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27 Novembre 2023

L’assedio di san Giovanni d’Acri, 1291

maestro dei templari assedio di acri

L’assedio di san Giovanni d’Acri del 1291: l’ultima battaglia delle crociate

5 aprile 1291, l’esercito del sultano d’Egitto al-Ashraf giunge in vista della città fortezza di San Giovanni d’Acri, l’ultima difesa del regno cristiano d’Oltremare. Più di duecentomila mamelucchi sono schierati fuori dalle mura, nell’attesa di sferrare l’attacco che sarà ricordato come uno degli assedi più spettacolari, e drammatici, della storia medievale. I difensori sono in inferiorità numerica, poco più di diecimila, ma tra le loro fila si ergono i cavalieri degli ordini militari: guerrieri che negli ultimi due secoli hanno votato la loro vita alla spada e alla croce. Ospitalieri, teutonici, cavalieri di San Lazzaro, di San Tommaso, dello Spirito Santo e, ovviamente, i cavalieri del Tempio: tutti sulle mura di Acri, gomito a gomito, pronti a morire.

La caduta di Acri sancisce l’episodio conclusivo dell’epopea delle Crociate, la lunga serie di campagne militari promosse dalla Chiesa e volte alla riconquista di Gerusalemme, la città santa. I crociati si sono battuti duramente nel corso dei secoli, tanto da ritagliarsi un regno al di là del mare, nel vicino Oriente. Questo regno però non durò molto. Mantenerlo era un’impresa impossibile e, pezzetto dopo pezzetto, fu perduto sotto l’inarrestabile avanzata del nemico saraceno. Ad un certo punto non rimasero altro che una manciata di città minori, oltre a qualche castello e fortificazioni sparse, cui faceva capo san Giovanni d’Acri, ultimo rifugio di coloro che ancora si ostinavano a restare in Terra Santa ad arricchirsi con i commerci, a compiere pellegrinaggi e smazzolare infedeli per guadagnarsi un posto in paradiso.

Gran parte delle informazioni riguardo l’assedio ci sono state tramandate dal Templare di Tiro, un autore la cui identità è rimasta sconosciuta, che nel Trecento scrisse un’ampia cronaca dei fatti avvenuti in Terra Santa, negli ultimi decenni di vita del Regno Crociato. Molti di questi eventi sono narrati in prima persona, come una vera e propria testimonianza oculare, portando molti storici a ritenere che questo templare di Tiro fosse presente a san Giovanni d’Acri, forse nel corso dell’assedio; o quantomeno che avesse a disposizione notizie di prima mano visto l’importante incarico che ricopriva. Costui, infatti, probabilmente non era un cavaliere templare in senso stretto, ma un funzionario, diplomatico e traduttore: una figura importantissima per un ordine così potente e ramificato; il quale, per forza di cose, si vedeva passare davanti agli occhi documenti cruciali per la storia medievale, come avvenne nel 1290, un anno prima dell’assedio.

Al templare di Tiro furono consegnate delle lettere scritte in lingua saracena indirizzate all’allora maestro del Tempio, Guglielmo di Beaujeu, tra cui ve n’era una che riportava le parole del sultano d’Egitto in persona, e che possiamo ammirare integralmente poiché, per fortuna, fu trascritta nella cronaca:

“Il sultano dei sultani, il re dei re, il signore dei signori, Malik al-Aëraf, il potente, il temuto, castigatore di ribelli, persecutore dei franchi e dei tartari e degli armeni, conquistatore di castelli in mano agli infedeli, signore dei due mari, servitore dei due santi pellegrinaggi, Khafil ai-Sâlihi, a voi maestro, nobile maestro del Tempio, (…) poiché voi siete stato un uomo veritiero vi mandiamo lettere e la nostra volontà, e vi facciamo sapere che veniamo dalle vostre parti per punire i torti commessi, per cui noi non vogliamo che la comunità di Acri ci debba mandare lettere né doni, perché noi non li accetteremo.” 

Questa lettera, capitata tra le mani del templare di Tiro, era a tutti gli effetti una dichiarazione di guerra: il sultano stava preparando l’esercito e presto sarebbe giunto a punire i torti commessi. Obiettivo: San Giovanni d’Acri, naturalmente, l’ultima città rimasta.

Il templare di Tiro trascrisse la lettera in francese e la portò al maestro del Tempio, destinatario della missiva, nonché uomo occidentale più influente di Terra Santa agli occhi del nemico, ancor più del sovrano del Regno Crociato, e dei nobili e dei baroni. Il motivo per cui il maestro del Tempio risultava più importante di tutti gli altri, re e imperatori compresi, non riguardava solo il potere politico o economico dell’ordine, ma la sua stabilità secolare, nell’Oltremare. Re e baroni andavano e venivano, in continuazione, crociata dopo crociata. Ciascuno di loro, poi, dopo aver trascorso qualche anno a combattere i saraceni, faceva ritorno alla propria terra, per coltivare i veri interessi che risiedevano in Occidente. I templari, invece, così come gli altri ordini, no: loro restavano. La loro missione era là, i loro interessi erano là. Ed è naturale pensare che i rapporti col nemico fossero migliori con chi risiedeva stabilmente nell’Oltremare, rispetto a chi andava e veniva. Rapporti che non si componevano solo di guerre e battaglie, ma anche di trattati, favori di ogni genere, accordi. Accordi che, questa volta, non poterono impedire lo scontro. La macchina da guerra del nemico si era già messa in funzione. Ma chi era questo nemico? Chi erano i saraceni?

Spesso col termine “saraceni”, a partire dalle stesse cronache medievali, si indicava un generico avversario musulmano contro cui hanno combattuto fior fior di cavalieri crociati. Ma si tratta, naturalmente, di una generalizzazione superficiale di tutti quei popoli, anche molto diversi tra loro, che erano accomunati dalla lingua e dalla religione, e talvolta nemmeno quella, visto il numero di fazioni e correnti interne al mondo islamico. Spesso gli autori medievali occidentali identificavano come nemico numero uno della croce il cosiddetto “sultano di Babilonia”; termine di natura biblica, un pochino fantasioso, che corrispondeva talvolta a Baghdad, talvolta al Cairo… insomma, la realtà si mischiava col racconto, e le definizioni non erano quasi mai precise. Dal XIII secolo in poi, però, alcuni saraceni cominciarono a imporsi sugli altri nell’immaginario collettivo occidentale, divenendo la minaccia numero uno: i mamelucchi d’Egitto.

I mamelucchi erano guerrieri scelti fra gli schiavi (dall’arabo mamlùk, posseduto), nati quindi al di fuori della sfera religiosa musulmana. Il motivo di una simile particolarità è da ricercare nel sistema di addestramento che portava a una forte coesione militare e un’infrangibile fedeltà. Stando alle parole di Jean de Joinville, i mamelucchi erano in principio schiavi e prigionieri, istruiti all’arte della guerra fin dall’infanzia per un unico scopo: riscattare la propria libertà in battaglia. Il livello meritocratico di questa società militare, permetteva a ogni individuo di scalare la gerarchia, arrivando a guadagnare posizioni di prestigio e ottenere perfino incarichi politici. Col tempo, questo sistema diede luogo a corpi d’armata professionisti, motivati e difficilmente corruttibili.

Il biografo di Luigi il Santo racconta che il sultano d’Egitto allevava i fanciulli nella sua casa, istruendoli al tiro con l’arco e alla disciplina di spada. Appena mettevano su la barba, il sultano li faceva cavalieri, e li mandava a combattere. Ovviamente le parole usate dallo storico occidentale “farli cavalieri” riflettono il suo modo di vedere le cose: perché per un nobile franco, i prestigiosi nemici che affrontava sul campo, sebbene appartenessero a una cultura tanto diversa dalla sua, non potevano che essere cavalieri, come lui. Dopodiché, se questi guerrieri scelti si battevano bene, il sultano li faceva emiri, e affidava loro una compagnia di duecento o trecento cavalieri; e quanto meglio facevano, tanto più concedeva.

I mamelucchi accrebbero il loro potere fino a divenire una vera e propria casta sociale, scalando i vertici delle autorità e soppiantando la dinastia degli Ayyubidi fondata un secolo prima da Saladino. Coloro che erano nati schiavi, diventarono di fatto i padroni di un intero sultanato. Ma la loro fame di conquista non si limitava al mondo politico islamico. Il vicino regno crociato era a portata di spada, frammentato e debole; e adesso che restava una sola città fortezza, per quanto maestosa e formidabile, era giunto il momento di muovere guerra al fine di ottenere il dominio incontrastato del regno di Gerusalemme, una volta per tutte.

Nell’inverno del 1290, procurandosi legname dalla Siria e facendolo arrivare a Damasco, i Mamelucchi del sultanato d’Egitto diedero inizio alla costruzione di un incredibile arsenale di macchine d’assedio: circa 70 catapulte di varia grandezza, fra cui i classici mangani con l’estremità del braccio a forma di cucchiaio per contenere massi o svariate pietre assieme, fino ai mangani più piccoli, di stampo turco come li definisce il Templare di Tiro; temutissimi dagli uomini, rispetto alle grandi macchine, per via della pioggia di letali pietre che erano in grado di scatenare. Alcune di queste macchine d’assedio erano così imponenti da scagliare massi di circa 50kg, e le 4 più grandi, veri e propri colossi, furono costruite per dirigere i colpi sui punti fortificati della città, distruggendo mura, portali e torri, invece che scavalcarli per colpire l’abitato.

Fra questi 4 colossi, vi era la grande catapulta chiamata Al Mansuri, “Il Vittorioso”. Per trasportarla da Damasco fino ad Acri fu smontata in vari pezzi, ciascuno collocato su un carro: operazione che coinvolse gran parte della popolazione, fra cui “giuristi, insegnanti, studiosi, e uomini pii”, come racconta un cronista arabo, giustificando così la jihad, la guerra santa, in quanto giusta e desiderata da tutti, anche dai membri più colti e importanti della società, i quali si rimboccarono le maniche per preparare l’attacco. Un’operazione, quella di trasportare colossali macchine d’assedio, che si rivelò durissima. Secondo lo stesso cronista arabo, la marcia verso Acri si svolse alla fine dell’inverno, tra piogge e nevi (un tempo atmosferico che non ci aspetteremmo in quelle zone di Terra Santa, dove nell’immaginario collettivo è tutto deserto, ma non è così, come testimoniato da questo episodio). Per la trazione dei carri e la debolezza dei buoi che morivano dal freddo, dovettero sopportare gravi disagi. E impiegarono un mese di marcia per un cammino che, normalmente, avrebbero percorso in otto giorni di cavalcata 1.

Una movimentazione di marchingegni, bestie e persone straordinaria, che stando alle parole del templare di Tiro, diede forma a un’armata mastodontica: settantamila uomini a cavallo, e più di centocinquantamila a piedi. Il 5 aprile dell’anno 1291, tale poderoso esercito giunse dinnanzi alle mura bianche della città fortezza cristiana, l’ultimo baluardo crociato, san Giovanni d’Acri; città che, tra uomini, donne e bambini, contava in tutto dalle trenta alle quarantamila persone, delle quali soltanto 13.000 erano uomini armati. Di cavalieri veri e propri, invece, in città ve n’erano 700-800. Una disparità numerica con gli assedianti dell’ordine di più di uno a cento.

Queste cifre, naturalmente, potrebbero non essere aderenti alla realtà. Lo stesso templare di Tiro, da cui ho attinto la maggior parte delle informazioni perché autore tra i più vicini ai fatti, quasi una testimone oculare, è di parte. Ma questo non deve indurci a credere che siano tutte fandonie, o numeri ingigantiti in maniera spropositata. Molti storici ritengono queste cifre verosimili, anche perché una cosa è certa: si trattava davvero dell’armata più grande mai schierata dal sultanato d’Egitto nel corso delle crociate. E quel giorno d’aprile del 1291 era là, fuori dalle mura. Ma come si difendevano i cristiani? Com’era questa città d’Acri?

La città di san Giovanni d’Acri era una città-fortezza affacciata sul mare, il cui porto era uno dei più importanti del Mediterraneo, scalo per le più ricche rotte commerciali dell’epoca. Uno scrigno di ricchezza e diversità, protetto da una formidabile doppia cinta muraria, intervallata da un fossato ampio circa 10 metri; mura che si dice fossero tinte di bianca calce, maestose e abbaglianti. Lo stesso tessuto urbanistico della città, era composto da abitazioni fortificate, case torri, palazzi e veri e propri castelli che fungevano da base operativa dei vari ordini monastico cavallereschi. Perché dopo la perdita delle varie città che avevano composto il Regno Crociato nei secoli e nei decenni precedenti, tutto era confluito ad Acri, comprese le sedi delle organizzazioni militari più potenti dell’Occidente, e non solo: essendo una città portuale fondamentale per l’economia del tempo, al suo interno prendevano posto interi quartieri popolati da mercanti, la maggior parte dei quali erano italiani: primi fra tutti i genovesi, pisani e veneziani. Ciascuno di questi gruppi possedeva il proprio quartiere fortificato, con mura di pietra e torri, e guardie, per far fronte alle inimicizie tipiche del Bel Paese: in pratica, noi italiani, ci facevamo la guerra tra noi pure dall’altra parte del mondo. Una guerra vera, con eserciti schierati e flotte navali.

Gli attriti fra genovesi, pisani e veneziani, in particolare, erano così forti che quarant’anni prima, nello stesso porto di Acri, le organizzazioni mercantili italiane s’incontrarono per dare battaglia a bordo di navi da guerra, creando un tale caos politico nella città e nell’intero Regno Crociato (e lasciando una gran quantità di corpi a galleggiare nel mare tinto di rosso) da costringere persino gli ordini monastico-cavallereschi a schierarsi per l’una o l’altra parte, facendoli anche scontrare tra di loro. Le galee italiane s’incendiavano a vicenda, fra abbordaggi e combattimenti mortali, e in determinati frangenti i soldati scesero pure a terra, per le vie della città, distruggendo abitazioni e chiese della parte avversa. Insomma, un caos che solo gli stessi saraceni avrebbero potuto superare. E nessuno poteva dir loro più di tanto, perché gli italiani dominavano il Mediterraneo. Con le loro navi trasportavano gli stessi crociati, su e giù, e le merci, e l’oro. Troppi interessi tutti assieme.

Questi trascorsi movimentati avevano forgiato una città-fortezza poderosa, protetta da due cerchie di mura concentriche, e da molte organizzazioni armate che, sebbene diverse tra loro, anche al livello di interesse, vantavano un’ampia esperienza militare. Noi, oggigiorno, conosciamo soprattutto i cavalieri templari, dal manto bianco con la croce rossa, protagonisti di film d’azione e complotti. I più appassionati di storia conoscono anche gli ospitalieri dell’ordine di san Giovanni e i cavalieri teutonici. Ma ve n’erano molti altri, come l’ordine inglese di san Tommaso e tanti che, data la scarsa rilevanza storica, vengono menzionati e nulla più, tramandandoci solo un nome, come quei cavalieri del Santo Spirito, presenti ad Acri durante quei terribili giorni, appena accennati nelle cronache. Tanti ordini guerrieri, tanti cavalieri e soldati, tanti soldi: ma tutto questo poteva non essere abbastanza.

Quel 5 aprile dell’anno 1291, i mamelucchi montarono l’accampamento, con le tende e i padiglioni molto vicini gli uni agli altri, in modo da coprire l’intera pianura intorno alla città. La gigantesca tenda vermiglia del sultano si trovava su una collina, dove c’era una torre con giardini un tempo appartenuti all’ordine templare. La soglia della tenda era rivolta verso Acri, poiché era così che usavano fare i sultani, mostrando a tutti quale fosse la direzione del loro sguardo, e dunque il prossimo obiettivo. Per otto giorni, tale immenso esercito sostò in quella pianura, tra rumori di martello, zappa, vanga; carri che facevano avanti e indietro e grandi quantità di legname trasportate su e giù. I crociati compirono qualche sortita con i cavalieri, per punzecchiare questo gigantesco nemico sonnolento, ma si trattava solo di schermaglie in attesa della vera guerra, che cominciò l’ottavo giorno

I mamelucchi finirono di montare l’accampamento e, soprattutto, le macchine d’assedio. Una delle più grandi, di nome “l’infuriato”, puntava contro il baluardo difeso dai templari; “il vittorioso” era rivolto al baluardo pisano, e così le altre, contro le difese degli ospitalieri e degli uomini del re, l’ultimo sovrano del Regno Crociato di Terra Santa, Enrico II di Lusignano, che in quel momento non stava ad Acri, ma nell’isola di Cipro; forse perché in fondo, sapeva già come sarebbe andata a finire.

Il sultano ordinò l’attacco, e le oltre 70 macchine d’assedio dei mamelucchi riversarono sassi e pietre contro la città: una fitta sassaiola che durò giorni, portando morte e devastazione tra gli abitanti, poiché la maggior parte dei massi scavalcavano le mura e finivano tra le case. Alcune di queste macchine erano in grado di scagliare proiettili impressionanti, ma le difese di Acri erano davvero formidabili, e la città avrebbe retto a oltranza, persino un assalto così ingente, rispondendo persino al tiro. Perché anche i cristiani possedevano le loro macchine d’assedio, montate entro la prima cerchia di mura, fra i quartieri fortificati degli italiani, in special modo quello dei pisani. Inoltre, i difensori di Acri potevano contare su una flotta.

Il punto di forza dei cristiani d’Oltremare era dovuto proprio a quei mercanti italiani, e alle loro galee da guerra che percorrevano il Mediterraneo, avanti e indietro, combattendo contro pirati e nemici di ogni genere. Una flotta che il sultano d’Egitto non poteva contrastare, poiché non possedeva che una manciata di navi, inferiori sotto ogni aspetto alle meraviglie sfornate dagli arsenali italiani. Ed è per questo che se anche la terraferma, fuori dalla città, era completamente in mano al nemico, il mare restava di dominio di Genova, Pisa e Venezia. Acri, col suo porto protetto dalle mura, si affacciava sull’intero Occidente. Forse, non tutto era perduto.

I veneziani di Acri uscirono in mare sulle loro navi, montando macchine d’assedio sui ponti di coperta e costeggiando le spiagge per assaltare il nemico mamelucco: operazioni difficilissime, che per colpa del mare ingrossato richiedevano abilità senza pari, per manovrare coi remi e con le vele, scagliando pietre allo stesso tempo. I mamelucchi, quindi, furono costretti a tenersi lontano dalla costa, fiancheggiati dalle navi cristiane. Non avevano alcun modo di difendersi, privi come erano di navi. Ma, dopotutto, non ne avevano alcun bisogno. Erano così tanti che potevano benissimo sopportare quelle perdite e andare avanti a martellare la città, come un maglio inarrestabile. Senza contare che il sultano aveva altre carte da giocare.

Ogni notte, il sultano faceva avanzare la propria armata verso le mura, portando avanti una lunghissima barriera composta da grandi scudi di rami intrecciati. Ciascun soldato si portava dietro questo scudo, che possiamo immaginarlo delle dimensioni di una porta, e avanzava fin quanto poteva. Poi piantava lo scudo davanti a sé e si fermava. I mamelucchi si avvicinavano così ai piedi delle mura, per ripararsi dai dardi. E non appena i cristiani se ne accorsero, lanciarono una serie di sortite, a cavallo, per colpire il nemico di notte, mentre mandava avanti queste operazioni. Tuttavia, i portatori di scudi erano protetti dalla sterminata cavalleria mamelucca: cavalieri armati di spada e arco, che pattugliavano da costa a costa, e si scagliavano contro i cristiani non appena questi aprivano le porte. Così facendo, quasi indisturbato, il sultano schierò i suoi uomini fin sotto le mura, davanti al primo fossato, per cominciare una nuova serie di operazioni, quelle decisive nella guerra d’assedio medievale: la creazione di tunnel.

I mamelucchi cominciarono a scavare gallerie per raggiungere le fondamenta delle mura e delle torri, per farle crollare. Solitamente lo si faceva appiccando il fuoco a materiali combustibili, sottoterra, in prossimità delle fondamenta, per incrinare quel tanto che bastava la stabilità delle costruzioni e distruggerle. Ed è proprio quello che fecero. Crollò dapprima una torre della seconda cerchia, e poi un intero bastione. I difensori scavavano a loro volta delle gallerie per contrastare quelle del nemico, ma ancora una volta il numero soverchiante degli assedianti impediva loro di reagire in maniera adeguata. I manovali del sultano erano un’infinità, e si alternavano, sempre freschi, sempre al lavoro. I difensori, invece, dovevano occupare l’intera linea difensiva con i pochi uomini a disposizione, tra cui solo un numero limitato erano cavalieri.

Le fonti riportano che la maggior parte dei cavalieri a difesa di Acri appartenessero agli ordini monastico-militari. I più vestivano il manto dell’ordine del Tempio, per una stima di circa 240 cavalieri templari. L’ordine di San Giovanni poteva schierare sui 140 cavalieri ospitalieri, e gli altri tre ordini che avevano sede in città potevano fornire circa una cinquantina di cavalieri in tutto (25 cavalieri di San Lazzaro, 15 Cavalieri Teutonici e 10 Cavalieri di San Tommaso). Vi erano anche alcuni cavalieri secolari, franchi e inglesi, ovvero privi di croce ordinaria, e cavalieri ciprioti, al soldo del sovrano del Regno Crociato. Di altri ordini non ne siamo a conoscenza, e comunque sono tutte stime che servono solo a farci capire la disparità di forze, laddove il grosso dell’esercito di Acri era composto da quei 13.000 fanti, soldati comuni, e nulla più.

Quei 25 cavalieri di san Lazzaro, un altro degli ordini militari adombrati dalla fama dei templari, di cui si parla poco oggigiorno, erano uniti da un voto forse più gravoso di qualsiasi altro monaco cavaliere. Poiché il loro ordine, riconoscibile dalla croce verde cucita sul petto, aveva come scopo la protezione e l’assistenza agli infermi, soprattutto coloro che erano stati colpiti dalla lebbra; compresi gli stessi cavalieri. Non a caso esisteva una regola del codice templare che intimava coloro che avevano contratto il terribile morbo di unirsi ai lazzariti, lasciando il manto bianco con la croce rossa per quello nero con la croce verde.

E’ probabile, quindi, che alcuni cavalieri lazzariti fossero essi stessi lebbrosi, votati all’unico ordine che avrebbe permesso loro di scendere in battaglia senza discriminazioni a fronte di una vita che, altrimenti, sarebbe stata afflitta dall’emarginazione. Dei lazzariti e della via di riscatto e redenzione che offriva loro la Terra Santa, ne parlo in un precedente episodio di Leggende Affilate, oltre a prenderli come fonte di ispirazione per i miei romanzi, soprattutto il primo “La Stirpe delle Ossa” e il secondo “La Canzone dei Morti”.

I cavalieri templari e i cavalieri di san Lazzaro combatterono fianco a fianco nell’ultima battaglia delle crociate, radunati sulle mura del quarto settore dei bastioni, respingendo gli assalti con le scale che cominciarono ad avvicendarsi, giorno dopo giorno, tra una sassaiola e l’altra. Insieme compirono anche una grandiosa sortita la notte tra il 15 e il 16 aprile, attraverso i battenti di Porta San Lazzaro, chiamata così proprio perché nelle vicinanze sorgeva la sede dell’ordine della croce verde. Il maestro del Tempio Guglielmo de Beaujeu in persona guidò l’attacco notturno per tentare di distruggere le macchine d’assedio del nemico; ma nonostante il coraggio, il vantaggio numerico del nemico impedì loro di portare a termine la missione, rischiando pure d’essere annientati completamente. Perché molti cavalieri finirono impigliati tra le corde delle tende dell’accampamento e furono trucidati.

I giorni passarono e la situazione diventava sempre più disperata. Nonostante le maestose difese e gli sforzi dei difensori, i mamelucchi guadagnavano terreno, devastando pezzo dopo pezzo le mura che ora non erano più imbiancate di calce, ma scure e sgretolate. San Giovanni d’Acri non poteva farcela da sola, non se l’intero Occidente se ne stava a guardare, compreso lo stesso sovrano del Regno Crociato, nascosto al sicuro dall’altra parte del mare, nell’isola di Cipro.

Fu così, che giunti i primi giorni di maggio, il sovrano decise di fare un salto fino alla città assediata. Il 4 maggio Enrico II di Lusignano sbarcò nel porto ancora ben protetto dalla flotta intoccabile dei mercanti italiani, e scaricò viveri, soldati e una ventata di speranza. Il re, dopotutto, è pur sempre il re, e vederlo sul campo di battaglia fa sempre una buona impressione, agli uomini. Tale sovrano, però, di montare a cavallo non ne aveva alcuna intenzione. Anzi, organizzò un incontro diplomatico col sultano, nel padiglione su quella collina fuori dalla città. Mandò dei messaggeri cristiani,che partirono disarmati, attraversarono l’intera pianura ricolma di tende nemiche e raggiunsero il sultano. S’inginocchiarono tre volte e il re dei re, signore dei signori, il potente, il temuto, castigatore di ribelli, persecutore dei franchi e dei tartari e degli armeni, conquistatore di castelli in mano agli infedeli, signore dei due mari, chiese ai messaggeri se si trovassero lì per consegnargli le chiavi della città. I messaggeri risposero di no, che quella non era città da arrendersi facilmente. Piuttosto erano lì per uno scambio di favori, per rilasciare prigionieri, e magari un salvacondotto per le povere genti. Il sultano disse allora che l’unica grazia che avrebbe concesso, a tutti quanti, sarebbe stata quella di farli uscire tutti quanti assieme, e permettere loro di andar via per sempre, indenni, e senza mai più ritornare. Ma i messaggeri non erano lì per negoziare la resa della città, dunque l’incontro si risolse con un nulla di fatto, e sarebbe finito pure peggio, poiché una macchina d’assedio cristiana, non si sa per quale motivo, scagliò un masso nel corso di questa tregua diplomatica, e il masso finì così vicino al padiglione del sultano, che quest’ultimo scattò in piedi ed estrasse la spada di un palmo, minacciando di tagliare la testa a tutti quei porci cristiani. I diplomatici, però, riuscirono a scamparla e se ne tornarono in città. La sassaiola riprese subito dopo, così come gli assalti.

La prima torre a cadere fu la cosiddetta torre del re, posta a guardia della seconda cerchia muraria. L’intera facciata si rovesciò al suolo, finendo nel fossato sottostante, poiché sotto era stata dilaniata dai tunnel. I mamelucchi accorsero con sacchi di sabbia e li riversarono in massa nel fossato lì davanti, formando un terrapieno che permetteva loro di raggiungere la torre sventrata ed entrare. L’indomani, al mattino, lo stendardo del sultano sventolava dalla cima della fortificazione mezza distrutta: una visione che fece piombare l’intera città nello sconforto.

Se fino a quel momento l’idea di perdere la città aveva sfiorato le menti degli abitanti, adesso diventava reale in tutto il suo orrore. Cominciò una corsa alle navi, molte delle quali si riempirono di uomini, donne e bambini che si erano decisi solo all’ultimo istante di abbandonare per sempre quel ricco paese che li aveva sfamati, e che adesso minacciava d’ucciderli. Tuttavia, quel giovedì il mare era in burrasca, e nessuna nave poté salpare. Gli abitanti scesero a terra e se ne tornarono di nuovo nelle loro case, mentre un tamburo cominciava a risuonare nell’aria.

“E quando venne il venerdì, prima di giorno, un tamburo risuonò molto forte e al suono di quel tamburo, che faceva un rumore orribile e molto intenso, i saraceni assalirono la città di Acri da tutte le parti, e il primo punto da cui entrarono fu da quella maledetta torre…”

Con queste parole, il templare di Tiro descrive il grandioso assalto mamelucco avvenuto il giorno dopo la presa di quella torre, accompagnato dall’orribile suono di un tamburo. La descrizione prosegue, dettagliando quella marea nemica che si avvicinava alla città.

“Venivano tutti a piedi, ed erano innumerevoli, e davanti venivano quelli che portavano grandi scudi alti, e dopo venivano quelli che tiravano il fuoco greco, e dopo c’erano quelli che tiravano giavellotti e frecce piumate così fittamente che sembrava che cadesse pioggia dal cielo.”

L’armata del sultano oltrepassò la prima cerchia di mura, passando attraverso la breccia aperta tra i resti di quella torre conquistata, e sciamò verso la seconda cerchia, l’ultima rimasta a separare gli abitanti dalla minaccia di morte e devastazione. Il maestro del Tempio Guglielmo di Beaujeu, non appena udì il tamburo, radunò i suoi cavalieri e si ricongiunse con il maestro dell’Ospedale. Tutti assieme cavalcarono verso la breccia, incontrando il nemico nello spazio tra le due cerchie di mura, sperando così di colpirlo con la forza di una carica di cavalleria. A loro si unirono altri cavalieri, degli ordini e non, compresi i cavalieri di Cipro portati dal re; tutti lanciati in un assalto disperato. I cavalieri crociati si scontrarono contro la marea asserragliata tra le mura, così numerosa e compatta che una volta raggiunti in punta di lancia, sembrò loro di colpire un muro di pietra.

I mamelucchi erano troppi, rinvigoriti dalla recente conquista e accompagnati dagli ordigni incendiari delle leggende orientali: quel fuoco greco di cui tanto si parlava nelle cronache, e di cui ogni cristiano temeva il contatto. Il cronista racconta di uno di quegli ordigni che, lanciato dai mamelucchi, s’infranse sul petto di un povero cavaliere inglese, descrivendone la tragica morte con queste parole:

“prese fuoco la sua cotta d’armi, e non vi fu nessuno a soccorrerlo, così che ebbe bruciato il viso e poi tutto il corpo, e bruciava come fosse un calderone di pece…”

Il maestro dei templari, Guglielmo di Beaujeu, di fronte a questo assaggio d’Apocalisse, in mezzo alla tempesta di dardi, ferro e fuoco, non volle arrendersi. Raccolse i dieci o dodici cavalieri che gli restavano e lanciò un’ultima carica verso il punto in cui traboccavano i nemici. I templari guidati dal loro maestro galopparono compatti verso il nemico e caricarono i ranghi serrati dei mamelucchi, che continuavano ad assaltare senza posa, come fossero infiniti. Ed è in questo frangente che si consuma l’episodio che decise le sorti dell’intero assedio, come narrato in questo passo della cronaca:

“Una freccia venne scagliata in direzione del maestro del Tempio nel momento in cui aveva la mano sinistra alzata e lo colpì sotto l’ascella. La punta di ferro gli entrò a un palmo di mano nel corpo, nel punto in cui le placche della corazza non erano attaccate, perché quella non era una corazza sicura, ma una corazza leggera per armarsi facilmente, alla svelta. E quando si sentì ferito a morte, voltò il cavallo e cominciò ad andarsene. Molti pensarono che volesse mettersi in salvo e pure lo stendardiere del Tempio lo seguì, così come tutti i suoi uomini. Mentre se ne andava, venti crociati del Vallo di Spoleto lo rincorsero per dirgli: “Per Dio, signore, non andatevene, perché la città sarebbe presto perduta!” E lui rispose a voce alta, in modo che tutti lo udissero: “Signori, non posso più fuggire, perché sto morendo.”

E allora tutti videro la freccia conficcata nella sopravveste non più bianca, ma inzuppata di rosso.

Il maestro fu portato via dalla battaglia, al sicuro, dove trascorse le ultime ore che gli rimanevano, mentre fuori il tamburo mamelucco continuava a scandire l’assalto. Così muore il maestro dei templari. Un evento che, da solo, fu in grado di spezzare il morale dell’intera città, che da quel momento in poi rovinò verso il baratro.

I saraceni sfondarono le difese e si riversarono tra le case con la potenza soverchiante del loro esercito. La battaglia prese piede per le strade, tra i fumi del fuoco greco. I cavalieri degli ordini militari, gli ultimi rimasti, si lanciarono contro di loro per cercare di contenere l’assalto e respingerli, ma erano troppo pochi. Il maresciallo degli Ospitalieri, Matteo di Claremont, guidò un’ultima carica a cavallo, assieme ai suoi confratelli. Un atto disperato, forse più un’immolazione per conquistarsi il paradiso, che una mossa tattica.

Secondo la cronaca, il maresciallo dell’Ospedale “galoppò in mezzo ai saraceni come una furia, (…) e finì oltre l’intero esercito. Con i suoi colpi gettò a terra molti degli infedeli, e altri ancora fuggivano da lui come le pecore che fuggono dal lupo. Matteo di Claremont combatté strenuamente col pugno di fratelli che gli restavano e fu costretto poi a ripiegare in città, circondato dalle orde nemiche. Il suo cavallo però era esausto e il maresciallo si fermò in una piazza del quartiere genovese, impossibilitato a continuare. Fu raggiunto da una pioggia di frecce e colpito a morte. Così pure quel fedele guerriero, cavaliere di Cristo, abbandonò la sua anima al Creatore.”

Il maestro del Tempio era morto. Il maresciallo degli Ospitalieri era morto. Pure il maestro degli ospitalieri fu ferito gravemente, per essere portato alle navi e imbarcato assieme al re, che ormai aveva deciso d’abbandonare san Giovanni d’Acri. Il sovrano del Regno Crociato se ne andava. I due ordini più potenti dell’Occidente erano sconfitti. Restavano solo i sopravvissuti degli ordini minori, molti dei quali senza guida, in mezzo a una città che gridava.

I saraceni sciamavano tra le case, in massa. Appiccarono fuoco alle macchine da guerra dei difensori, assediarono le fortezze degli ordini e passarono a fil di spada tutti coloro che si trovarono davanti. I superstiti fuggirono tra i vicoli di pietra, verso le poche navi rimaste in porto. Una di esse era troppo carica, pesante, presa d’assalto dai disperati. La nave si rovesciò su un fianco, tra le grida spezzate di coloro che finivano in acqua e andò giù, a fondo.

Le ultime navi cristiane salparono dal porto di Acri portando via i sopravvissuti. Non tutti, però. Alcuni restarono a combattere barricandosi per le strade, nei palazzi fortificati e nelle torri della città di pietra; molti templari guidati dal maresciallo Pietro di Sevrey rimasero a lottare fino all’ultimo istante: si chiusero nella loro fortezza a picco sul mare, un quartier generale che era un vero e proprio castello dentro la città. Resistettero per dieci giorni e avrebbero continuato ancora a lungo se non fosse stato per i tunnel sotterranei che i mamelucchi scavarono tutto intorno alla fortezza. Il castello crollò e i templari morirono tutti, compresi molti saraceni, schiacciati dalle rovine.

Fu così che Acri, l’ultimo baluardo del regno crociato, cadde in mano al sultano e venne rasa al suolo. Terra bruciata: la strategia di riconquista dei mamelucchi, per ributtare a mare i cristiani e non rivederli mai più.

Il maestro degli ospitalieri Jean de Villiers, ferito ma scampato alla disfatta, una volta sbarcato a Cipro, scrisse una lettera per riassumere quel che era accaduto, in poche righe, dicendo di avere “grande tristezza nel cuore”, ed essere prigioniero “di un dolore travolgente.” Fu un duro colpo per tutta la cristianità. Il sogno di possedere la Città Santa era svanito e un intero regno era stato cancellato.

Con la caduta di Acri, il Regno d’Oltremare cessò di esistere. Ma cosa significa? Come può essere cancellato un regno? In verità vi erano ancora delle città, castelli e avamposti crociati: Beirut, Sidone, e Tiro, forse la più importante di tutte. Ma dopo Acri, nessuna di queste oppose una vera e propria resistenza. Non appena giunse la notizia, e si fece avanti il nemico mamelucco per portare a termine l’opera, le città furono abbandonate. Anche castel Pellegrino, uno dei bastioni più importanti e celebri dei templari, storicamente inespugnabile poiché non fu mai preso con la forza, fu svuotato e lasciato ai saraceni.

Gli ordini monastico-militari si trasferirono a Cipro, e da lì si sparsero in tutto l’Occidente. L’ordine di san Giovanni degli ospitalieri col tempo trovò la sua nuova strada, riconvertendosi alla lotta contro i pirati e alla difesa dei mari cristiani, rinominato poi l’ordine di Malta. L’ordine di san Lazzaro proseguì la sua missione d’assistenza ai lebbrosi, e così via. Ma i templari, no: loro rimasero ancorati all’ideale di Gerusalemme, la città santa da riconquistare. Negli anni seguenti guidarono delle spedizioni per la ricostruzione del Regno Crociato, alcune delle quali promosse dall’ultimo maestro del Tempio, Jacques de Molay. L’ultimo maestro dell’ordine templare, il più conosciuto di tutti per sua sfortuna. Poiché nell’anno 1305 il sovrano francese, Filippo IV, detto il bello, aprì un’inchiesta formale contro di lui e l’intero ordine templare.

Le accuse furono di “Negazione di Cristo, sputi sulla croce, rapporti carnali tra fratelli e baci osceni”: eresia, idolatria, sodomia. La storia dell’ordine dei cavalieri del Tempio di Gerusalemme si concluse con uno spietato processo, la confisca di tutti i beni (probabilmente il vero obiettivo del sovrano francese) e il rogo, rendendo ancora più amara la caduta di quella città sulla costa della Terra Santa, dalle mura bianche e abbaglianti, che vide gli ultimi atti di coraggio di uomini devoti quanto spietati, coraggiosi ma talvolta anche abietti, ricolmi di luci e ombre, in un’epoca in cui la spada era la via risolutiva; ma in fondo, anche se oggi non si impugna più la spada, forse, non è cambiato molto.

Con questa storia straordinaria ho voluto celebrare il 50esimo episodio del mio podcast “Leggende Affilate”. Ti invito a seguirmi, se vuoi vivere altre avventure come questa, basate sulle cronache e i resoconti antichi. Per recuperare gli altri episodi basta seguirmi sulla piattaforma che preferisci (YouTube o Spotify) e lasciare un apprezzamento sotto forma di like, mi piace, stella, spadata in faccia o quel che è: far sapere, insomma, alla piattaforma che questa storia ti ha appassionato e che ne vuoi ancora; un solo click per supportarmi, e aiutarmi a diffondere nuovi episodi storici, sempre avventurosi, sempre affilati. Alla prossima.

  1. Abu al Fida, Al Mukhtasar, “Acri, 1291”, Antonio Musarra
Lorenzo Manara
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