Il flagello di Sparta
L’eroe che gli spartani hanno temuto più di ogni altro: Aristomene, flagello di Sparta
Nella storia umana sono pochi i luoghi che possono rivaleggiare con l’identità guerriera di Sparta. Le leggende che si raccontano, da sempre, riguardo i guerrieri laconici sono tra le più appassionanti del mondo, e c’è poco da dire. A cominciare dalla battaglia delle Termopili e del sacrificio di Leonida, alla testa dei suoi 300 (un mito edulcorato al livello letterario, poiché gli spartani nella realtà storica non erano 300 e non erano neppure soli, ma erano accompagnati da molti altri contingenti provenienti da molte città-stato greche).
Impossibile non emozionarsi nell’ascoltare il racconto di quegli eroi armati di lancia e scudo rotondo, sempre pronti a battersi col nemico anche in condizioni disperate, e soprattutto di farlo col sorriso sulle labbra, con la battuta sempre pronta. Iconiche le citazioni che li riguardano, come riportato da moltissimi storici. Plutarco, ad esempio, ci racconta che gli spartani non chiedevano mai quanti fossero i nemici, ma piuttosto, dove si trovassero (per andare a prenderli). Erodoto, invece, narra che prima delle Termopili agli spartani fu detto che i persiani avevano così tanti arcieri da poter oscurare il sole con le loro frecce. Tanto meglio, risposero gli spartani, almeno combatteremo all’ombra.
Insomma, il guerriero spartano rappresenta il modello di eroe antico, formidabile in battaglia ma, soprattutto, moralmente incrollabile. Ed è proprio questa la caratteristica che lo rende epico, anche al livello letterario. Nonostante questo, però, anche gli spartani avevano la loro nemesi: un eroe (uno solo), anticamente celebrato nei resoconti storico-letterari, ma che oggi non viene più di tanto ricordato. Ecco, quindi, che nel mio piccolo voglio dedicare una leggenda affilata all’incredibile storia di Aristomene, flagello di Sparta.
Pausania nella sua Periegesi della Grecia1, ovvero una sorta di manuale geografico che racconta notizie legate a varie località, e ai loro popoli, ci narra di Aristomene, riportando le credenze locali che lo vedono come un eroe classico, in quanto vero e proprio semidio. Secondo alcuni, sua madre Nicotelèa giacque con un genio, secondo altri con un Nume sotto forma di dragone. Insomma, le versioni erano tante, ma l’aura mitologica che circondava Aristomene era la stessa per tutti.
Aristomene era originario della Messenia, antica regione greca assoggettata a Sparta, ma che all’epoca voleva essere indipendente. Ed è per questo che sul finire del VII secolo a.C. scoppiò una guerra tra i messeni ribelli e l’autorità spartana. Durante lo scontro l’eroe messeno, il semidio Aristomene, si distinse per le sue prodezze, e dunque fu proclamato re dagli abitanti del suo popolo. Egli, però, rifiutò una carica così importante, limitandosi a prendere il grado di generale, una sorta di condottiero supremo che, di fatto, era simile a un re, in quanto a poteri.
Aristomene guidò i suoi in battaglia, alla testa di 80 guerrieri scelti, della sua stessa età e vigore, bene addestrati e intraprendenti, uniti da una così forte coesione da renderli un’unità inarrestabile, persino contro i più valorosi degli spartani. Dopo un violento scontro, gli 80 riuscirono a mettere in fuga il nemico, dando inizio a un sanguinoso inseguimento; fase da sempre cruciale nella storia della guerra, quando si verificano veri e propri sterminii.
L’indovino Teoclo, però, aveva avvertito Aristomene riguardo la battaglia. Gli aveva detto, infatti, di non spingersi oltre un pero selvatico, poiché lì sopra sedevano i dioscuri, ovvero Càstore e Pollùce, personaggi mitologici temuti e venerati allo stesso tempo. In questo caso Aristomene non avrebbe dovuto disturbarli, per non mettersi contro di loro. Cosa che avvenne, poiché nel furore della battaglia, l’eroe messeno si scordò della profezia e si spinse fino al pero, dove perse lo scudo e fu costretto a interrompere l’inseguimento.
La vittoria, comunque, fu schiacciante. L’eroe, flagello di Sparta, fu acclamato dal suo popolo, e furono intonati canti in suo onore. Dopodiché formò un nuovo esercito e si diresse a una città spartana, per conquistarla e razziarla. Sulla via del ritorno, fu assalito dallo stesso re di Sparta con le sue truppe migliori, il quale non poté far nulla contro di lui. Nonostante Aristomene fu ferito da una freccia su una natica, combatté come una furia e mise in fuga il nemico. Si riposò quanto bastava per riprendersi dalla ferita alle chiappe, e ripartì per la battaglia, questa volta diretto al tempio di Diana, dove danzavano le vergini spartane più ricche, appartenenti alle più nobili famiglie. Le portò con sé in Messenia e le affidò ai suoi guerrieri, i quali si ubriacarono e tentarono di prenderle con la forza, di notte.
Aristomene, vero eroe di indubbia integrità morale, e contrario a questi atti di violenza (che secondo l’autore, Pausania, era un’opinione condivisa da tutti in Grecia), si frappose tra le vergini e i suoi stessi uomini, e fu costretto persino a ucciderne alcuni, pur di preservare la verginità di costoro. Quindi le riportò a casa loro, senza che nessuna di esse fu toccata. Ovviamente, le liberò dietro un grande riscatto, che era il vero motivo per cui le aveva rapite.
Un’altra incursione in luogo religioso, stavolta nel tempio di Cerere, non fu altrettanto vittoriosa. Aristomene sapeva che le sacerdotesse vi stavano celebrando una festa e si presentò coi suoi uomini, ma le vergini di Cerere erano ben preparate e si difesero con l’aiuto della stessa dea, che guidò loro le mani: utilizzando i coltelli da sacrificio (perché sì nell’Antica Grecia erano in uso i sacrifici rituali), e gli spiedi con cui arrostivano le carni (presumibilmente degli animali sacrificati) le sacerdotesse ammazzarono i messeni e riuscirono a catturare Aristomene! Per aggiungere un tocco mitologico analogo all’Odissea, l’eroe riuscì a scampare alle terribili sacerdotesse grazie al suo charme: Archidamèa si era infatti innamorata perdutamente dell’eroe, e lo lasciò libero, senza alcun riscatto.
Nel terzo anno della guerra tra i ribelli messeni e Sparta, si combatté una grande battaglia, che coinvolse anche svariati alleati delle due parti. In particolare, gli arcadi si presentarono in gran numero per supportare la causa del flagello di Sparta. Tuttavia, quando giunse il momento di menar le mani, gli arcadi si ritirarono, lasciando soli i messeni contro la soverchiante forza spartana. Gli alleati erano stati corrotti, secondo Pausania, e questo portò l’eroe a subire la prima grandiosa sconfitta.
Gli arcadi occupavano l’ala sinistra e il centro dello schieramento, posizioni cruciali per lo svoglimento della battaglia, ma non si limitarono solo ad abbandonare il combattimento: cominciarono a fuggire passando in mezzo alle stesse schiere dei messeni, mandandoli in scompiglio, e facendo ritirare pure una gran parte di loro. Prese piede, quindi, una ritirata generale che l’eroe Aristomene non poté impedire in alcun modo. L’unica cosa che poté fare era quella di restare al suo posto e combattere con i pochi valorosi della sua schiera d’elite. E così fecero, resistendo strenuamente contro le ondate spartane. Infine, perduta ogni speranza, si ritirarono.
I pochi sopravvissuti al massacro presero rifugio sul monte Ira, circoscrivendo la ribellione messena a quel singolo caposaldo arroccato sull’altura, dando inizio a una resistenza sotto assedio che durò 11 anni. 11 anni in cui gli spartani tentavano di conquistare la vetta, mentre i difensori guidati da Aristomene compivano sortite, devastando il territorio circostante come un’armata spettrale.
Ed è una di queste disperate incursioni che consegnò l’eroe alla storia. Perché una notte, durante un saccheggio, Aristomene fu raggiunto dal grosso dell’esercito spartano, che lo prese in un’imboscata. I suoi furono sterminati, e Aristomene stesso, dopo svariate ferite, si beccò una pietra in testa e svenne. Fu così catturato, assieme agli unici 50 sopravvissuti del suo eroico seguito, e condannato con loro a una tremenda sentenza: essere gettati nel Ceada, il leggendario baratro alle pendici del monte Taigeto dove, secondo la tradizione, gli spartani solevano buttare i malnati e deformi2, oppure coloro che “di gravissimi delitti” erano puniti, come dice lo stesso Pausania.
I 50 messeni morirono tutti. Aristomene, invece, no. Costui, mentre cadeva di sotto, fu preso da un’aquila in volo, che lo sostenne con le ali finché non lo posò sul fondo. A quel punto l’eroe si avvolse nella clàmide, il mantello di lana, in uso presso gli antichi greci, e rimase in attesa, senza muoversi, per tre giorni. Il terzo giorno vide una volpe, che essendo riuscita a penetrare il fondo dell’orrida grotta ricoperta d’ossa, sicuramente sapeva anche come uscirsene. Perciò Aristomene seguì la bestiola e riuscì a scampare al leggendario luogo di condanna spartano.
Quando la notizia giunse a Sparta, ciò sembrò incredibile. Nessuno voleva credere a un simile prodigio, né si aveva intenzione di alimentare una leggenda che avrebbe potuto sollevare nuove ribellioni. Gli spartani, quindi, misero insieme un poderoso esercito per porre fine alla questione, una volta per tutte, e marciare verso il monte Ira, dove erano asserragliati gli ultimi ribelli messeni.
L’esercito di Sparta si mosse, grandioso e lento, e Aristomene uscì per punzecchiarlo coi suoi pochi valorosi, incursione dopo incursione, facendo vittime su vittime. Ancora una volta, però, finì catturato. Una banda di arcieri cretesi, alleati degli spartani, gli tesero un’imboscata durante una tregua religiosa (perché solo con l’inganno era possibile sconfiggere l’eroe). Lo legarono coi lacci di cuoio che avevano nelle faretre e lo condussero via, verso Sparta. Però, sulla strada, abitava una donzella, vergine, che la notte precedente aveva sognato un leone legato, senza unghie, condotto da dei lupi. Nel sogno, la fanciulla aveva slegato il leone, ritrovato le sue unghie, e lo aveva visto sbranare i lupi. Ed ecco, che quando vide gli arcieri cretesi scortare Aristomene, legato e senz’armi, non pensò subito alla profezia. Quella stessa notte accolse i cretesi, versò loro del vino, molto vino, e dopo averli ubriacati liberò il prigioniero, consegnandogli un pugnale. Inutile dire, che Aristomene ammazzò tutti quanti e se ne tornò sul suo monte. La fanciulla vergine fu data in sposa al figlio di Aristomene, e tutti vissero felici e contenti. O forse no.
Perché si dà il caso che una profezia aveva stabilito la fine di quella lunga guerra. L’undicesimo anno, il monte Ira sarebbe stato preso, e i messeni sarebbero stati cacciati. Così avevano recitato gli dei, tramite le parole dell’oracolo. E Aristomene lo sapeva, ma non voleva crederci.
Infatti, accadde che un giorno dell’undicesimo anno, l’esercito spartano giunse finalmente alle pendici del monte, in una notte buia e tempestosa, carica di pioggia. La città fu posta d’assedio e gli spartani cominciarono a scalare le sue mura. Gli abitanti si lanciarono a difesa delle loro case e della loro libertà, combattendo in maniera disperata. Come scrisse Pausania:
“Anche le donne si mossero per ferire i nemici colle tegole, e con ciò che ciascuna poteva; nè la forza della pioggia potè impedir loro di salire sopra i tetti. Ebbero il coraggio di prendere le armi, e così accesero l’ardire degli uomini, allorchè questi videro le donne che amavano morire per la patria.”
Nonostante l’ardore dei messeni, gli dei avevano decretato la loro volontà. La pioggia non cessava, e aumentava il fragore dei tuoni, lanciati contro gli stessi difensori, per accecarli. Resistettero per 3 giorni e 3 notti contro i guerrieri spartani, che erano così tanti da potersi dare il cambio e combattere sempre freschi e riposati. A questo punto, l’indovino Teoclo andò da Aristomene a dirgli che combattere era inutile, poiché nessuno avrebbe potuto ribaltare la profezia. Il loro popolo era destinato alla sconfitta, dunque non restava che una sola cosa da fare: l’esilio. E detto questo, l’indovino si lanciò contro i nemici spartani, da solo, gridando che nonostante la loro imminente vittoria, non avrebbero goduto per sempre dei frutti messeni. Combatté come un leone in mezzo all’esercito nemico, e infine fu inghiottito, in una sorta di immolazione rituale. Le sue ultime parole suonavano come un presagio di sventura, o vera e propria maledizione, che effettivamente si sarebbe verificata, qualche secolo dopo.
Dopo l’estremo atto di coraggio dell’indovino, Aristomene decise di richiamare i suoi. Si mise alla testa degli ultimi sopravvissuti, i più forti e gloriosi guerrieri che la Grecia aveva mai visto, e guidò il suo popolo attraverso l’esercito spartano, formando una colonna armata fuori dalla stessa città e dalla sommità del monte. Gli spartani, vedendoli passare, decisero di lasciarli fare, consigliati anche dal loro indovino, che conosceva bene quella profezia.
Quella fu l’ultima marcia del flagello di Sparta, che sul monte Ira non ci mise mai più piede. Da quel momento, lui e i suoi seguaci vagarono per la Grecia, finché si dice che trovarono rifugio nell’isola di Rodi, dove si stabilirono per poi far perdere le loro tracce. Ma con questo episodio ho voluto rievocare la loro storia, che circa due secoli prima delle Termopili e della ben più celebre impresa di Leonida, racconta di quando, per una volta, gli eroi non furono gli spartani.
Se queste epiche vicende ti hanno appassionato, mi raccomando seguimi e condividi l’episodio con le appassionate personcine della tua eroica cerchia, così da aiutarmi a diffondere il verbo affilato, alla prossima.
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