La battaglia di Dyrrhachium
La battaglia di Dyrrhachium, nell’odierna Durazzo, tra Giulio Cesare e Pompeo Magno
Anno 48 a.C. Gaio Giulio Cesare osserva le colline a sud di Dyrrhachium, verso cui marciano le sue inarrestabili legioni. Conquistatore della Gallia, terrore di Britannia e di Germania: Cesare ha da poco attraversato il Rubicone, calando in Italia con i suoi veterani, feroci e fedeli, pronunciando la frase “Alea Iacta Est”, il dado è tratto, non si torna indietro. E adesso, guarda all’ultimo ostacolo prima di raggiungere il potere supremo, l’ultimo uomo in grado di fermarlo: Pompeo.
Gneo Pompeo Magno, condottiero esperto e generale vittorioso: colui che aveva vinto Spartaco e sedato la rivolta di schiavi in Spagna, che aveva pacificato l’Africa e l’Oriente, e placato il Mediterraneo afflitto dai pirati. Colui che un tempo era stato alleato di Cesare, ma che adesso era visto dal Senato come l’ultima possibilità di fermare l’ascesa del generale più celebre della storia romana.
Pompeo è lì, asserragliato su quella collina a sud di Dyrrhachium, l’odierna Durazzo, in Albania. Forte di molti uomini, giovani, freschi, e quindi inesperti. Cesare lo sa, ed è per questo che marcia contro di lui. Il conquistatore della Gallia reca con sé gli uomini che lo hanno accompagnato fino ai confini del mondo, più a nord di qualsiasi altro romano. Uomini feroci e fedeli. Pompeo non ha speranze, e infatti, non scende a dare battaglia. Se ne resta asserragliato lassù, difeso da fortilizi appena costruiti dai suoi legionari. E attende.
Cesare tenta una nuova strategia. Ordina una rapida marcia verso la città alle spalle di Pompeo, Durazzo, per prenderla e tagliar fuori il nemico da ogni rifornimento. Per farlo, compie un largo giro, tutto intorno alle legioni pompeiane, a passo svelto, giorno e notte. Pompeo se ne accorge, ma quando si muove è ormai troppo tardi: Cesare ha raggiunto la città con i suoi, e ora lo circonda.
Pompeo decide di arroccarsi ancora di più, su quelle colline. Fortifica gli accampamenti, invia navi in tutto il Mediterraneo per raccogliere risorse e mantenere in piedi un esercito gigantesco, concentrato tutto in quelle aspre zone, preparandosi a una logorante guerra d’assedio. Cesare, dal canto suo, fa lo stesso, ma da una posizione solo apparentemente privilegiata. Tiene in scacco Pompeo, avendolo circondato, però dispone di pochissime risorse. Il mare è infatti in mano al nemico e alla sua poderosa flotta, e gli emissari inviati nelle regioni circostanti raccolgono ben pochi tributi e provviste. Pompeo ha già rastrellato ogni cosa.
Cesare per non perdere il vantaggio, si rafforza a sua volta. Costruisce fortificazioni tutto intorno al nemico e le collega con muraglie, dando vita nel giro di pochissimo tempo a un lungo vallo, che circonda l’intera regione. Pompeo finisce letteralmente chiuso dietro un muro, e i suoi cavalieri non possono più uscire per compiere sortite e approvigionarsi. Una situazione cui Pompeo si ritrova per sua scelta, poiché avrebbe potuto ingaggiare battaglia in ogni momento, ma preferì non farlo. Così come non voleva abbandonare la sua posizione, vicino al mare, che gli consentiva di avere una comunicazione diretta con la flotta e, di conseguenza, con ogni provincia in suo potere.
Pompeo, quindi, ancora una volta sceglie la via della difesa. E ordina ai suoi di costruire, ancora, più alla svelta. L’area nella quale è rimasto chiuso dentro, sulle colline a sud di Durazzo, all’interno del vallo tirato su da Cesare, è comunque vastissima, comprendente miglia e miglia di territorio dove sono presenti campi e pascoli. Pompeo decide di occupare ogni singola zolla di quel territorio, erigendo a sua volta decine e decine di fortificazioni, accampamenti e muraglie. E lo fa ancora più velocemente di Cesare, poiché le sue legioni sono più numerose. Inoltre, anche senza bisogno di ingaggiare battaglia, Pompeo comanda ai suoi arcieri e frombolieri di schierarsi a difesa di quel piccolo stato sorto sulla costa balcanica, tirando a più non posso sulle postazioni nemiche. I legionari di Cesare, da assedianti, si ritrovano assediati da un’incessante tempesta di dardi e pietre che li travolge ogni giorno, in ogni postazione. Una pioggia così letale da costringerli a munirsi di tuniche imbottite, confezionate per l’occasione, anticipando le armature imbottite diffusissime nel Medioevo, e che svolgevano il ruolo di protezione base per il guerriero dell’anno Mille.
I frombolieri erano particolarmente micidiali, inoltre, poiché scagliavano pietre ad altissima velocità con le loro frombole, ovvero delle armi semplicissime, costituite da una sacca all’interno della quale posizionare il proiettile, e due bracci di corda da far oscillare assieme, a forza di braccia, rapidamente, per poi rilasciare una sola estremità al momento opportuno, scagliando via la pietra. Intere coorti di frombolieri, assieme agli arcieri, furono impiegate per questa nuova guerra di posizione, una vera e propria guerra di trincea, cui Roma non era affatto abituata.
I giorni passano. Le legioni di Pompeo si rafforzano e si riforniscono grazie alle navi che attraccano, ogni giorno, per portare frumento e vino e ogni genere di approvvigionamento. Mentre gli uomini di Cesare, invece, soffrono la fame. Quando il frumento scarseggia, si ripiega sui legumi e sull’orzo. Quando l’orzo finisce, si raccolgono radici e si cuociono col latte a formare una specie di pane. Per questo vengono pure presi in giro dai pompeiani, che gridano loro di essere dei mangiaradici.
I legionari di Cesare, però, sono abituati alle carestie, e alla vita dura. Perciò non si demoralizzano, anzi ci scherzano su. Qualcuno di loro dice che mangerebbe volentieri persino la corteccia degli alberi, pur di vedere morto Pompeo. D’altro canto, i pompeiani non se la passano granché meglio. Perché è vero che sono pieni di risorse, ma lo spazio, seppur grande, è limitato. I cadaveri crescono di numero, e non si sa più dove gettarli, con quel tanfo putrido che rende irrespirabile l’aria. Inoltre, l’acqua scarseggia. Perché i fiumi che dovrebbero passare di lì per arrivare a mare, Cesare li ha deviati tutti. Col passare del tempo, quindi, la situazione comincia a ribaltarsi. Dentro al vallo, si sta molto peggio che fuori. Ed ecco che questa strana guerra si inasprisce.
Pompeo comanda di attaccare più spesso le posizioni del nemico e di farlo anche di notte. Le coorti di arcieri e frombolieri si muovono al tramontare del sole, in direzione del vallo occupato dal nemico. Individuano i fuochi dei bivacchi e degli accampamenti e tirano presso di essi, per coglierli con il favore delle tenebre. I legionari di Cesare non possono neppure dormire, adesso, la tempesta di dardi e pietre li investe pure nell’oscurità. Gli assalti si tramutano in scaramucce, le scaramucce diventano vere e proprie battaglie. Dopo un interminabile periodo passato a fortificarsi, i due schieramenti scendono in campo su più punti, l’uno contro l’altro, combattendo lungo il vallo che solo fino a qualche tempo prima non esisteva nemmeno.
Gli scontri sono duri e si protraggono per tutto il giorno, fino al tramonto. Cesare stesso si reca in mezzo ai suoi, tra le fortificazioni, per misurare la loro capacità. E davanti ai suoi occhi vengono contate le frecce ritrovate presso un singolo fortilizio, al termine dei combattimenti, nel numero di 30.000. Inoltre, sullo scudo di un centurione, Marco Cassio Sceva, furono ritrovati 120 fori di freccia. Quel singolo centurione era scampato alla morte 120 volte, ed era ancora in grado di combattere, pronto a servire il suo condottiero.
Cesare, per i suoi meriti, gli donò duecentomila denari, promuovendolo da centurione di ottavo ordine a centurione di primo ordine, poiché quello specifico fortilizio aveva retto l’attacco di Pompeo soprattutto per il contributo di Sceva. Inoltre, elargì alla coorte doppio stipendio, frumento, vestiario, cibo e decorazioni militari. Ma la guerra era lungi dall’essere vinta e, anzi, le cose si mettevano male proprio per Cesare.
Pompeo, spinto dalla necessità di uscire dalla trappola in cui era rimasto rinchiuso, comandò i suoi di attaccare, più e più volte, per rompere le linee nemiche e uscire dalla prigione. Le battaglie si susseguirono una dopo l’altra, finché Cesare non si trovò dinnanzi a una scelta: restare ed essere sconfitto, o ritirarsi per riorganizzare le legioni. Da grande stratega, scelse la seconda opzione, e in maniera disciplinata comandò a tutti di fare le valigie e arretrare fino in Grecia, nelle grandi pianure della Tessaglia. Là, avrebbe potuto giocare come sapeva far meglio, incitando Pompeo a seguirlo in battaglia campale, l’ultima prima della fine, per decretare il dictator e imperator più forte di Roma: l’unico che meritava di comandarla, incontrastato.
La vera grande battaglia si disputò per davvero in Tessaglia, nei pressi di Farsalo, e l’esito lo conosciamo tutti, poiché spinse al potere il condottiero più celebre di Roma, nonché uno degli uomini più importanti della storia umana: Giulio Cesare. Quel che ho voluto raccontare oggi, però, è stata una situazione peculiare, ovvero quella strana guerra di trincea che ha preso piede nei pressi di Durazzo nell’anno 48 a.C. basata sul testo del De Bello Civili, libro III, scritto dallo stesso Cesare. Un qualcosa che non siamo abituati ad associare alla gloria di Roma e al modo di combattere dei legionari, sempre schierati in battaglia campale, uniti, gomito a gomito, contro il nemico schierato di fronte a loro.
Eppure, c’è sempre una prima volta, per tutti. Se questa storia ti ha appassionato, e il centurione con 120 fori di freccia nello scudo ti ha riempito d’orgoglio guerriero, seguimi e condividi questa storia con gli altri centurioni di tua conoscenza. Così mi aiuterai a diffondere il verbo affilato, alla prossima.
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