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17 Marzo 2024

Tito Manlio: solo contro un gigante

Tito Manlio

L’impresa di Tito Manlio contro il gigante dei galli: un epico duello nell’Antica Roma

Tutti conosciamo l’impresa biblica di Davide che con la sua frombola affrontò il gigante dei filistei: un gigante, letteralmente, e per giunta armato di ferro dalla testa ai piedi. Impresa degna di finire nei testi sacri perché l’eroe degli ebrei, a dispetto dei pronostici, riuscì a sconfiggere tale colossale avversario scagliandogli addosso una poderosa sassata. E poi gli mozzò pure la testa. Ma di sfide contro i giganti ce ne sono state molte nell’Antichità, una delle quali riguarda la storia di Roma, ovvero il duello tra un gigantesco gallo e un eroe dell’Urbe: Tito Manlio.

L’episodio è narrato da Tito Livio1, Auro Gellio e pochi altri autori, ed è ambientato nel 361 avanti Cristo. Si narra che i galli si fossero accampati con il loro esercito a tre miglia da Roma, sulla via Salaria, al di là di un ponte su un affluente del Tevere: l’Aniene. Vista la minaccia, il console e dittatore in carica, mobilitò l’esercito della Repubblica, arruolando tutti i giovani in età militare, per la chiamata alle armi. L’esercito di Roma lasciò l’Urbe e si accampò sulla riva opposta del fiume, dinnanzi al nemico. A dividerli, il fiume stesso, e un singolo ponte, ancora in piedi, che nessuno aveva osato abbattere. Sia perché si trattava dell’unico passaggio, sia perché, come dice Livio, nessuno voleva dare impressione di avere paura.

Su quel ponte, che metteva in comunicazione i due eserciti, avvenivano spesso delle scaramucce. Soldati dell’una e dell’altra parte, anche di propria iniziativa, si avvicinavano ad esso per tentare di attraversalo, ingaggiando degli scontri che non si risolvevano mai in un qualcosa di definitivo. Fu così, che dopo qualche tempo, vista l’assenza di una possibile battaglia campale, che non avrebbe potuto disputarsi su un ponte così piccolo, si fece avanti un energumeno dalla parte dei galli. Un soldato gallico dal fisico possente che, raggiunto il centro del ponte, urlò con quanto fiato aveva in gola: “Si faccia avanti a combattere il guerriero più forte che c’è adesso a Roma, così che l’esito del nostro duello stabilisca quale dei due popoli è superiore in guerra”.

Tra i romani calò il silenzio. Tutti avevano timore di accettare la sfida di un così temibile avversario, ma tale silenzio era in verità assordante, perché faceva passar male l’intera Roma. La dignità della patria era appesa al coraggio di quegli uomini. Allora Tito Manlio, patrizio romano d’antica e nobile famiglia, lasciò il suo posto e si avviò verso il dittatore, nonché generale dell’esercito, per discutere con lui. Poiché prima ancora di accettare chiese il permesso: aspetto fondamentale, che testimonia la disciplina ferrea, nonché il valore intrinseco del soldato, che prima d’essere un valoroso guerriero, era soprattutto un cittadino, fiero e civile: questa la contrapposizione coi barbari selvaggi, che facevano un po’ come pareva a loro.

Senza un tuo ordine, o comandante», disse «non combatterei mai fuori dal mio posto, neppure se vedessi che la vittoria è sicura. Se tu me lo concedi, a quella bestia che ora fa tanto lo spavaldo davanti alle insegne nemiche io vorrei dare la prova di discendere da quella famiglia che cacciò giù dalla rupe Tarpea le schiere dei Galli.”

L’eroe romano, chiese quindi il permesso, alludendo all’impresa dei suoi avi che, durante l’invasione di Roma da parte dei galli, circa una trentina di anni prima, riuscirono a sconfiggerli dall’alto del Campidoglio, dove si erano asserragliati. L’episodio è passato alla storia anche per un’altra questione più divertente, ovvero l’intervento di uno stormo di oche che, stando alla leggenda, si misero a starnazzare per avvertire i romani dell’arrivo dei galli. Insomma Tito Manlio sapeva di discendere da grandi eroi ed era convinto che, adesso, fosse il suo turno.

Il comandante, colpito da quella richiesta, accettò (forse, anche perché si era trattata dell’unica richiesta). “Onore e gloria al tuo coraggio e al tuo attaccamento al padre e alla patria, o Tito Manlio. Vai e con l’aiuto degli dèi dài prova che il nome di Roma è invincibile”.

L’eroe fu quindi aiutato ad armarsi per lo scontro. Prese uno scudo da fante, probabilmente il tipico scudo ovale in grado di coprire gran parte del corpo, e il gladio cosiddetto ispanico, adottato all’epoca dai soldati della Repubblica, con una lama lunga circa 60-70cm, che Livio dice essere molto adatto per lo scontro ravvicinato. Così armato, Tito Manlio fu accompagnato sul ponte, dinnanzi al guerriero gallico che stava solidamente esultando, davanti a tutti, e che si faceva beffe dell’eroe romano tirando fuori la lingua dalla bocca. I due sfidanti si fronteggiarono, soli sul ponte, più simili a gladiatori che non a soldati comuni. E a vederli non potevano essere giudicati affatto pari, poiché il gallo aveva un fisico di straordinaria prestanza, vestiva in maniera sgargiante e rifulgeva di armi cesellate d’oro. Il romano, invece, era di media statura, portava armi maneggevole e non particolarmente belle; e poi non cantava, né gesticolava, piuttosto se ne stava fermo e pronto, con un unico dettaglio che lasciava intendere il suo coinvolgimento emotivo, che l’autore antico ci descrive con una maestria narrativa ineguagliabile: “aveva il petto che fremeva di palpiti di coraggio e di rabbia repressa e riservava tutta la sua aggressività per il culmine dello scontro.”

Insomma, l’eroe romano non aveva bisogno di sprecare energie in sberleffi, ma di lì a poco era pronto a fare cantare il ferro, al posto suo.

Il duello stava per avere inizio. I cuori di tutti i soldati erano sospesi tra la speranza e la paura, fissi su quelle due figure che stavano per scontrarsi, all’ultimo sangue. Finché, il campione dei galli, che sovrastava l’avversario con la sua imponente statura, non avanzò con lo scudo avanti per sferrare un fendente, dritto contro l’armatura del romano. Ma lo mancò. L’eroe romano, sfruttando la propria statura, colpì lo scudo del nemico, da sotto, scalzandolo via, e aperta una breccia tra le difese del gallo, gli si avvicinò tanto da arrivare a portata d’affondo: infilzandolo prima il ventre e poi l’inguine, ovvero, dove arrivava a portata di braccio.

Il gigantesco gallo, dopo una manciata di istanti dall’inizio del duello, crollò sul pavimento del ponte, con un gran baccano. E l’eroe romano, senza infierire oltre, gli strappò la grande collana che aveva al collo per indossarla a sua volta, sporca com’era di sangue. I galli si paralizzarono dalla paura e dall’ammirazione, mentre i romani si abbandonarono a un grido di festa, correndo incontro al loro eroe per portarlo dal comandante. E lo facevano inneggiando cori, e battute, tra cui spiccò un epiteto che rimase addosso all’eroe e a tutti i suoi discendenti: “Torquato”, che deriva dal latino torques, torcere, che nell’interpretazione più diffusa stava a indicare la collana ritorta, ovvero attorcigliata, indossata dal gigantesco gallo, poi divenuta bottino del coraggioso romano.

L’eroico Tito Manlio divenne, quindi Tito Manlio Torquato, guadagnandosi le lodi e una corona d’oro da parte del comandante e l’eterna gloria per aver vinto la battaglia. Già, perché i galli, visto com’era finito il duello, la notte seguente levarono le tende, e se ne andarono. La disciplina, la fierezza e il coraggio romano sconfissero la forza bruta, come da perfetta tradizione mitologica. Anche se, il romano, secondo altre fonti, come ad esempio quella di Claudio Quadrigario, era in realtà assai feroce, perché dopo aver sconfitto l’avversario non perse occasione di mozzargli la testa, per farla vedere a tutti. Proprio come aveva fatto il Davide biblico, col gigante Golia. Un episodio più vicino di quanto non sembri.

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“In quell’anno i Galli si accamparono a tre miglia da Roma, sulla via Salaria, al di là del ponte sull’Aniene. Il dittatore, proclamata la sospensione dell’attività giudiziaria a séguito dell’incombente minaccia costituita dai Galli, mobilitò tutti i giovani in età militare. Partito da Roma con un esercito di ragguardevoli proporzioni, si accampò sulla riva meridionale dell’Aniene. Tra i due eserciti c’era il ponte, ma nessuno osava abbatterlo per non dare l’impressione di avere paura. C’erano frequenti scaramucce per occupare il ponte, ma le forze erano così equilibrate che non si poteva stabilire chi ne avesse il controllo. Fu allora che un soldato gallico dal fisico possente si fece avanti sul ponte deserto e urlò con quanta voce aveva in gola: «Si faccia avanti a combattere il guerriero più forte che c’è adesso a Roma, così che l’esito del nostro duello stabilisca quale dei due popoli è superiore in guerra». Tra i giovani patrizi romani ci fu un lungo silenzio dovuto alla vergogna di non poter raccogliere la sfida e alla paura di offrirsi volontari per una missione tanto rischiosa. Allora Tito Manlio, figlio di Lucio, il giovane che aveva salvato il padre dalle accuse del tribuno, lasciò la sua posizione e si avviò verso il dittatore. «Senza un tuo ordine, o comandante», disse «non combatterei mai fuori dal mio posto, neppure se vedessi che la vittoria è sicura. Se tu me lo concedi, a quella bestia che ora fa tanto lo spavaldo davanti alle insegne nemiche io vorrei dare la prova di discendere da quella famiglia che cacciò giù dalla rupe Tarpea le schiere dei Galli». Allora il dittatore rispose: «Onore e gloria al tuo coraggio e al tuo attaccamento al padre e alla patria, o Tito Manlio. Vai e con l’aiuto degli dèi dài prova che il nome di Roma è invincibile». Poi i compagni lo aiutarono ad armarsi: prese uno scudo da fante e si cinse in vita una spada ispanica, più adatta per lo scontro ravvicinato. Dopo averlo armato di tutto punto, lo accompagnarono verso il soldato gallico che stava stolidamente esultando e che (particolare anche questo ritenuto degno di menzione da parte degli antichi) si faceva beffe di lui tirando fuori la lingua dalla bocca. Poi rientrarono ai loro posti, mentre i due uomini armati restarono soli in mezzo al ponte, più simili in verità a gladiatori che a soldati regolari. Nulla li rendeva pari, almeno a giudicare dall’aspetto esterno: l’uno aveva un fisico di straordinaria prestanza, portava vesti sgargianti e rifulgeva di armi cesellate in oro. L’altro era un soldato di media statura e portava armi più maneggevoli che belle: non cantava, non gesticolava con tracotanza né faceva vana esibizione delle proprie armi, ma aveva il petto che fremeva di palpiti di coraggio e di rabbia repressa e riservava tutta la sua aggressività per il culmine dello scontro. Quando essi presero posizione tra i due eserciti, mentre intorno i cuori di tutti i soldati erano sospesi tra la speranza e la paura, il campione dei Galli, la cui massa imponente sovrastava dall’alto l’avversario, avanzando con lo scudo proteso al braccio sinistro, sferrò un fendente di taglio sull’armatura del Romano che gli veniva incontro, ma lo mancò, con un grande rimbombo. Il Romano, tenendo alta la punta della spada, colpì col proprio scudo la parte bassa di quello dell’avversario; poi, insinuatosi tra il corpo e le armi di quest’ultimo in modo tale da non correre il rischio di essere ferito, con due colpi sferrati uno dopo l’altro gli trapassò il ventre e l’inguine facendolo stramazzare a terra, disteso in tutta la sua mole. Tito Manlio si astenne dall’infierire sul corpo del nemico crollato al suolo, limitandosi a spogliarlo della sola collana, che indossò a sua volta, coperta com’era di sangue. I Galli erano paralizzati dalla paura mista all’ammirazione. I Romani, invece, abbandonando la posizione, corsero festanti incontro al loro commilitone e lo portarono dal dittatore, tra congratulazioni ed elogi. Tra le rozze battute che i soldati inserivano nei loro cori più o meno simili a versi si sentì anche l’appellativo di Torquato, soprannome che in séguito rimase famoso e fu anche motivo di onore per i discendenti della sua famiglia. Il dittatore aggiunse in dono una corona d’oro e di fronte alle truppe in adunata celebrò con le lodi più alte quel combattimento. 

E per Ercole quel duello fu così determinante nello svolgimento dell’intera guerra che l’esercito dei Galli la notte successiva lasciò l’accampamento in fretta e furia e si diresse nel territorio dei Tiburtini. Di lì, stipulato un trattato di alleanza con i Tiburtini e ricevuti da loro generosi rifornimenti, partirono sùbito alla volta della Campania. Fu per questa ragione che l’anno dopo il popolo volle assegnare al console Gaio Petelio Balbo il cómpito di guidare una spedizione contro i Tiburtini, mentre al suo collega Marco Fabio Ambusto era toccata la campagna contro gli Ernici. I Galli tornarono indietro dalla Campania per intervenire in loro aiuto e le tremende devastazioni registrate nei territori di Labico, Tuscolo e Alba Longa avvennero senza alcun dubbio per istigazione dei Tiburtini. Mentre lo Stato era soddisfatto del comando affidato al console nella campagna contro i Tiburtini, la minaccia dei Galli rese necessaria la nomina di un dittatore. La scelta cadde su Quinto Servilio Aala che come maestro di cavalleria scelse Tito Quinzio e che, su consiglio del senato, fece voto di celebrare dei grandi giochi nel caso in cui la guerra si fosse conclusa positivamente. Il dittatore, dopo aver ordinato all’esercito del console di rimanere dov’era in modo da impedire ai Tiburtini di intervenire in conflitti che non li riguardavano, fece prestare giuramento a tutti i giovani in età militare, senza che nessuno di essi cercasse di tirarsi indietro. La battaglia venne combattuta non lontano dalla porta Collina. I cittadini impiegarono tutte le loro forze combattendo al cospetto di genitori, mogli e figli: se questi erano già un incentivo fortissimo anche lontani dalla vista, ora, posti di fronte agli occhi, infiammarono gli animi dei soldati toccandone il senso dell’onore e l’amore verso la famiglia. Le perdite furono numerosissime da entrambe le parti, ma alla fine l’esercito dei Galli venne respinto. Messi in fuga, i Galli si diressero verso Tivoli, come se questa fosse la piazzaforte della loro guerra. Nella loro rotta disordinata vennero intercettati dal console Petelio: quando però i Tiburtini uscirono dalla città per portare aiuto, i Galli vennero respinti a forza dentro le mura. La campagna venne condotta in maniera impeccabile tanto dal dittatore quanto dal console. Fabio, l’altro console, prima in battaglie di scarsa importanza e alla fine in uno scontro campale nel quale il nemico aveva schierato tutte le sue forze, piegò la resistenza degli Ernici. Il dittatore ebbe parole di straordinario elogio, in senato e di fronte al popolo, per i due consoli cui attribuì il merito anche delle proprie imprese. Quindi rinunciò alla dittatura. Petilio celebrò un doppio trionfo per le vittorie su Galli e Tiburtini. Quanto a Fabio, invece, sembrò sufficiente concedergli di rientrare in città con l’onore dell’ovazione. I Tiburtini si facevano beffe del trionfo di Petilio: quando mai aveva combattuto con loro? Un pugno di uomini era uscito dalle porte per assistere alla fuga e al panico dei Galli: poi, vedendo che anche loro venivano attaccati e che quanti si imbattevano nei Romani venivano fatti a pezzi, si erano ritirati all’interno delle mura. Era questa la grande impresa che agli occhi dei Romani era parsa degna di un trionfo! Perché non considerassero cosa troppo straordinaria e valorosa il fare rumore davanti alle porte dei nemici, i Romani avrebbero dovuto assistere a qualcosa di ben più tremendo di fronte alle loro porte. 

Tito Livio, Ad Urbe Condita, Libro VII 9-10-11
  1. Tito Livio, Ad Urbe Condita, Libro VII 9-10-11
Lorenzo Manara
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