Re Artù contro il diabolico gatto nero
Quella volta in cui re Artù lottò contro il diabolico gatto nero (e quasi ci rimase secco): un’avventura poco conosciuta del ciclo bretone
Sono certo che tu non abbia mai sentito parlare della volta in cui re Artù quasi ci lasciò la pelle contro un mostro “diverso” da quel che ci si aspetterebbe in una epica saga cavalleresca. Una strenua lotta, fiera e difficile, come afferma Artù stesso nell’opera, peggiore di qualsiasi prova abbia mai affrontato. Il nemico che mise alle strette il sovrano di Camelot, arrivando tanto così dall’ammazzarlo, era il temibile (e pelosone) diabolico gatto nero.
La saga di Artù è un vastissimo insieme di opere letterarie dalla forte componente magica, più volte rimaneggiate e modificate nel corso del tempo. Storie che spopolavano nelle isole britanniche, in Francia, ma anche nella penisola iberica, in Italia e un po’ dappertutto. Ecco perché quella di re Artù è forse la storia più difficile da conoscere, e lo è per un motivo molto semplice: fa parte di un ciclo narrativo millenario, rimaneggiato infinite volte, e da molti ritenuto “ancora in corso”.
Gli autori che si sono cimentati nella loro personale interpretazione della Materia di Bretagna tra cavalieri, tavole rotonde, maghi, streghe, quest perigliose, crudeli mostri (cui adesso bisogna aggiungerci anche il diabolico gatto nero), sono così tanti che non basterebbe un libro intero per parlarne. E non mi riferisco solo ai moderni remake da serie tv. Già nel Medioevo i rifacimenti del mito arturiano avevano raggiunto una diversità tale che le versioni non coincidevano più fra loro. In una di queste versioni, nel manoscritto 10292 della British Library1, compare proprio quello che cerchiamo: il felino che fece tanto faticare re Artù.
Dopo aver combattuto i romani e aver vinto gloriosamente una battaglia, stando a questa narrazione (che oggi definiremmo spin-off), il leggendario re di Camelot, invece di spingersi fino a Roma per ricalcare le imprese dei re barbari che riuscirono a far breccia nella Città Eterna, fu distolto da un grave problema che affliggeva la Gallia: un mostro terrificante, che persino mago Merlino riteneva pericoloso. Fu proprio il mago a mettere in guardia l’eroico re, incitandolo a recarsi nei pressi del lago di Losanna, dove la bestia seminava terrore; una malvagità che, guarda un po’, era colpa del Diavolo.
Siamo nel pieno del medioevo e il Cristianesimo si è ormai diffuso in tutto l’Occidente, entrando a far parte anche dei miti preesistenti, come nel caso della Materia di Bretagna. Quindi, certi elementi magici che prima erano propri del paganesimo, adesso vengono giustificati con gli elementi propri della nuova religione. Artù chiese a Merlino quale fosse la natura di tale bestia, e Merlino cominciò a raccontare.
Si narrava che un pescatore di quei luoghi fosse andato al lago di Losanna con la sua rete, e che prima di gettarla in acqua abbia fatto un voto: promettendo al Signore il primo pesce che avrebbe preso, per ingraziarsi il favore divino, e per buona sorte. Gettò la rete e prese un pesce da 30 scellini di valore, un bell’esemplare, grande e presumibilmente gustoso, che sarebbe stato un peccato sprecare come offerta al Signore. Il pescatore quindi ritrattò il voto, promettendo che quel pesce l’avrebbe tenuto, ma il prossimo no: il prossimo pesce l’avrebbe dato al Signore. Gettò di nuovo la rete nell’acqua e prese un altro pesce, ancor più grande e bello del primo. Perciò il pescatore non se la sentiva di offrirlo al Signore, piuttosto fece una nuova promessa: il prossimo l’avrebbe donato a Dio, di sicuro. E quando gettò la rete, invece di un pesce, trovò qualcos’altro: un gattino nero.
Il pescatore, cercando di capire cosa volesse dire questo strano evento, decise di portarsi a casa il micetto pescato nelle acque del lago di Losanna, di nutrirlo e farlo crescere per dare la caccia ai topi. Ma il pelosino di tutta risposta, lo strangolò, gli ammazzò la moglie, i figli e se ne scappò su una montagna vicino al lago. Da quel momento, crebbe di stazza, divenendo il diabolico gatto nero che terrorizzava gli abitanti di quelle terre, ammazzando tutti coloro che incontrava. Artù e i suoi cavalieri, dopo aver ascoltato la storia di Merlino, dissero subito che quella era la vendetta del Signore, a causa della malignità del pescatore, e di ben tre sacri voti infranti: un comportamento inaudito per un cavaliere della tavola rotonda.
Re Artù comandò di prepararsi. Con i suoi cavalieri partì per il lago di Losanna, trovandosi una terra devastata e abbandonata: pochi abitanti erano rimasti a sfidare la furia del diabolico gatto nero. I cavalieri raggiunsero la montagna e Merlino, che li guidava, indicò loro una caverna larga e profonda: “Sire, in quell’antro si nasconde il gatto.”
Artù decise di affrontarlo da solo, come faceva spesso dinnanzi alle più pericolose minacce. I suoi cavalieri si fecero da parte, assieme a Merlino, e il re spianò la lancia appena in tempo, prima che il diabolico gatto nero saltasse fuori dalla tana per balzargli addosso: una bestia selvaggia, ferale, affamata. Artù lo accolse con la fulgida lancia e lo colpì proprio tra le fauci spalancate, ma il gatto agguantò l’arma coi denti, piegò la punta di ferro e spezzò l’asta di legno con un ruggito. Artù non si fece intimorire. Sguainò la spada e portò avanti lo scudo, frapponendolo tra lui e quei micidiali denti da gattone, per non finire con la gola squartata. Poi con la leggendaria forza di cui il sovrano era celebre, spinse via il gatto con una scudisciata, gettandolo a terra.
L’agilissimo mostro tornò in piedi sulle zampe e attaccò ancora. Re Artù tese la spada per colpirlo con forza sulla testa, credendo di sferrare un attacco micidiale, però, non fu così. La pelle che ricopriva il diabolico gatto nero era così tenace che la lama non l’aveva neppure scalfito. Il sovrano rimase di sasso. E il mostro ne approfittò, superando le difese dello scudo per balzargli addosso, affondando gli artigli nella maglia di ferro, tanto potenti e affilati che attraversarono gli anelli dell’armatura, penetrando nella carne, vicino alla spalla: sangue reale cominciò a cadere sul terreno.
Il re, vedendosi ferito, portò lo scudo davanti al petto, tese la spada e caricò furiosamente, per porre fine a quel duello che lo stava tanto mettendo alla prova. Il gatto si alzò sulle zampe posteriori e contrattaccò, sferrando artigliate contro lo scudo; colpi così potenti che si piantarono nel legno, così a fondo che il mostro rimase impigliato, senza riuscire a staccarsi. Il laccio che teneva lo scudo legato al collo di Artù si sciolse, e Artù dovette tenere saldo lo scudo col solo braccio, per evitare che la bestia glielo portasse via. Però, soverchiato dal peso del diabolico gatto nero, si sbilanciò e cadde all’indietro.
I due proseguirono la sanguinosa lotta sul terreno, col gattone sopra che sferzava artigliate e Artù sotto che menava spadate. Si colpirono a vicenda, più volte, e il re cominciò a metterci tanta forza nei suoi fendenti da riuscire a superare pelle coriacea e pelo folto. Infine, con un ultimo sforzo, Artù spazzò con la spada sulle zampe posteriori del mostro, e gliele tranciò entrambe.
Il diabolico gatto nero cadde al suolo, digrignando i denti in una smorfia di dolore e rabbia. Il re balzò in piedi e gli si avventò contro per sferrare il colpo finale, dritto sulla testa, ma il mostro non era ancora battuto. Con le zampe davanti, quelle che gli restavano, afferrò il sovrano per morderlo alle spalle e sul petto, e altro sangue cominciò a colare copiosamente dagli squarci nella carne del re. Allora Artù, sentendosi morire, avvicinò la spada al ventre della bestia e l’affondò con tutta la forza che gli rimaneva. Il diabolico gatto nero, devastato dal colpo, avrebbe mollato la presa se non fosse che i suoi artigli erano piantati nel corpo del sovrano. Perciò finì a penzolare, ferito a morte, appeso con le unghie all’armatura e alle carni di re Artù. Ed è da questa scena che ebbe origine l’espressione “come un gatto attaccato ai colleoni…” no, non è vero. Sto scherzando.
Il sovrano per liberarsi della creatura una volta per tutte gli mozzò pure le zampe che gli rimanevano e la carcassa smembrata rovinò a terra con gran fragore. Ma la bestia non era ancora morta: lanciò un ruggito che si udì fino al lago di Losanna e, incredibilmente, cominciò a strisciare coi monconi mozzati, via dal campo di battaglia allagato di sangue, verso la caverna. Il re, però, la raggiunse e menò il colpo finale, stavolta per davvero.
Subito tornarono Merlino e gli altri cavalieri, chiedendogli come stava. E Artù disse: “Sia lodato il Signore per avermi fatto uccidere questo demonio che mi ha messo in difficoltà come mai mi era capitato prima d’ora.” Poi tutti si resero conto che appese all’armatura del sovrano dondolavano le zampe mozzate del gattone, ancora impigliate con gli artigli, orride e sgocciolanti. Si fecero una sonora risata, tutti quanti, e cavalcarono verso il tramonto. No, sto scherzando, di nuovo. Tuttavia, re Artù, al termine del combattimento, si trovò davvero con le zampe mozze di gatto diabolico impigliate addosso. E così conciato, se ne andò via coi suoi cavalieri, pronto a imbarcarsi in nuove e mirabolanti avventure.
Un episodio truculento, definibile splatter, oggigiorno, o dark fantasy come i più truci romanzi contemporanei, dove l’eroe viene investito da secchiate di sangue, esattamente quel che avviene ne La Stirpe delle Ossa, dove un cavaliere italiano, decaduto e afflitto da ogni genere di miseria, si trova maledetto da un’orribile condanna, che lo fa letteralmente marcire, a poco a poco. Se non l’hai già fatto, ti consiglio di acquistare subito “La Stirpe delle Ossa”, su Amazon o in libreria, perché tra poco uscirà il mio prossimo romanzo, dal titolo “La Canzone dei Morti”: leggerli assieme, uno dopo l’altro, sebbene siano autoconclusivi (due diverse storie), ti permette d’immergerti fino al collo nelle misteriose atmosfere di un’Italia perduta.
La lotta tra re Artù e il diabolico gatto nero compare in pochissimi altri testi, oltre a questo specifico manoscritto della British Library, talvolta con delle differenze sostanziali come la sconfitta di Artù, il quale non riesce ad avere la meglio sul pesce tramutatosi in gatto. Io, però, nonostante il lieto fine ho scelto questa versione, perché a mio parere è la più ricca di dettagli vividi, che rimangono impressi nella memoria.
E visto che questa storia ti rimarrà impressa a lungo, seguimi e condividi l’episodio con tutte le personcine appassionate di gattini che conosci: credimi, l’ameranno da morire. Perché i gatti sono carini e tutto quanto, ma è innegabile che nascondano qualcosa di malvagio dentro di loro. E lo dico io che mi accompagno a un eccellentissimo gatto di nome Shakespeare, il cui significato del nome, forse, lo spiegherò in futuro. Alla prossima.
- L’estoire de Merlin, Arthur’s fight with the great cat CHAPTER XXXIII, MS10292 British Library ↩
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