L’epico viaggio dei Longobardi
La leggendaria discesa dei longobardi dalla Scandinavia all’Italia: l’epico viaggio narrato da Paolo Diacono tra creature fantastiche ed eroici duelli
In origine erano chiamati Winnili e abitavano l’estremo nord, in Scandinavia: una terra che non poteva garantire il benessere di popoli troppo numerosi. Per questo i Winnili si divisero in tre parti e la terza parte fu costretta ad abbandonare la patria “per andar in traccia di nuove sedi”1. E’ così che comincia la storia dei longobardi narrata da Paolo Diacono nell’VIII secolo: con una condanna all’esilio decisa tramite sorteggio. Una storia mitica che suona come canzone di gesta e racconto biblico allo stesso tempo, per descrivere la discesa di un popolo guerriero fino alla sua Terra Promessa: l’Italia.
I Winnili che erano stati sorteggiati se ne andarono dalla Scandinavia attraversando il mare, afflitti da un destino crudele. Perché nonostante la loro terra non potesse sfamarli, era pur sempre la loro terra. Una terra dura, triste, parola di Tacito: “Chi lascerebbe l’Asia, l’Africa o l’Italia per andare in Germania tra paesaggi desolati, in un clima rigido, in una terra triste da vedere e da starci se non per chi vi sia nato?”2. Era descritto così il territorio dei Germani, il cui confine più settentrionale coincideva proprio con la Scandinavia, più a nord del nord. E i Winnili, prima d’esser chiamati Longobardi, facevano parte di quell’eterogeneo popolo guerriero condividendone tradizioni, religione e fierezza.
Perché, sempre per usare le parole di Tacito: “Più fiera del regno d’Arsace è la libertà dei Germani”3: i germani erano divisi in molti popoli che combattevano per la libertà individuale, al contrario del citato regno d’Arsace, ovvero dei Parti: unito e coeso sotto il dominio del suo monarca. Un’individualità che faceva spesso scontrare i germani tra loro, ed è proprio quel che accadde ai Winnili non appena misero piede sul continente: furono accolti col ferro in pugno da un’altra bellicosa popolazione, i Vandali.
“CAPO VII. Dell’uscita dei Langobardi di Scandinavia condotti da Ibore, ed Ajone.
Usciti adunque i Vinili di Scandinavia condotti da Ibore ed Ajone, e arrivati in un paese che chiamasi Scoringa, ivi si trattennero parecchi anni. A quel tempo Ambri ed Assi, Capitani dei Vandali aveano assalito tutte le vicine provincie. Costoro, gonfi per molte vittorie, mandarono legati ai Vinili, intimando, che o pagassero tributo ai Vandali, Oppure si apparecchiassero a sostenere la guerra. Allora Ibore ed Ajone consigliati da Gambara loro madre, deliberarono esser meglio il difendere la libertà col ferro, di quello che col tributo disonorarla; perciò mandarono in risposta ai Vandali, amar essi piuttosto combattere che servire. Erano allora i Vinili nel fior dell’età giovanile, ma pochi di numero, siccome quelli che d’un’isola non molto vasta formavano appena la terza parte.”
I Vandali che di lì a qualche tempo avrebbero combattuto Roma e che sarebbero persino riusciti a saccheggiarla, adesso fronteggiavano quei pochi esuli appena cacciati dalla loro terra: pochi, affamati, ma fieri. Disposti a tutto pur di non piegarsi, neppure di fronte a un nemico così potente. Per questo si armarono, pronti all’estremo sacrificio dinnanzi agli uomini e agli dèi. Ed è proprio a questi ultimi che si rivolsero prima della battaglia.
Gambara, madre dei condottieri più importanti dei Winnili esiliati, nonché probabilmente una figura di riferimento spirituale, pregò Frea, moglie di Vodan (uno dei nomi di Odino), chiedendo che fosse concessa la vittoria al suo popolo. Frea, da donna a donna, accettò la preghiera e suggerì ai guerrieri Winnili di farsi vedere per primi al cospetto di Odino, prima della battaglia, al levare del sole; e soprattutto di farlo in gran numero, uomini e donne comprese, le quali avrebbero dovuto sciogliersi i capelli giù per la faccia e sistemarli a mo’ di barba.
“CAPO VIII. Favola di Vodan, e di Frea.
Narra a questo luogo l’antichità, che essendo andati i Vandali a implorare da Vodan la vittoria contro i Vinili, ed avendo quegli risposto, che l’avrebbe concessa a coloro che primi avesse veduto al levar del sole, in quel punto siasi presentata Gambara a Frea moglie di Vodan, chiedendo la vittoria pei Vinili, e che Frea abbia dato il consiglio, che le donne dei Vinili lasciati cadere i capelli sciolti giù per la faccia gli accomodassero a guisa di barba, e all’albeggiare in compagnia degli uomini s’affacciassero a Vodan, collocandosi da quella parte ov’egli per una finestra era solito guardare verso l’oriente; e così sia stato fatto: onde Vodan vedendole nel nascer del sole abbia detto: E chi sono cotesti Langobardi? Al che Frea aver soggiunto, che a coloro ai quali egli avea dato il nome donasse pur la vittoria; e così Vodan ai Vinili averla concessa. Cose da ridere, e da non prestarvi niuna fede: poichè la vittoria non si deve alla possanza degli uomini, ma al volere del cielo.
CAPO IX. Perché i Vinili siano stati detti Langobardi. Vodan lo stesso che Mercurio.
Certo è, nondimeno, che quelli i quali prima erano detti Vinili furono chiamati poi Langobardi dalla lunghezza della barba non mai recisa col ferro: perché secondo la loro lingua lang significa lunga, e Baert barba. Ma Vodan, che con l’ aggiunta d’una lettera dissero Guodan, è quello stesso che è detto dai Romani Mercurio, e da tutti i popoli della Germania è adorato per loro Iddio; e non solamente intorno a questi tempi, ma molto prima si afferma tale essere stato non solo in Germania, ma pur nella Grecia.
CAPO X. I Langobardi vincono i Vandali. Fame dei Langobardi.
I Vinili dunque, ossia Langobardi, venuti a conflitto coi Vandali, come quelli che coraggiosamente combattevano per la gloria di libertà, conquistarono la vittoria; ma in appresso, per una grande carestia di vettovaglie, che patirono nella medesima provincia di Scoringa, grandemente furono costernati.”
Così fecero e Odino, all’alba della battaglia, affacciatosi per guardare verso oriente come faceva sempre, si accorse di quella masnada barbuta che stava lì, in armi, ed esclamò: “E chi sono cotesti Langobardi?”. Frea gli rispose che erano i vincitori dell’imminente scontro, poiché aveva appena donato loro un nome. Per noi, quest’ultimo è un passaggio criptico, ma alcuni storici ritengono che si tratti di una tradizione germanica riguardante il potere simbolico dei nomi: dare un nome a qualcosa permette di dar vita a un legame, in questo caso divino. Ma sono solo ipotesi, o “cose da ridere” come dice Paolo Diacono stesso, l’autore della cronaca. Perché lui sta riportando le antiche storie sui longobardi, provenienti da fonti che, in alcuni casi, sono andate perdute, e quindi ci fa sapere che non crede affatto alla vicenda di Vodan, Frea, e delle donne barbute.
Ad ogni modo, i Winnili cominciarono a essere chiamati con un nuovo nome, Longobardi: ovvero coloro che portavano lunghe barbe, mai tagliate da rasoio. E, con Odino o senza, vinsero la battaglia contro i Vandali. Non conosciamo i dettagli, se non che fu una vittoria sofferta, visto che dopo lo scontro seguì una grande carestia che costrinse i longobardi a partire di nuovo. O forse, in realtà, persero la battaglia e furono cacciati. Una simile interpretazione, però, rovina decisamente l’atmosfera quindi non viene presa in considerazione dall’autore.
“CAPO XI. I Langobardi vogliono passare in Mauringa, e sono impediti dagli Assipiti.
Di là trasmigrando, mentre disponeansi ad entrare in Mauringa insorsero gli Assipitti, contrastando loro ad ogni costo il passaggio sui propri confini. I Langobardi mirandosi in faccia un gran numero di nemici non osavano, per la scarsezza dell’ esercito, venir con essi alle mani: se non che la necessità suggerì loro un consiglio. Fingono adunque d’aver nei loro alloggiamenti certi cinocefali, cioè uomini colla testa di cane, e fanno correr la voce fra i nemici, essere costoro nella guerra pertinacissimi, e talmente sitibondi di umano sangue, che se non poteano giungere l’inimico, col proprio si dissetavano. E per accrescer fede a sì fatta invenzione dilatano le trabacche, e accendono molti fuochi qua e là per mezzo l’accampamento: per le quali cose udite e vedute gl’inimici prestano fede al detto, e non osano d’intraprendere la minacciata guerra.”
I longobardi discesero il continente, ancora ignari di quanta strada avrebbero dovuto fare prima di fermarsi definitivamente. E nel corso del viaggio s’imbatterono in un’altra bellicosa popolazione germanica: gli Assipitti. L’esercito degli Assipitti era imponente e i Longobardi non volevano battersi con loro, poiché troppo pochi. Trascorsero molto tempo a riflettere e infine decisero di escogitare uno stratagemma.
Simularono di avere nel loro accampamento dei cinocefali, uomini con la testa di cane, e fecero correre voce tra i nemici che questi esseri fossero combattenti ostinati, che bevevano sangue umano. Per rendere la storia più credibile i Longobardi allargarono le tende del loro campo e accesero moltissimi fuochi. I nemici udendo queste voci e vista la grandezza dell’accampamento persero completamente la voglia di combattere. Sembra la trama del film “Il 13° guerriero”, ed è probabilmente una delle prime apparizioni dei guerrieri lupo nei miti di origine norrena, mito che poi avrebbe arricchito le credenze attorno a una figura oggi protagonista in molte opere narrative ad ambientazione norrena: il berserkr.
L’espediente di far apparire l’esercito più grande di quello che è in realtà è presente in moltissimi altri episodi storici. Giulio Cesare, nel De bello gallico, ci dà una dimostrazione di come stimare le forze avversarie contando i fuochi dell’accampamento nemico4. Belisario, invece, escogitò uno stratagemma simile a quello dei longobardi durante la difesa di Costantinopoli, nell’anno 559.
“CAPO XII. Di due fortissimi uomini l’uno de’ Langobardi, e l’altro degli Assipiti.
Nondimeno aveano presso di sé un uomo fortissimo, nel cui vigor confidavano di poter fuor di dubbio ottenere quanto voleano: perciò questo solo espongono a combattere per tutti. Onde fanno intendere ai Langobardi che mandino innanzi quell’uno che volesser fra i loro, il quale venisse a duellare con esso; colla condizione, che se il loro guerriero rimanesse vittorioso, i Langobardi se n’andassero per la strada ch’eran venuti; se poi costui fosse vinto dall’ altro, ch’eglino più non vieterebbono ai Langobardi il transito pel proprio paese. Per la qual cosa pensando titubanti i Langobardi chi dei loro potessero opporre ad un guerriero sì formidabile, un tale di servil condizione spontaneamente si offerse, promettendo di venire a tenzone col provocante nemico, a patto però che, se si decidesse per lui la vittoria, a se ed a’ suoi discendenti fosse tolta la macchia di servitù. Che più? Tutti esultanti promettono di condiscendere alle sue domande: onde egli attaccò l’inimico e lo vinse, ai Langobardi fu conceduto il passaggio , e il vincitore a se ed a’ suoi acquistò, come aveva desiderato, il diritto di libertà. “
Tuttavia la contesa non era ancora risolta del tutto. Gli Assipitti volevano impedire il passaggio ai Longobardi, e invece della battaglia decisero di ricorrere a un singolo duello: il campione di una parte contro il campione dell’altra, solo così si sarebbe potuto risolvere la disputa. Gli Assipitti avevano un uomo “fortissimo”, il più forte che si fosse mai visto in quei luoghi, il quale senza dubbio avrebbe sbaragliato qualsiasi avversario. I Longobardi, infatti, un guerriero così non lo avevano, e nessuno sembrava voler accettare la sfida. Nessuno tranne uno schiavo. L’unico Longobardo abbastanza coraggioso da sfidare il nemico principalmente per due ragioni: l’amore per il suo popolo, e la volontà di riscatto. Perché in caso di vittoria, chiedeva che lui e i suoi discendenti guadagnassero la libertà. I Longobardi accettarono, esultanti per la fierezza dimostrata da quello schiavo, qualità tra le più considerate, persino rispetto alla forza bruta. E infatti, lo schiavo vinse il duello, forte del suo animo, più che del braccio. E da quel momento fu un uomo libero.
“CAPO XIII. Passaggio dei Langobardi in Mauringa e in altri luoghi.
Essendo finalmente arrivati i Langobardi in Mauringa, per ampliare maggiormente il numero dei combattenti, levarono a molti il giogo servile, e li ridussero allo stato di libertà; e affinchè questa fosse giuridica la sancirono col solito rito della saetta, mormorando intanto per la stabilità della cosa alcune patrie parole. Abbandonata poscia Mauringa, i Langobardi passarono in Gofanda, ove dicesi che qualche tempo siensi fermati. Dopo hanno essi parimente abitato per alcuni anni Antabet, Bataib, e Vurgundaib: i quali noi reputiamo esser nomi di villaggi, oppur d’altri luoghi.
CAPO XIV, Agilmondo primo re de’ Langobardi.
Intanto, morti i due capitani Ibore e Ajone, i quali aveano condotti i Langobardi dalla Scandinavia, e fino a questo tempo gli avevano governati, non volendo più oltre i Langobardi stare sotto il dominio dei lor condottieri, ad esempio delle altre nazioni costituirono un re, Perciò il primo che regnò sopra loro fu Agilmondo figlio di Ajone, che traeva l’ origine dalla prosapia dei Gungicori, la quale da loro era reputata la più nobile delle altre. Costui, come narrano gli antichi, tenne per trentatré anni il Regno de’ Langobardi.”
Visto come era stato valoroso quello schiavo, i longobardi decisero di liberarne molti altri, trasformandoli in guerrieri. Lo fecero tramite il rito della saetta, una tradizione germanica che prevedeva la consegna delle armi secondo un qualche tipo di cerimonia a noi oscura. Per saetta s’intendono le armi da tiro o da lancio, presumibilmente giavellotti, dardi, o forse arco e frecce: è probabile, quindi che gli schiavi liberati andassero a comporre schieramenti di schermagliatori, ovvero una fanteria armata alla leggera, addetta al tiro contro il nemico.
A quel punto si rese necessario anche costituirsi come regno vero e proprio, abbandonando la forma di governo tribale basata sui capi guerra. Agilmondo, figlio di Ajone, fu incoronato primo re dei Longobardi. Una figura misteriosa, la cui storia affonda le proprie radici nel mito, a cominciare dall’incontro con un popolo che non ci si aspetterebbe di trovare nel cuore dell’Europa tardo-antica: le amazzoni.
“CAPO XY. Una meretrice partorisce sette figliuoli, uno de’quali detto Lamissione combatte con un’Amazone.
A questi tempi una certa meretrice sgravossi in un parto di sette bambini, e poi cotesta madre più crudele di tutte le fiere li gettò ad annegare in una peschiera. Che se la cosa a taluno sembrasse impossibile, rilegga le antiche istorie e troverà, che non solamente sette, ma nove infanti da una sola donna in una volta furono partoriti. Il che è certo accadere massimamente fra gli Egiziani. Avvenne perciò, che mentre il re Agilmondo andava a diporto ei giungesse alla detta peschiera, e che fermato il cavallo al vedere quei miserabili bambinelli, voltandoli sossopra con l’asta che aveva in mano, uno di loro allungata la mano afferrasse l’asta reale. Il re mosso a pietà, e considerando come straordinario un tal caso, pronosticò che quel bambino sarebbe divenuto un grand’uomo. E subito comandò che fosse tratto dalla peschiera, e consegnato a una balia per essere con ogni diligenza allevato. E cichè lo avea cavato da una peschiera, che nella loro lingua chiamasi Lama, gli fu dato il nome di Lamissione. Questi essendo cresciuto divenne un giovine talmente gagliardo, che ottenne fra tutti in guerra il primato; e dopo la morte di Agilmondo assunse egli stesso il governo del regno. Narrasi di costui, che viaggiando i Langobardi col re, giunti ad un certo fiume, essendo loro dalle Amazoni contrastato il tragitto, egli abbia pugnato colla più valorosa di quelle a nuoto nel fiume, dove avendola ammazzata, con grande sua gloria abbia ai suoi Langobardi fatto libero il passo: essendosi prima fra l’uno e l’altro esercito convenuto, che se l’Amazone avesse vinto Lamissione, i Langobardì retrocedessero dal fiume; che se poi quella fosse stata vinta da Lamissione i Langobardi si lasciassero liberamente passare quell’acqua. Ma certamente questa asserzione porta seco poco fondamento di verità; stantechè chiunque è informato delle antiche istorie conosce, che la gente delle Amazzoni fu estinta gran tempo prima che queste cose avessero potuto accadere; se non che essendo i luoghi ove si narrano avvenuti questi fatti sì poco noti agl’istoriografi, che da quasi niun di loro non se ne fece menzione, potrebbe darsi che si avesse creduto essersi mantenuta nello stesso luogo fino a quel tempo la detta razza di femmine. Perchè io medesimo udii raccontare da alcuni, che anco al dì d’ oggi nelle interne regioni della Germania sussiste la nazione di queste donne”.
A quel tempo una meretrice longobarda partorì sette bambini, tutti assieme, e li abbandonò in una peschiera, a morire. Se un simile fatto può sembrare impossibile, è lo stesso autore della cronaca a intervenire, stavolta confermando la veridicità dell’avvenimento. Perché di eventi del genere ne aveva sentito parlare altre volte, soprattutto tra gli egiziani, dove si raccontava persino di 9 gemelli. In ogni caso, a passare per caso da quella peschiera fu proprio il re Agilmondo, che fermò il cavallo e infilò la lancia nell’acqua per rimestare in mezzo a quei corpicini, finché uno di loro non allungò la manina per afferrargli l’asta, ancora vivo. Il re fu sconvolto da una simile forza di volontà, e profetizzò che tale neonato sarebbe divenuto un giorno un granduomo. Quindi lo affidò a una balia per allevarlo dandogli nome Lamissone, che nella loro lingua richiamava il significato della peschiera.
Lamissone divenne davvero un granduomo, nonché più abile tra i guerrieri, tanto da esser scelto per duellare contro il campione di un altro popolo per l’ennesima disputa territoriale. O, per meglio dire, duellare con una campionessa. Perché stavolta i nemici che si frapposero tra i longobardi e la meta del loro viaggio erano nientemeno che le Amazzoni. Costoro si erano schierate dinnanzi al fiume per impedire il passaggio, ma invece di dar luogo a una battaglia avevano optato per il duello decisivo, come era già avvenuto con gli Assipitti. Lamissone fu scelto per rappresentare i Longobardi al cospetto degli dèi e lottò contro la migliore delle amazzoni. Combatterono duramente, proprio in mezzo al fiume, a nuoto. E Lamissone vinse.
Una leggenda, questa, a cui Paolo Diacono non crede affatto. Perché le amazzoni, a detta sua, si erano già estinte all’epoca in cui i longobardi discesero il continente. Senza contare che siamo ben lontani dalle terre che il mito vuole associato alle ardite guerriere. Tuttavia, se volessimo prendere per buona questa storia, potremmo scomodare nuovamente Tacito, che per quanto riguarda i germani ci descrive certe donne dei Fenni che vestivano di pelli, si armavano di saette, e che cacciavano assieme agli uomini dividendo con essi la preda5. Può darsi che vedendo queste cacciatrici, qualcuno le avesse scambiate per amazzoni. Proprio come avrebbero fatto, secoli più tardi, i conquistadores spagnoli sulle rive di un fiume del sud America, incappando in un gruppo di donne guerriere indigene che ispirarono il nome di quello stesso fiume: il Rio delle Amazzoni.
Passata anche quella sfida, i longobardi si spostarono a sud, in una terra che diede loro modo di prosperare per trentatré anni: un regno che il primo re Agilmondo governò saggiamente, ma destinato a concludersi nel sangue. Poiché un nuovo nemico giunse all’improvviso, di notte, portando con sé ferro affilato e una promessa di guerra: gli Unni.
“Sono animali selvaggi, bestie a due zampe, semi-uomini che mangiano i loro vecchi, bevono il sangue e si nutrono della carne scaldata sotto le selle dei loro cavalli.”
Jordanes, sugli Unni, V secolo
Gli Unni, che Paolo Diacono chiama “Bulgari”, compivano scorrerie a dorso di cavallo, attaccando come una marea per devastare ogni cosa. E il loro capo più celebre, Attila, di lì a qualche tempo si sarebbe spinto fino ad assediare le città d’Italia. Con le loro cavalcate le orde di semi-uomini dilaniavano il territorio, bisognose di gigantesche quantità di foraggio per i cavalli. Una di quelle razzie colpì proprio i longobardi, una notte. Li attaccarono nel sonno, uccidendo il re e imprigionando la sua unica figliola.
Lamissone, l’orfano trovato a galleggiare in una peschiera, unico sopravvissuto di sette gemelli, fu incoronato secondo sovrano dei longobardi. E subito volse in battaglia contro gli unni, desideroso di vendetta. Ma costoro erano guerrieri formidabili, numerosissimi, perciò l’esercito longobardo, appena cominciato lo scontro, si giudicò sconfitto e si ritrasse per ripiegare. Lamissone andò su tutte le furie. Si rifiutava di fuggire dai nemici che avevano scannato re Agilmondo, che era stato come un padre per lui. Esortò quindi i longobardi all’estremo sacrificio, dicendo loro che sarebbe stato meglio morire, piuttosto che sopportare il giogo del nemico. Il concetto di libertà germanica riaffiora ancora una volta, e re Lamissone diede modo di dimostrarsi il più nobile di tutti, nonostante non lo fosse in linea di sangue: si scagliò contro il nemico per primo, sprezzante e coraggioso, e a una simile vista l’intero esercito lo seguì in battaglia, infiammato dall’ardore del giovane guerriero, ricalcando i sacrifici rituali dei condottieri romani nella leggendaria Devotio.
I longobardi si rovesciarono sui nemici accanendosi con foga, per far di loro un “orrendo macello”. Riportarono una grande vittoria, salvando l’onore e guadagnando un grande bottino. “da quel tempo in poi diventati audaci, costantemente le fatiche della guerra bramarono”. Alcuni ipotizzano che dopo aver salvato la figlia di Agilmondo, Lamissone l’abbia sposata, suggellando così nel matrimonio il suo diritto a regnare.
Lamissone regnò a lungo e i longobardi conquistarono nuovi territori spostandosi sempre più a sud, verso luoghi sempre migliori. Finché un successore di Lamissone, Tatone, non attraversò il Danubio, giungendo in una fertile terra chiamata nella loro lingua “Feld”, ovvero semplicemente “campo”, il cui termine è rimasto nel tedesco moderno e ha dato origine, tra le altre, alla parola “Feldmaresciallo”, ovvero maresciallo di campo. Ma i longobardi entrarono in contatto con un nuovo “vicino” germanico, il popolo degli Eruli, la cui sola presenza recava insidie e sentore di guerra.
Il re degli Eruli, Rodulfo, aveva mandato suo fratello in ambasceria al re longobardo, Tatone. Un principio di alleanza che avrebbe potuto dare buoni frutti, se il fratello di Rodulfo, venuto via dall’incontro coi longobardi, non si fosse fermato nei pressi della casa di Rometruda, la figlia del re longobardo. Costei, vedendo il corteo Erule, domandò se tale nobile guerriero non volesse fermarsi a bere un bicchiere di vino. Il fratello di Rodulfo accettò, ma sceso da cavallo, essendo piccolo di statura, fu preso in giro dalla donna longobarda: “la donzella guardollo con superbo dispregio, ed anche si mise a deriderlo a parole.”
Il nobile Erule, ferito nell’orgoglio, rispose per le rime, insultandola. E Rometruda diede seguito al piano che, forse, aveva già preparato da tempo. Lo fece entrare in casa per bere e lo invitò a sedersi con la schiena alla finestra, la quale era stata coperta da una preziosa tenda per non far vedere che era aperta sull’esterno, dove attendevano degli uomini armati di lancia. Prima ancora che il vino fosse servito all’ambasciatore Erule, la figlia del re longobardo ordinò agli uomini fuori dalla finestra di affondare le lance attraverso la tenda, e il delitto fu consumato.
Questo fu il casus belli della guerra tra Longobardi ed Eruli secondo Paolo Diacono. Non ci vengono spiegate le cause di un simile assassinio, che potrebbero risiedere nei rapporti di potere tra i due popoli, come ipotizzato dagli storici, e dalla prevalicazione degli Eruli stessi sui Longobardi, i quali magari si trovavano in una posizione di sudditanza, afflitti da tasse e altre tirannie che solo la guerra avrebbe potuto sanare.
In ogni caso, Rodulfo degli Eruli schierò l’esercito in battaglia contro i longobardi, così sicuro della vittoria che decise di rimanere nell’accampamento a giocare a dadi. I suoi guerrieri erano infatti veterani di molte battaglie, sprezzanti del pericolo e della morte. Paolo Diacono ci racconta che gli Eruli combattevano nudi, coprendosi solo le parti vergognose del corpo per mostrare eventuali ferite che non avevano paura di subire. Una credenza, quella di combattere ignudi, spesso attribuita a vari costumi germanici e confermata anche da Tacito6.
Rodulfo, re degli Eruli, che se ne stava al sicuro, ordinò a uno dei suoi di salire sopra un albero per guardare verso il campo di battaglia e comunicargli quando si fosse concluso lo scontro, certo della vittoria della sua gente. Ma lo avvertì anche che gli avrebbe tagliato la testa, in caso di esito differente. Con un simile peso sulla coscienza, la vedetta salì sull’albero e osservò la battaglia, la quale, contrariamente alle aspettative, fu vinta dai longobardi. Quel poveraccio sull’albero, vista la minaccia del sovrano, non s’azzardò a comunicare la brutta notizia, anzi, dapprima mentì dicendo che gli Eruli stavano combattendo “ottimamente”. Almeno finché i sopravvissuti della mischia non iniziarono a fuggire verso di loro, per rifugiarsi all’accampamento. La vedetta sull’albero si lasciò quindi scappare un’imprecazione: “Ahi! Misera Erulia! Oh come ti sei punita dalla collera del Signore!”
Ascoltate queste parole, il sovrano s’accorse del destino delle sue genti, ma era ormai troppo tardi per rimediare. I longobardi calarono sull’accampamento degli Eruli massacrando tutti, compreso il re. Quella sconfitta sancì la fine del loro popolo, che da quel momento non ebbe mai più un re e scomparve dalla storia, disperso o assorbito dagli stessi longobardi. Il prezioso elmo di Rodulfo e il suo stendardo, che nella loro lingua era chiamato “bando”, da cui deriva l’odierno “bandiera, furono il bottino di Tatone, assieme a tutto quel che fu rinvenuto dalle innumerevoli spoglie di quei guerrieri ignudi nelle vesti, ma ricchi di averi.
Il potere dei longobardi crebbe con gli anni, così come le sue conquiste e la sua fama. Di nemici, però, è pieno il mondo, e le guerre non finiscono mai. Infatti, dopo aver raggiunto la Pannonia, che corrisponde all’odierna Ungheria, l’allora re Audoino, discendente di Tatone, si trovò di fronte una nuova minaccia: i Gepidi.
I Gepidi condividevano con i longobardi le origini mitologiche, anch’essi esuli di Scandinavia, salpati con gli altri 2 popoli che componevano la stirpe gotica: visigoti e ostrogoti. Secondo la tradizione, ciascun ramo della famiglia dei goti salpò su una nave, e la più lenta delle tre si rivelò essere proprio quella dei Gepidi, dando loro il nome, “in quanto nel loro linguaggio gepanta significa lento”7.
Una tradizione che forse voleva essere anche profezia, perché i Gepidi, come molti altri popoli venuti a contatto coi longobardi, non sopravvissero alla vista di coloro che portavano barbe mai toccate da rasoio.
Il giorno della battaglia, i due schieramenti si scontrarono valorosamente, alla pari, senza che in principio si potesse scorgere una prevaricazione dell’una o dell’altra parte. Finché il figlio del re longobardo, Alboino, non si lanciò al galoppo contro il figlio del re Gepide, menandogli addosso un fendente di spada che lo ammazzò sul colpo. Il duello tra principi, ammirato da tutti gli uomini, segnò le sorti dell’intera battaglia. I gepidi, infatti, vedendo ucciso il figlio del loro re, si scoraggiarono e si dettero alla fuga. I longobardi li inseguirono fino a massacrarli tutti.
I longobardi acclamarono il giovane Alboino, chiedendo a gran voce che tale valoroso principe sedesse a mensa col padre per essere onorato della vittoria. Tuttavia il padre non poteva acconsentire. Poiché, come voleva la tradizione: nessun principe poteva sedere a banchetto col padre, se prima non aveva ricevuto le armi da un re straniero. Ed ecco che Alboino colse l’occasione per intraprendere una vera e propria “cerca” antelitteram, una “quest” prima ancora che si diffondessero le canzoni di gesta: ottenere le armi dal re dei Gepidi, lo stesso re a cui aveva appena ammazzato il figlio in battaglia.
Ma cosa sono queste “armi”? In cosa consisteva questa tradizione longobarda che impediva al principe di sedere a tavola col re, fintanto che non aveva dimostrato il proprio valore? Una spiegazione possiamo averla tramite le parole di Tacito:
“(I germani) Non trattano alcun affare, sia pubblico che privato, se non sono armati, ma a nessun giovane è permesso di portare armi prima che la comunità ne abbia accertato l’attitudine. Poi, nell’assemblea stessa, uno dei capi o il padre o uno dei parenti gli porge una lancia e uno scudo. Per i germani queste armi sono ciò che per noi è la toga, la prima onorificenza conferita alla loro giovinezza.”
Dunque le “armi” sono un simbolo di maturità guerriera. E, nel caso di un principe longobardo, non basta riceverle in dono per essere considerati valenti membri della comunità, ma devono essere strappate a un sovrano nemico in quanto “prova” o “battesimo del fuoco”. Cosa che Alboino, nonostante avesse vinto il duello col principe, e di conseguenza la battaglia, non era riuscito a fare: insomma, mancava la prova tangibile della sua impresa, l’ultimo dettaglio per completare la transizione da giovane qualsiasi a eroe longobardo.
Alboino, dunque, assieme a quaranta guerrieri, andò dal re dei Gepidi per chiedere la consegna delle armi che gli spettavano in virtù della sua vittoria sul campo. E il re dei Gepidi, straordinariamente, lo accolse, invitandolo alla mensa. E’ evidente che fosse al corrente di una simile tradizione.
Alboino, quindi, sedette alla destra del re nemico, nello stesso posto che avrebbe dovuto occupare il principe dei Gepidi e che, invece, adesso era occupato da colui che lo aveva assassinato. Una situazione surreale, frutto magari di fantasia: frammento romanzato all’interno di una cronaca farcita di episodi dal sapore mitologico. Però nelle fonti antiche, talvolta si incappa in simili consuetudini legate alla sacralità del desco e all’ospitalità rituale. Ce lo racconta anche Giulio Cesare nel suo De Bello Gallico:
“Pensano che sia sbagliato violare gli ospiti. Impediscono a coloro che vengono accolti per qualsiasi motivo di ferirsi e li mantengono sani.”8
In ogni caso, il re dei Gepidi, non era di certo contento. Infatti, nel vedere quel principe nemico lì seduto, si lasciò scappare un’esclamazione: “Oh quanto mi è caro quel luogo, e quanto odioso chi lo occupa!”. Confermando così quel che stavano pensando tutti i suoi sudditi che partecipavano al banchetto, dando il via libera alle emozioni fino a quel momento represse per una convenzione di rito, e che adesso scoppiarono in una bufera.
I Gepidi si presero a male parole con il principe longobardo e i suoi quaranta guerrieri. Dissero che quelle fasce bianche che costoro usavano legarsi alle gambe li facevano assomigliare alle loro cavalle, visto che sulle zampe di tali animali cresceva pelo bianco fino alle ginocchia. Uno strano insulto che però lascia trasparire un dettaglio di vestiario molto importante, perché accade di rado che nelle fonti scritte compaiano descrizioni simili. Di rimando, un longobardo propose allora di trovarsi fuori, nel campo, per far conoscere quanto gagliardamente sapevano tirar calci. E poi qualcuno insultò pure la memoria del principe morto. Insomma: stava per scoppiare una bella rissa da banchetto alto-medievale come siamo abituati a vedere in film e serie-tv. Se non fosse, che fu il re dei Gepidi stesso a placare gli animi, facendo riferimento ancora una volta al rito dell’ospitalità, perché:
“Non è accetta a Dio la vittoria di colui che, in casa propria, uccide il nemico.”
Una sacralità così forte da tenere a bada quel manipolo di guerrieri pronti a scannarsi. Sacralità forse solo letteraria, in parte smentita dagli episodi di sangue che hanno tinto il medioevo, soprattutto dall’Anno Mille in poi, quando i banchetti venivano bagnati di sangue senza particolari remore, e la cruda realtà prendeva il posto della finzione. Le stesse atmosfere cupe che ho amato raccontare ne La Stirpe delle Ossa, dove il signore di un feudo in rovina si trova a lottare in un’Italia del Trecento afflitta da guerre, carestie e dal morbo; luoghi dove non c’è spazio per ospitalità dal sapore biblico e altre tradizioni mistiche, se non quelle sopravvissute alla diffusione del cristianesimo assieme a varie superstizioni d’origine pagana, alcune delle quali portate proprio dai longobardi.
La rissa dunque non ebbe luogo. Tutti tornarono a mangiare e, infine, il re dei Gepidi consegnò le sue armi, onorando così Alboino, principe longobardo, e riconoscendogli il valore di guerriero, oltre all’estremo coraggio che aveva dimostrato nel presentarsi proprio lì, nella dimora del nemico più che mai corroso dall’odio.
Alboino si guadagnò quindi il diritto di sedere al desco del padre, pronto a ricoprire il ruolo di sovrano che, in futuro, lo avrebbe consegnato alla storia come il primo ad aver conquistato, finalmente, l’ultima tappa dell’epopea longobarda: la terra d’Italia.
Se questo venticinquesimo glorioso episodio di Leggende Affilate ti ha appassionato (più corposo degli altri proprio per festeggiare questo traguardo), mi raccomando, seguimi e condividilo, anche semplicemente parlandone con gli amici. Così mi aiuterai a diffondere storie colme d’avventura, magia e spadate in faccia.
E ricorda che le storie che narro non finiscono qui, ma proseguono e si ampliano nei miei romanzi. Infatti sto ultimando la scrittura del secondo volume di prossima pubblicazione, di cui presto svelerò qualche dettaglio. Se nel frattempo vuoi leggere La Stirpe delle Ossa, adesso è un buon momento perché è stato appena ristampato. La prima tiratura, infatti, è esaurita: un traguardo di cui sono contentissimo e orgoglioso, e di cui, a proposito, voglio ringraziare tutti coloro che l’hanno già letto. Grazie di cuore.
Se, invece, devi ancora cominciare questa avventura, puoi farlo subito. Puoi trovare La Stirpe delle Ossa in tutte le librerie e gli store online, Amazon compreso, che te lo consegna dopo qualche giorno. Almeno finché non esauriscono di nuovo le copie, cosa che in realtà mi farebbe molto piacere!
Grazie per aver ascoltato questo 25esimo episodio speciale. Ti aspetto al prossimo. Perché le Leggende Affilate non finiscono di certo qui. Ciao!
- Historia Langobardorum, Paolo Diacono, Traduzione Q. Viviani ↩
- Tacito, Germania 2 ↩
- Tacito, Germania 37 ↩
- “Quae castra ut fumo, atque ignibus significabatur, amplius mille IIX in latitudinem putebant” ↩
- Tacito, Germani 46 ↩
- “nudi aut sagulo leves” Germani, 6 ↩
- Giordane XVII, 94-95 ↩
- Cesare De Bello Gallico VI 23 ↩
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