congiurati.

“32. Già tutta la plebaglia, mescolata agli schiavi, riempiva il Palazzo, chiedendo, in un chiasso disordinato, la testa di Otone e la morte dei congiurati, come se, al circo o a teatro, reclamassero un divertimento, ma senza una scelta vera, senza sincerità: lo stesso giorno avrebbero preteso il contrario con altrettanto accanimento. Era ormai una tradizione adulare qualsiasi principe con sfrenate acclamazioni e inconsistenti entusiasmi. Frattanto Galba non riusciva a risolversi tra due pareri diversi. Tito Vinio proponeva di barricarsi nel Palazzo, mobilitare gli schiavi, bloccare le entrate, non affrontare i ribelli scatenati. I colpevoli dovevano avere il tempo di ravvedersi, gli onesti di concertare un’azione comune: il crimine, diceva, punta sull’impeto, le decisioni sagge si affermano lentamente; infine, avrebbero sempre avuto la possibilità di contrattaccare, se così avessero scelto, mentre tornare indietro, in caso di pentimento, sarebbe dipeso da altri.
33. Gli altri erano per intervenire subito e impedire l’estendersi di una rivolta di pochi, ancora debole: ciò, argomentavano, avrebbe disorientato anche Otone; altrimenti questi, che pure si era dileguato furtivamente e s’era presentato a uomini che non lo conoscevano, grazie all’esitazione e alla viltà di avversari capaci solo di perdere tempo, avrebbe avuto l’occasione di imparare a far la parte di principe. Non bisognava aspettare che Otone, assicuratosi l’appoggio dei pretoriani, invadesse il foro e, sotto gli occhi di Galba, salisse sul Campidoglio, mentre un nobile imperatore coi suoi intrepidi amici si barricava dentro la soglia di casa, deciso, s’intende, a sostenere l’assedio. Aiuto decisivo poi quello degli schiavi, quando l’appoggio di tutta questa gente e, ciò che più conta, l’indignazione iniziale comincerà a raffreddarsi! In conclusione, una soluzione vile è soluzione insicura; e se è inevitabile soccombere, non resta che affrontare il pericolo: ciò avrebbe prodotto maggiore risentimento contro Otone e avrebbe costituito un gesto onorevole per loro. Poiché Vinio si opponeva a questa proposta, Lacone lo affrontò minaccioso, sobillato, nel suo accanito odio personale da Icelo, a imboccare la via della rovina dello stato.
34. Cessò di esitare Galba, allineandosi con chi gli suggeriva la condotta di più vistoso effetto. Pisone doveva però precederlo alla caserma pretoriana: si puntava sul fatto ch’era giovane e sul suo nome famoso, sul fatto che da poco godeva il favore di Galba e sulla sua avversione per Tito Vinio. Questa forse era reale, forse per tale la spacciavano gli avversari di Vinio: e all’esistenza di questo odio è più facile credere. Era appena uscito Pisone, quando si sparse la voce, vaga e incontrollata dapprima, che Otone era stato ucciso nella caserma; poi, tipico delle grandi imposture, compare chi afferma di aver assistito e visto: notizia facilmente accolta da chi ne gioiva e dagli indifferenti. Molti hanno pensato a una voce inventata e accreditata dai sostenitori di Otone che, mescolati alla folla, facevano circolare false notizie favorevoli a Galba per farlo uscire allo scoperto.
35. Ci furono allora applausi e manifestazioni di entusiasmo da parte del popolo e della cieca plebaglia; e non solo: forzate le porte, moltissimi cavalieri e senatori, divenuti, al cessare della paura, temerari, si precipitano al Palazzo e si presentano a Galba. Eccoli lagnarsi ch’era stata loro sottratta la vendetta, ed ecco, come l’esperienza insegna, i più vili e codardi nel momento del pericolo farsi tracotanti a parole e, con la lingua, assolutamente decisi. Nessuno sapeva, tutti proclamavano. Alla fine, senza dati di fatto e vinto dalla generale illusione, Galba indossa la corazza e, incapace di resistere alla pressione della folla, per il peso e il segno degli anni, viene levato su una portantina. All’interno del Palazzo gli corse incontro la guardia del corpo Giulio Attico che, mostrando la spada insanguinata, esclamò d’aver ucciso Otone. “Chi ti ha dato l’ordine, soldato?” fu la risposta di Galba, energico coi cedimenti della disciplina militare, intrepido davanti alle minacce, incrollabile di fronte alle lusinghe.”

Intanto, a palazzo, l’imperatore Galba si consigliava con i suoi, incerto sul da farsi. Mentre la folla si radunava nei dintorni chiedendo a gran voce la testa di Otone, il quale aveva il favore dell’esercito, ma evidentemente solo di una parte del popolo, i consiglieri dell’imperatore dicevano la loro. Qualcuno suggeriva di barricarsi a palazzo con i pretoriani e gli schiavi e non affrontare i ribelli in strada, poiché “il crimine punta sull’impeto, le decisioni sagge si affermano lentamente”: quindi tenere duro per qualche tempo finché la situazione non sarebbe sbollita. Altri consiglieri, invece, volevano agire subito, per sedare la rivolta quando ancora era debole. Oltre al fatto che l’imperatore barricato in casa a nascondersi non avrebbe comunicato alcuna autorità, ma al contrario, debolezza. “Una soluzione vile è soluzione insicura; e se è inevitabile soccombere, non resta che affrontare il pericolo.”

L’imperatore convenne che quest’ultima era la soluzione più consona a lui. Sarebbe dovuto uscire allo scoperto per affrontare l’avversario, solo così il popolo lo avrebbe giudicato meritevole di guidare l’impero. A convincerlo del tutto giunse una notizia inaspettata, ovvero che Otone era stato assassinato alla caserma dei pretoriani. La rivolta sembrava essersi risolta da sola, e tutti acclamavano a gran voce il legittimo imperatore. Galba indossò quindi la corazza e uscì allo scoperto col suo discendente Pisone, accompagnato dalla guardia, per riprendere possesso della città. Una volta in strada, giunse al cospetto della sua lettiga un pretoriano con la lama tinta di sangue, che disse d’aver ucciso lui stesso Otone. L’imperatore Galba, però, reagì domandando chi gli avesse dato l’ordine d’ammazzarlo, manifestando la sua incrollabile fede nella disciplina militare, anche in situazioni così pericolose. In ogni caso, Otone, non era affatto morto. E procedeva con il suo colpo di stato, raccogliendo seguaci.

“36. Nella caserma intanto non c’era più alcuna esitazione, e tanto era l’entusiasmo che, non paghi di far ressa attorno a lui e portarlo sulle spalle, issarono Otone in mezzo alle insegne e ai loro vessilli, sulla tribuna, dove stava, fino a poco tempo prima, la statua dorata di Galba. Tribuni e centurioni non avevano modo di avvicinarlo; guardarsi dagli ufficiali era l’ordine dei soldati. Ovunque un risuonare di grida, di strepiti, di incitamenti reciproci; non, come succede col popolo e la plebaglia, un disordinato vociare per vuota adulazione, ma, se vedevano un compagno unirsi al loro gruppo, sempre gli prendevano le mani, lo abbracciavano, gli facevano posto vicino alla tribuna, gli suggerivano la formula del giuramento, raccomandavano ora l’imperatore ai soldati, ora i soldati all’imperatore. E Otone, a braccia tese, non mancava di prosternarsi davanti alla folla, di gettare baci, pronto a qualsiasi atto servile, per essere lui il padrone. Dopo che l’intera legione di marina accettò di prestargli giuramento, Otone, sicuro delle proprie forze e convinto ch’era il momento d’infiammare tutti assieme quanti fino ad allora aveva singolarmente sobillato, dall’alto della difesa esterna della caserma cominciò a parlare in questo modo:
37. “In che veste io mi presenti a voi, commilitoni, non saprei dire, perché non posso chiamarmi privato cittadino, avendomi voi nominato principe, né posso dirmi principe, se altri ha il potere. Incerto è anche che nome dare a voi, finché non sarà chiaro se voi tenete nel vostro campo un imperatore del popolo romano o un nemico. Non sentite che si reclama insieme il mio castigo e la vostra morte? E’ dunque evidente che non possiamo né perire né salvarci, se non insieme. E nella sua abituale bontà, ha già forse promesso il vostro eccidio quel Galba che, quando nessuno lo esigeva, ha fatto trucidare tante migliaia di soldati innocenti. Mi attraversa sempre un brivido di orrore quando mi torna alla mente quel suo lugubre ingresso, la sola vittoria che lui vanti, quando, sotto gli occhi di Roma, ordinò la decimazione di uomini che s’erano appena messi nelle sue mani e che aveva, a seguito delle loro preghiere, accolto sotto la sua protezione. Entrato in città sotto tali auspici, di quale gloria ha abbellito il suo principato, se non dell’assassinio di Obultronio Sabino e di Cornelio Marcello in Spagna, di Betuo Cilone in Gallia, di Fonteio Capitone in Germania, di Clodio Macro in Africa, di Cingonio durante la sua marcia verso Roma, di Turpiliano, qui giunto, di Ninfidio nel vostro accampamento? Dov’è una provincia, dov’è un campo militare che non abbia macchiato di sangue, o, come si compiace di dire, emendato e corretto? Gli altri li chiamano delitti, lui rimedi. Alterando i termini, scambia la ferocia per severità e l’avarizia per parsimonia e definisce disciplina i supplizi e le umiliazioni che vi infligge. Sette mesi sono passati dalla fine di Nerone, e Icelo ha già rapinato più di quanto non abbiano preteso di avere i Policleti, i Vatinii e gli Egiali. Meno si sarebbe spinto sulla via dell’avidità e dell’arbitrio Tito Vinio, se avesse avuto personalmente il potere, lui che or ora ci ha schiacciati sotto il suo piede come proprietà personale e disprezzati come roba altrui. Il suo solo palazzo basterebbe a quel donativo che mai non vi danno e ogni giorno vi rinfacciano?.
38. “E perché non ci fosse speranza neppure nel successore di Galba, richiama dall’esilio l’uomo che più giudica a sé simile per durezza e avarizia. Avete visto, commilitoni, né si poteva non vedere, la tempesta con cui anche gli dèi avversano quell’infausta adozione. Eguale è il sentimento del senato, eguale quello del popolo romano: aspettano solo il vostro valore, perché in voi è riposta tutta la forza necessaria a nobili fini e senza di voi, per quanto degni, non si reggono. Non alla guerra né al pericolo vi chiamo: le armi di tutti i soldati sono con noi. E l’unica coorte, in toga, ora con Galba, non lo difende, ma ce lo custodisce. Quando vi avrà visti, quando riceverà il mio segnale, non resterà che una sola gara, quella a chi più fra voi si renda a me benemerito. Nessuna esitazione è consentita in un’impresa che si può lodare solo dopo il suo successo.” Fa quindi aprire l’armeria: i soldati si buttano alle armi, senza riguardo al regolamento che prescrive armi specifiche e diverse a pretoriani e legionari; afferrano alla rinfusa elmi e scudi di truppe ausiliarie; senza la presenza e l’incoraggiamento di un tribuno o di un centurione, ciascuno si fa guida e pungolo a se stesso; ed era principale stimolo ai peggiori lo sgomento dei buoni.”

Alla caserma pretoriana si aggiunsero ai ribelli pure i soldati della Legio I Adiutrix e gli animi divennero così infervorati che niente avrebbe potuto placarli. Otone fu condotto in tribuna, tra le insegne dove un tempo sorgeva la statua dorata di Galba, eretta solo pochissimo tempo prima, e che era stata tirata giù. Lì il capo dei congiurati tenne il suo discorso. Il primo punto su cui andò a parare riguardava naturalmente la malvagità di Galba, che aveva ordinato il massacro tramite decimazione della legione lì presente, oltre a numerosi altri assassini perpetrati in ogni provincia e campo militare, macchiati di sangue da quell’imperatore che scambiava “la ferocia per severità e l’avarizia per parsimonia”. Oltre questo rassicurò i presenti sull’esito dell’impresa, visto che la coorte che si trovava a guardia dell’imperatore, in quell’istante, era già stata avvisata e in combutta con i congiurati. I pretoriani che conducevano la lettiga di Galba non lo stavano proteggendo, ma lo custodivano, in attesa del segnale.

Otone fece quindi aprire l’armeria e i soldati si armarono per la rivolta. Tacito specifica che fu fatto senza attenersi al regolamento “che prescrive armi specifiche e diverse a pretoriani e legionari”. Non sappiamo esattamente quale fosse l’equipaggiamento standard di un pretoriano, vista la scarsità di fonti, ma attenendosi al resoconto sembrerebbe che fosse diverso da quello dei legionari, sicuramente più attinente allo scenario urbano. I pretoriani in servizio nell’Urbe, per svolgere il loro mestiere in strada, forse erano armati alla leggera o addirittura agivano celati tra la folla, come moderni poliziotti in borghese, come sostengono alcuni. Sono solo ipotesi. In ogni caso, quel giorno dell’anno 69 dopo Cristo, i ribelli si armarono con elmi e scudi presi alle truppe ausiliarie, e tra le strade di Roma dilagò lo sferragliare di guerra.

“39. Intanto Pisone, sconcertato dal fremere della rivolta crescente e dalle grida echeggianti fin dentro Roma, era tornato a raggiungere Galba, uscito nel frattempo e diretto al foro; intanto Mario Celso aveva portato notizie non liete. Chi proponeva di tornare nel Palazzo, chi di raggiungere il Campidoglio, molti ancora di occupare i rostri; i più si limitavano a contraddire il parere degli altri e, come succede in situazioni di emergenza, la scelta migliore sembrava quella divenuta intanto impraticabile. C’è chi sostiene che Lacone, all’insaputa di Galba, abbia accarezzato l’idea di uccidere Tito Vinio, o per calmare i soldati, sacrificando costui, o perché lo ritenesse complice di Otone, o infine per appagare il suo odio. Ma lo lasciarono in dubbio il momento e il luogo: una volta cominciato il massacro, è difficile fermarlo. E poi lo distrassero da questa idea le notizie allarmanti e il dileguarsi degli amici intimi; e intanto si sgonfiava la fervida adesione di quelli che, sul principio, si erano sbracciati a esibire fedeltà e coraggio.
40. Di qua, di là era risospinto Galba, secondo l’ondeggiare di una folla incerta, fra basiliche e templi gremiti di gente accorsa da ogni parte. Uno spettacolo lugubre. Nessun grido del popolo o della plebe; la costernazione sui volti, le orecchie tese a ogni rumore; non confusione, non calma: era il silenzio delle grandi paure e delle grandi collere. Tuttavia riferiscono a Otone che la plebe si stava armando: ordina ai suoi di precipitarsi a prevenire il pericolo. Sicché dei soldati romani, come se corressero a cacciare Vologese o Pacoro dall’avito trono degli Arsacidi e non a trucidare il loro imperatore inerme e vecchio, dispersa la plebe, calpestato il senato, brandendo le armi con furia selvaggia, caricano coi cavalli e irrompono nel foro. Né la vista del Campidoglio, né la sacralità dei templi sovrastanti, né il pensiero dei principi passati e futuri, poté distogliere questi uomini da un delitto, il cui vendicatore è sempre chi all’impero succede.
41. Vistasi addosso quella schiera di armati, l’alfiere della coorte che scortava Galba (dicono che fosse Atilio Vergilione), strappò dall’insegna l’immagine di Galba e la gettò a terra. A quel segnale, tutti i soldati si dichiararono per Otone; il popolo fuggì abbandonando il foro, gli incerti si videro le armi puntate addosso. Presso il lago Curzio, per il panico dei portatori, Galba venne sbalzato dalla lettiga e travolto. Le sue ultime parole variano in ragione dell’odio o dell’ammirazione di chi le ha riferite. Per alcuni avrebbe domandato con voce supplichevole che male aveva fatto, implorando pochi giorni per pagare il donativo; ma i più vogliono che abbia offerto lui stesso la gola ai suoi assassini, dicendo: “Su, colpite, se lo esige il bene dello stato”. Parole cadute tra l’indifferenza dei suoi uccisori. L’identità dell’assassino è incerta: alcuni indicano Terenzio, un riservista, altri Lecanio; per la tradizione più corrente, sarebbe invece stato Camurio, un soldato della Quindicesima legione, a puntargli la spada alla gola e a trapassarlo. Gli altri gli dilaniarono orrendamente gambe e braccia (il petto era coperto dalla corazza); molte ferite gli vennero inferte per disumana ferocia, quand’era ormai un corpo smembrato.
42. Si scagliarono poi su Tito Vinio. Anche per lui si discute se, al sentirsi la morte addosso, gli siano rimaste le parole in gola, o se abbia gridato che non era possibile che Otone avesse dato ordine di ucciderlo. Fu una menzogna dettata dalla paura o l’ammissione della sua complicità nella congiura? La sua vita e la fama che aveva indurrebbero a credere che fu complice d’un delitto, di cui era la causa. Cadde davanti al tempio del divo Giulio, abbattuto da un primo colpo al polpaccio e poi passato da parte a parte per mano del legionario Giulio Caro.”

L’imperatore e il suo successore Pisone, intanto, si dirigevano al foro, ma furono raggiunti dalle terribili notizie dei soldati in rivolta, armati da guerra per il tradimento. E Galba divenne preda ancora una volta del caos di consigli, tra chi gli suggeriva di tornare a palazzo, chi di raggiungere il Campidoglio, mentre una folla di persone scendeva in strada in un clima crescente di confusione e terrore. Portato in lettiga di qua e di là, fra basiliche e templi, Galba si trovò alla mercé del nemico che lo raggiunse a cavallo, “brandendo le armi con furia selvaggia”, irrompendo nel foro per trucidare l’imperatore inerme e vecchio, disperdendo la plebe e calpestando chiunque si frapponesse.

L’alfiere della coorte che accompagnava l’imperatore, alla vista dei rivoltosi strappò l’immagine di Galba dall’insegna e la gettò in terra. A quel segnale, i pretoriani che accompagnavano la lettiga si unirono alla ribellione. Galba fu gettato a terra. Le sue ultime parole, scrive Tacito, variano in ragione dell’odio o dell’ammirazione di chi le ha riferite. Per alcuni avrebbe implorato con voce supplichevole, molti altri però dicono che abbia offerto lui stesso la gola ai suoi assassini, dicendo: “Su, colpite, se lo esige il bene dello stato”.

Gli trapassarono la gola in punta di lama. E gli dilaniarono orrendamente gambe e braccia, poiché il petto era coperto dalla corazza, molte altre ferite gli vennero inferte quando era ormai un corpo smembrato. Come lui morirono altri suoi consiglieri, finché non rimase in vita solo il legittimo successore, Pisone, il quale fu protetto dall’ultimo pretoriano fedele all’imperatore: Sempronius Densus (Sempronio Denso, o Druso), vero e unico eroe di quei fatti di sangue dell’anno 69 dopo Cristo.

“43. La nostra epoca vide distinguersi quel giorno un uomo, Sempronio Druso. Centurione della coorte pretoria e assegnato a scorta di Pisone da Galba, affrontò, stringendo il pugnale, i soldati in armi. Rinfacciando loro il crimine commesso, attira su di sé gli assassini, col gesto e le parole e, nonostante le ferite, dà a Pisone il tempo di fuggire. Quest’ultimo riparò nel tempio di Vesta e, accolto dallo schiavo pubblico, che lo nascose nel proprio alloggio, poté, non grazie alla santità di quel luogo di culto, ma per merito del nascondiglio, differire la morte imminente; ma poi per ordine di Otone, che smaniava di sapere morto lui particolarmente, si presentarono Sulpicio Floro, un soldato delle coorti britanniche, cui da poco Galba aveva concesso la cittadinanza, e la guardia del corpo Stazio Murco. Trascinato fuori da costoro, Pisone fu ucciso sulla soglia del tempio.”

Sempronio Denso, centurione della coorte pretoria assegnato alla scorta di Pisone dallo stesso Galba, affrontò i ribelli, nonché suoi stessi commilitoni da solo, col pugnale. Rinfacciò loro il crimine che stavano per commettere dapprima a parole, poi con la forza delle armi.

Riguardo la sua eroica difesa scrisse anche Plutarco:

“Nessuno si oppose o si offrì di alzarsi in sua difesa, tranne uno solo, un centurione, Sempronius Densus, l’unico uomo tra tante migliaia che il sole vide quel giorno agire degnamente dell’impero romano, il quale, sebbene non avesse mai ricevuto alcun favore da Galba, ma per coraggio e fedeltà si sforzò di difendere la lettiga. Per prima cosa, alzando il suo tralcio di vite, con cui i centurioni correggono i soldati quando sono disordinati, chiamò ad alta voce gli aggressori, ordinando loro di non toccare il loro imperatore. E quando gli vennero addosso corpo a corpo, estrasse la spada e si difese a lungo, finché alla fine fu tagliato sotto le ginocchia e gettato a terra.”

Plutarco, Galba, capitolo 26, paragrafo 5

Plutarco descrive il centurione Sempronio Denso, l’unico ad aver agito degnamente quel giorno, mentre agitava il suo “tralcio di vite”: una sorta di frustino con cui i centurioni correggevano i soldati, manifestando quindi la sua superiorità gerarchica, e imponendosi come colui che aveva forgiato la disciplina e il temperamento di quegli stessi uomini che ora lo minacciavano. Sempronio Denso infine fu costretto a estrarre la spada, e non il pugnale come descritto da Tacito, per difendersi a lungo, finché non fu colpito alle gambe e gettato a terra. Questo suo glorioso gesto permise a Pisone di rifugiarsi nel tempio di Vesta, ma lì fu preso dai congiurati, che lo trascinarono di nuovo fuori e lo ammazzarono sui gradini del luogo sacro.

Così morirono l’imperatore Galba e il suo successore Pisone. I soldati si sfogarono sui loro cadaveri per ore, approfittando del buio, in scempi d’ogni sorta. Le teste furono straziate e infilate su delle picche, mentre Otone attraversava il foro, tra i cadaveri là distesi, giungendo da trionfatore in Campidoglio e di lì al Palazzo. Fu fatto imperatore e, da quel momento, tutto fu in balia dei soldati. Ma per poco tempo. Poiché prima della fine dell’anno si fece avanti un altro congiurato per ripagare Otone con la stessa moneta: Vitellio. Il quale, però, fu a sua volta deposto da Vespasiano, ultimo dei quattro imperatori che si succedettero in quell’anno, nel 69 dopo Cristo, passato alla storia proprio come l’anno dei quattro imperatori.

Di questi intrighi, assassinii e spietate politiche di guerra, rimane solo il gesto eroico di un semplice centurione pretoriano, Sempronio Denso, il quale ha preferito sacrificarsi piuttosto che cedere al tradimento, passando così alle cronache antiche come uno dei pochi ad aver conservato la propria integrità morale durante quei momenti così bui.

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Di seguito la conclusione dell’episodio di Sempronio Denso tramite le parole di Tacito:

“44. La morte di nessuno – dicono – Otone accolse con esultanza più grande, la testa di nessuno si abbandonò a guardare con sguardo più insaziabile: forse, allora finalmente liberato da ogni tensione, cominciava ad aprire il suo animo alla gioia; forse, il ricordo della maestà imperiale di Galba e dell’amicizia per Tito Vinio gli turbava l’animo, per quanto impietoso, con inquietanti visioni, mentre invece si credeva in diritto, davanti agli dèi e agli uomini, di gioire della morte del suo nemico e rivale. Le teste mozze, infisse su picche, venivano portate in giro, fra le insegne delle coorti, a fianco dell’aquila della legione; a gara mostravano le mani lorde di sangue quanti avevano ucciso; chi era stato solo presente al massacro si gloriava, mentendo o no, di quel crimine, come d’un gesto bello e memorabile. Più tardi Vitellio ebbe a trovare più di centoventi richieste avanzate da gente che reclamava ricompense per una qualche partecipazione di rilievo ai fatti di quel giorno: tutti costoro fece cercare e uccidere, non per onorare Galba, ma perché, secondo una politica ormai tradizionale dei principi, ciò vale come difesa nel presente e vendetta per il futuro.

45. C’era da pensare che il senato fosse diventato un altro, un altro il popolo. Si precipitavano in massa al campo pretorio, sorpassando i vicini, in gara con chi correva avanti, vociando attacchi contro Galba e soddisfazione per la scelta dei soldati, e baciavano le mani di Otone. Più queste dimostrazioni erano false, più si sbracciavano a darle. Otone non respingeva nessuno e intanto cercava di frenare con parole e con l’espressione del volto le voglie impazienti e minacciose dei soldati. Questi esigevano la morte di Mario Celso, console designato e amico fedele di Galba fino all’ultimo, per odio alla sua efficienza e integrità, qualità criminose ai loro occhi. L’obiettivo era chiaro: non cercavano che un pretesto per cominciare il massacro, il saccheggio, l’eliminazione di tutti i cittadini onesti. Otone non aveva ancora il prestigio per impedire tale nefandezza, ma solo per ordinarla. Così, fingendosi invaso dall’ira, ne ordinò l’arresto e, col pretesto di riservare Celso a una pena più grave, lo sottrasse alla morte che ormai gli era addosso.

46. Da quel momento tutto fu in balia dei soldati. Si scelsero loro il prefetto del pretorio, e fu Plozio Firmo, in passato semplice legionario e a quel tempo capo dei vigili, uomo che, ancor prima della morte di Galba, s’era allineato sulle posizioni di Otone. Firmo venne affiancato da Licinio Proculo, così intimamente legato a Otone da far sospettare che ne avesse appoggiato i piani. Prefetto della città nominarono Flavio Sabino, confermando la scelta di Nerone, sotto il quale aveva ricoperto la stessa carica; e non erano in pochi a vedere dietro la sua persona il fratello Vespasiano. Chiesero con forza l’abolizione della consuetudine invalsa di riscattare con denaro l’esonero dal servizio: in effetti i soldati semplici pagavano con questo sistema una specie di tributo annuo. Fatto sta che in ogni manipolo un soldato su quattro se ne andava grazie alle licenze concesse o gironzolava senza far niente per il campo: c’era solo da pagare al centurione il prezzo fissato. Né l’ufficiale si faceva scrupoli a porre un limite alla somma richiesta, né i soldati a scegliere il modo di procurarsela: rapine, furti, prestazioni da schiavo, ecco i mezzi per liberarsi dal peso degli obblighi del servizio. Non solo: i soldati più forniti di denaro venivano sottoposti all’angheria di un lavoro sfibrante, finché non si pagavano l’esenzione. Poi, esaurito il denaro e per di più infiacchiti dall’ inattività, tornavano al reparto, non più ricchi ma poveri, non più valorosi ma indolenti, finché, uno dopo l’altro, guastati dal medesimo impasto di povertà e indisciplina, si abbandonavano alla ribellione, alle tensioni interne, per finire nella guerra civile. Ma Otone, per non alienarsi l’animo dei centurioni facendo queste concessioni alla truppa, promise di pagare di tasca propria l’ammontare annuo delle esenzioni, misura senza dubbio utile, confermata in seguito dai prìncipi responsabili come regola permanente. Quanto al prefetto Lacone, si finse di relegarlo in un’isola, dove fu poi assassinato da un soldato della riserva, là inviato in precedenza da Otone a questo scopo; Marciano Icelo, trattandosi di un liberto, fu giustiziato in pubblico.

47. L’ultima aberrazione di quella giornata trascorsa all’insegna del delitto fu l’esultanza. Il pretore urbano convoca il senato; tutti gli altri magistrati gareggiano in adulazioni; accorrono i senatori: viene conferita a Otone la potestà tribunizia, il nome di Augusto e tutti gli onori imperiali, in mezzo allo sforzo generale di far dimenticare i sarcasmi e gli insulti che da più parti, fino a poco prima, gli avevano rovesciato addosso; e non c’era nessuno che si rendesse conto di come invece si erano impressi nel suo animo. La brevità del suo impero non ha consentito di chiarire se queste offese le abbia lasciate cadere o se avesse solo rimandato la vendetta. Otone passò in mezzo al foro ancora coperto di sangue tra i cadaveri là distesi e, portato in Campidoglio e di lì al Palazzo, consentì finalmente che i corpi fossero sepolti o cremati. Quello di Pisone fu composto dalla moglie Verania e dal fratello Scriboniano, quello di Tito Vinio dalla figlia Crispina, ma dovettero prima cercare di riscattare le teste che gli assassini si erano tenute per farne mercato.

48. Pisone compiva i trentun anni, accompagnato da una fama migliore del suo destino. Dei suoi fratelli, Magno era stato fatto uccidere da Claudio, Crasso da Nerone; quanto a lui, reduce da un lungo esilio e Cesare per quattro giorni, era stato preferito da una precipitosa adozione al fratello maggiore, col solo risultato di essere ucciso prima di lui. Tito Vinio, nei suoi cinquantasette anni di vita, ebbe comportamenti contraddittori. Il padre discendeva da famiglia che vantava dei pretori, il nonno materno era stato fra i proscritti. La sua prima esperienza militare s’era risolta nel disonore: comandava allora la legione Calvisio Sabino, la cui moglie, per morboso desiderio di vedere l’interno di un campo militare, vi penetrò una notte travestita da soldato, puntando prima sulle sue doti di seduzione per superare i corpi di guardia e gli altri controlli, fino a prostituirsi proprio nel quartier generale. Responsabile di questa grave colpa veniva indicato proprio Tito Vinio. Buttato in catene per ordine di Caligola, venne poi rilasciato col mutare dei tempi e riuscì a percorrere senza ostacoli la carriera politica. Dopo la pretura ebbe il comando di una legione, facendosi apprezzare, ma ancora una volta subì l’affronto di un trattamento riservato agli schiavi: si addossò il sospetto di aver rubato una tazza d’oro alla tavola di Claudio, e Claudio il giorno dopo diede l’ordine che Vinio, unico fra i commensali, fosse servito in stoviglie di terracotta. Comunque sia, divenuto proconsole, governò la Gallia Narbonense con rigorosa integrità. Lo trasse poi al baratro l’amicizia di Galba: audace, scaltro, deciso e, secondo il capriccio, ma con la stessa energia, portato al male o attivo e intraprendente. Il testamento di Tito Vinio, causa le sue numerose ricchezze, venne annullato; la povertà consentì invece il rispetto delle ultime volontà di Pisone.

49. Sul cadavere di Galba, abbandonato per ore, s’erano sfogati, approfittando del buio, in scempi d’ogni sorta. A ciò lo sottrasse il maggiordomo Argio, uno dei suoi primi servi, dandogli umile sepoltura nel giardino della sua casa. La testa, straziata e infilata da cuochi e facchini su una picca, venne ritrovata il giorno seguente davanti alla tomba di Patrobio (un liberto di Nerone punito da Galba) e quindi riunita al corpo già cremato. Questa la fine di Servio Galba che, in settantatré anni aveva attraversato, senza disavventure, cinque principati, più fortunato sotto l’impero di altri che nel proprio. Antica nobiltà e considerevole patrimonio vantava la sua famiglia; personalità mediocre la sua, più esente da vizi che ornata di virtù. Certo non insensibile alla gloria, ma contenuto nell’esibirla; indifferente al denaro altrui, parsimonioso col proprio, avaro con quello di tutti. Con gli amici e coi liberti condiscendente, pur senza debolezze, se erano persone oneste, ma, s’eran malvagi, cieco fino alla colpa. Lo scusavano peraltro la nobiltà di nascita e la debolezza di quei tempi, sicché la sua indolenza passava per saggezza. Quando gli anni gli arrisero, si affermò in Germania e conobbe la gloria militare. Governò da proconsole l’Africa con senso di equilibrio e, ormai vecchio, allo stesso spirito di giustizia s’appellò nel reggere la Spagna citeriore: apparve più che comune cittadino, finché tale rimase, e, per comune ammissione, degno dell’impero, se non avesse imperato.”

Lorenzo Manara
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