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22 Febbraio 2023

La battaglia della merda

la battaglia della merda

Una disgustosa cronaca medievale che narra di un assedio italiano: la battaglia della merda di Bologna, dal racconto dell’Anonimo Romano

Il medioevo della nostra immaginazione è un periodo oscuro, età di passaggio fra la gloriosa Antichità e la rivoluzionaria Età Moderna: Medio-Evo, ovvero l’Età di Mezzo, quando gli uomini dei secoli bui s’ammazzavano a spadate, si torturavano ed erano dei gran sudicioni. L’episodio passato alla storia come “battaglia della merda” parrebbe confermare tutto questo, descrivendoci un disgustoso scontro combattuto a suon di secchiate, di merda.

Nella cronaca dell’Anonimo romano, scritta nella metà del XIV secolo, compare il resoconto di un assedio avvenuto nel corso delle lotte tra guelfi e ghibellini che dilaniavano l’Italia intera ormai da più di un secolo. Il papa se n’era da tempo scappato ad Avignone, lasciando un vuoto negli equilibri di potere che poteva essere colmato solo dal suo “angelo della pace”, come era stato definito: il francese Bertrando del Poggetto (Bertrand du Pouget). Costui era un cardinale-condottiero nonché legato pontificio investito di un’unica missione: eliminare gli avversari della Chiesa a qualsiasi costo. Cosa che lo rendeva piuttosto un angelo della morte.

Il cardinale condottiero Bertrando era così determinato a riportare l’Italia sotto il dominio papale, che attuò una lunga serie di campagne militari contro chiunque gli si opponesse. Talvolta, scontrandosi persino contro coloro che, storicamente, erano da sempre stati schierati con la chiesa: come ad esempio Firenze e Napoli. Questa politica aggressiva attirò le ire dei principali signori italiani, guelfi e ghibellini che fossero, i quali si riunirono assieme per togliere di mezzo quell’angelo funebre nominato dal papa in esilio.

Dello mostro che nacque in Roma e dello legato dello papa lo quale fu cacciato de Bologna.

“…una citate, da priesso a Bologna vinti miglia: Ferrara hao nome. De questa Ferrara so’ cacciati alquanti citadini nuobili, li quali se chiamano quelli da Fontana. E questo avenne perché venniero Ferrara a Veneziani. Ora ne soco signori in luoco loro li marchesi da Este. Questi de Fontana pregaro lo legato che li tornassi in loro casa per anni tre. Li marchesi de Ferrara respusero allo legato fiorini quattordici milia per anno, acciò che non tornassino quelli li quali vennuta avevano la loro patria a Veneziani. Po’ li quattro anni dello tributo, lo anno settimo dello sio dominio, lo legato non li pareva essere signore se non aveva la signoria libera. Fece una oste generale e sì·lla mannao sopra Ferrara. Ferrara ène una longa terra, miglio uno, e iace sopra la ripa de uno nobile e granne fiume lo quale hao nome Po. Da l’aitro lato li stao un aitro vraccio de Po. Questa citate, como ditto ène, è signoriata dalli marchesi da Este, li quali so’ nuobili uomini, moito amati dalli tiranni de Lommardia. L’oste dello legato fu potentissima. De colpo abbe tutto lo contado de Ferrara. Puoi passao lo Po e fece uno ponte de lename a soa posta. Puoi toize lo borgo de Ferrara, lo quale vao invierzo Venezia. Poca cosa era da fare. La terra era perduta. Per acqua e per terra staieva assediata. Erance da fare uno bottone. Lo capitanio dell’oste era lo conte de Armeniac, lo quale sparlava contra li baroni de Romagna e dicevali traditori, lo quale per grannezza soa non curava de fare quella guardia la quale aveva de bisuogno. Anco ce fu lo puopolo de Bologna, lo quale non stava volentieri fore de casa. Anco ce fu la moita sollaria, li quali non erano pacati, ca·lle pache che se·lli mannavano non se·lli daievano. Anco ce fu li signori de Romagna. Lo legato li teneva moito poveri. Nulla provisione li daieva. Quanno ademannavano alcuna grazia, responneva: “Bene. Faciemus “. Vedi que doveano penzare quelli che suoglio essere signori e non haco cobelle!

Drento in questa Ferrara ionzero da doi milia varvute. Lo marchese Rainaldo non demorao. Su nell’ora della terza essìo de Ferrara e deose sopra l’oste. L’oste pranzava. Ora vedese occidere de iente, vedese fuire, vedese strilla e pianto. Lo conte Armeniac fu presone e revennuto LXXX milia fiorini. Li signori de Romagna se lassaro prennere de loro spontanea voluntate. La moita iente fu morta e presa. Moita robba fu guadagnata. Senza defesa fu guadagnato uno esmesurato trabocco lo quale aveva nome asino. Lo puopolo de Bologna se recuverao in su lo ponte. Lo ponte era legato de stroppe. Cadde in fiume. Quanta iente morìo bene puoi sapere. Alcune perzone fuoro che se appennicaro alle funi delle mole e per l’acqua campavano. Venne uno con una accetta e tagliao quella fune. Tutta quella iente, la quale campava, annegao in Po. Vedi se figlio fu de demonio quello omo! Vinti milia perzone pericolaro nella rotta.”

Nei pressi di Ferrara, nell’anno 1333, l’esercito congiunto degli Scaligeri di Verona, dei Gonzaga di Mantova, dei Visconti di Milano e dei ghibellini di Firenze ingaggiò battaglia con l’armata del cardinale condottiero, sulle rive del Po. L’attacco colse di sorpresa i papali mentre pranzavano, e nel giro di poco tempo si tramutò in un massacro consumato per la città e per il contado. Fu anche catturato un gigantesco trabocco, arma d’assedio che l’esercito pontificio usava per spezzare le difese dei castelli ghibellini, che aveva nome “asino”, e che forse giocò un ruolo importante nella vera e propria battaglia della merda, qualche tempo dopo.

I bolognesi al seguito di Bertrando furono costretti alla fuga sul fiume, attraverso un ponte di legno legato con funi. Il ponte fu distrutto e molti caddero in acqua. Alcuni riuscirono ad aggrapparsi alle funi del ponte distrutto, tenendosi a galla, ma i nemici della Chiesa le tagliarono a colpi d’accetta, e costoro finirono trascinati dalla corrente, privi di un appiglio, per poi annegare. L’armata pontificia perse migliaia di uomini, quel giorno.

Bertrando fu costretto a ripiegare a Bologna, per radunare le forze che gli restavano. Ma il cardinale condottiero non poté star tranquillo neppure tra le mura della città da lui dominata, poiché il popolo, che aveva pianto tristemente la disastrosa battaglia sul Po e la morte di così tanti concittadini, era sull’orlo della ribellione.

“Lo carroccio tame a Bologna tornao. Quanno la novella fu ionta a Bologna, lo pianto fu grannissimo e·lla tristezze granne. Lo legato non se dubitao niente. In prima scrisse lettere a missore Malatesta, lo quale colli aitri tiranni era lassato. La sentenzia della lettera era: perché se era rebellato alla Chiesia romana? Missore Malatesta rescrisse una lettera. Aitro non conteneva se non questo: “Bene. Faciemus “. Po’ questo lo legato se apparecchiava de fare un’aitra oste moito più pericolosa. Fece venire da sio paiese cinqueciento iannetti vestuti de giallo con longhe gamme, con garavellotti in mano. Puoi mise coite grannissime per cogliere moneta, per l’oste fare. Quanno lo puopolo de Bologna se sentìo agravato sì per le coite sì per la iente morta, forte ne mormorava. Uno dottore de leie – missore Brandelisio delli Gozadini abbe nome – su nella piazza dello Communo se mosse con una spada in mano. Leva puopolo e caccia dello palazzo della Biada lo menescalco dello legato e occise alquanti e derobao.”

Le durissime tasse che il cardinale condottiero impose per radunare nuove truppe e proseguire la guerra contro i nemici della Chiesa, furono la goccia che fece traboccare il vaso. Nel 1334 un indomito bolognese di nome Brandelisio Gozzadini, raggiunse la piazza del comune impugnando la spada, e cominciò a gridare a squarciagola per levare il popolo intero. I cittadini risposero alla chiamata, uscirono di casa, in armi, per raggiungere la piazza dove sorgeva il palazzo del potere, Palazzo della Biada, oggi Palazzo d’Accursio. Il marescalco del legato pontificio fu cacciato via e i suoi uomini uccisi e derubati. L’intera città insorse e marciò verso il castello dove albergava il tiranno, dando così inizio alla battaglia della merda.

“Ora fu puosto lo assedio allo bello e nobile castiello dello legato, dello quale de sopra ditto ène. Lo assedio stette dìe quinnici. L’acqua li fu toita, perché lo curzo li fu rotto. Dentro era fodero de pane, vino, carne inzalata e moite cose. Li Bolognesi traboccavano lo sterco dentro dello castiello e valestravano.”

I rivoltosi assediarono il castello di Galliera, la cui costruzione era stata ultimata da pochissimo, proprio per volere del cardinale condottiero Bertrando. Nonostante la fortezza fosse maestosa, e colma di scorte alimentari, come pane, vino e carte salata, i bolognesi riuscirono a privare i difensori dell’acqua potabile, oltre che bersagliarli con dardi di balestra e armi batteriologiche primordiali, permettendo all’episodio di passare alla storia come “battaglia della merda”.

“Li Bolognesi traboccavano lo sterco dentro dello castiello.” Queste parole contenute nella cronaca sono l’unico riferimento che abbiamo riguardo la veridicità di questa leggenda popolare. Non sappiamo in che modo esattamente fu “traboccato” lo sterco dentro al castello. Se questo termine si riferisce letteralmente all’arma d’assedio, ovvero il trabocco, possiamo presumere che le deiezioni ribelli furono catapultate contro i difensori come orrenda pioggia, magari dallo stesso gigantesco trabocco perduto nella battaglia dell’anno prima, gloriosamente chiamato “asino”. Oppure “traboccare” potrebbe voler dire “riversare”, in qualche modo, non lo sappiamo con certezza.

Il cardinale condottiero Bertrando, l’angelo della morte, non resistette più di quindici giorni. Patteggiò una tregua con i fiorentini, capeggiati dal vescovo di Firenze, e fu scortato fuori dal castello, alla larga dalla folla inferocita, che lo inseguì per le strade di Bologna scagliandogli addosso ogni genere di villania. E forse, anche qualche altra cosa più disgustosa. I soldati fiorentini dovettero proteggerlo per evitare che finisse linciato. Fu cacciato da Bologna e dall’Italia, esiliato ad Avignone dal suo papa, il quale vista la sconfitta dell’uomo verso cui aveva riposto tutte le speranze, fu costretto a restarsene in Francia, e sarebbero passati altri quarant’anni, prima che il seggio pontificio potesse tornare in sicurezza a Roma. I francesi che avevano combattuto con lui furono derubati, imprigionati e uccisi. Il castello di Galliera fu distrutto, si salvò solo la cappella.

“Vedenno lo legato che tutto lo munno se·lli era rebellato, fu sollicito de campare soa perzona. Là trasse lo vescovo de Fiorenza. Lo legato se mise in mano de Fiorentini. Li Fiorentini lo trassero fòra allo castiello. Canto le mura ne iva la strada la quale vao alla porta de Fiorenza. Tutto lo puopolo de Bologna li gridava e facevanolli le ficora e dicevanolli villania. Le peccatrice li facevano le ficora e sì·lli gridavano dicennoli moita iniuria. Bene se aizavano li panni dereto e mostravanolli lo primo delli Decretali e lo sesto delle Clementine. Moita onta li fecero. Ben lo àbberano manicato a dienti se non fussi stato in balìa de Fiorentini. Lo legato fece la via delle Alpe con povera compagnia e con poche some. Ionze a Pisa, da Pisa in Avignone. Bolognesi derobaro tutta iente de Lengua de oca. Moiti ne occisero. Puoi deruparo a terra quello nobile castiello de che ditto ène. Aitro non lassaro se non la chiesia. Fi’ dalli fonnamenti trassero le mura. Quanno questo fu, currevano anni Domini MCCCXXXIV, de mese…
La campana dello legato àbbero li Eremitani; la nobilissima cona dello altare li frati predicatori de santo Domenico, la quale ène de alabastro, opera pisana, valore de X milia fiorini. La lampana cerchiata d’aoro, la quale ardeva nello coro dello legato, àbbero li frati menori. Anco àbbero tutta la carne secca, tanto potessino deluviare. In questo tiempo era in Bologna missore Ianni de Antrea, dottore de Decretali, omo de tanta escellenzia de senno, de scienzia e cortesia, che passava. Questo fu quello lo quale fece lo livro lo quale se dice la Novella.”

Tra le ricchezze che il cardinale condottiero teneva al sicuro nel castello, furono saccheggiate la preziosa campana, la pala dell’altare maggiore, scolpita e impreziosita d’alabastro da Giovanni di Balduccio, che da sola valeva 10.000 fiorini, e una lampada a olio cerchiata d’oro. Oltre, naturalmente alle grandi scorte alimentari, compresa tutta la carne secca.

La battaglia della merda si concluse con la vittoria del popolo, insorto contro il potere tiranno della Chiesa con la forza delle armi e della materia fecale, simbolo di disprezzo e ingiuria. Ma quella di espletare i propri bisogni come manifestazione vendicativa non è certo una vicenda circoscritta a questo singolo brano storico. Nella cronaca di Salimbene de Adam, ad esempio, si racconta un breve episodio ambientato nella Modena di fine Duecento, quando il podestà fu sepolto con tutti gli onori in una bella tomba, arricchita da un suo ritratto in armi, in sella a un cavallo da guerra. Era stato un gran signore, rispettato dalle autorità, ma non dal popolo: molti infatti lo odiavano profondamente ed erano disposti a tutto per dimostrarlo.

Alcuni cittadini infuriati organizzarono una spedizione punitiva nel cimitero, alla tomba del defunto podestà. Giunti davanti al sepolcro cominciarono a vandalizzare tutto ciò che trovarono, cavarono gli occhi al suo ritratto e non contenti si tiraron giù le braghe per lasciare un bel ricordo della serata. Una vendetta servita calda, è il caso di dire.

Un’altra vicenda simile riguarda un personaggio avvolto da un’aura malefica, Alberico da Romano, podestà di Treviso divenuto oggetto di una spietata crociata, e definito “maledetto”. Le cronache raccontano un suo scatto d’ira simile a quello dei cittadini modenesi, tuttavia rivolto a qualcuno ben più importante di un podestà defunto: il Signore Onnipotente. Dopo aver perduto un suo sparviero in una sfortunata giornata di caccia, se la prese con Dio. Si calò le brache dinnanzi all’altare “precisamente in quello spazio ove si consacra il corpo del Signore” e rilasciò copiosa cacata.

Anche nel mio ultimo romanzo, La Stirpe delle Ossa, un personaggio minaccia di abbassarsi le brache all’interno di una cripta, per oltraggiare la famiglia rivale: oltraggio che scatenerà, assieme a molti altri gesti sconsiderati, una vera e propria guerra. Puoi trovare il romanzo in tutte le librerie e gli store online e, mi raccomando, seguimi: così non perderai l’occasione di vivere le prossime Leggende Affilate.

Lorenzo Manara
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