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9 Maggio 2023

1942, Casa Pavlov

casa pavlov

Un pugno di russi contro un intero reggimento nazista: l’assedio di casa Pavlov durante la battaglia di Stalingrado

La sera del 27 settembre 1942 il sergente Pavlov strisciava sul terreno pieno di macerie, in direzione di un palazzo di 4 piani devastato dai bombardamenti. L’edificio sorgeva in una piazza ed era servito da lunghe strade che tagliavano la città di Stalingrado. La visuale dall’ultimo piano era libera su ogni lato e si estendeva per un chilometro; un eccellente punto strategico per mantenere il controllo dell’accesso al fiume Volga, purtroppo però con un grave difetto: quel palazzo era occupato dai nazisti.

Jakov Fedotovič Pavlov, sergente del 13° fucilieri della Guardia dell’Armata Rossa, in ricognizione assieme a tre compagni di squadra: una squadra cui era stato affidato il compito di scoprire quanti nazisti ci fossero in quella casa sventrata, e che tipo di armi avessero con loro. Non era contemplato alcun fallimento, se avessero abbandonato la missione sarebbero stati giustiziati per l’ordine numero 227 emanato da Stalin:

“Non un passo indietro! Questo dovrà essere il nostro motto d’ora in poi. Dobbiamo proteggere ogni punto di forza, ogni metro di suolo sovietico ostinatamente, fino all’ultima goccia di sangue, stringere ogni pezzo della nostra terra e difenderla il più a lungo possibile. La nostra Madrepatria sta attraversando tempi difficili. Dobbiamo fermarci e poi contrattaccare e distruggere il nemico. A qualunque costo.”

Coloro che avrebbero smesso di combattere, insomma, sarebbero stati ammazzati sul posto.

Mentre il sergente Pavlov ripensava a tutto questo, sdraiato sulle macerie, il familiare rombo di un MG42 cominciò a tuonare: raffiche di mitragliatrice si abbatterono su di lui e i suoi tre compagni. I nazisti li avevano scorti.

Pavlov vide le sferzate dei proiettili infrangersi vicinissime, così vicine da arrivare a squarciargli il cappotto. Tuttavia non fuggì dinnanzi al nemico, non poteva farlo. Prese a correre verso il palazzo, fece fuoco col suo mitra PPSH e tirò una granata contro la finestra da cui sprizzavano le fiamme dell’MG tedesca. Lo scoppio pose fine allo sferragliare delle raffiche, si fece silenzio. E i quattro ricognitori dell’armata rossa poterono finalmente tirare il fiato: la squadra di nazisti che presidiava il palazzo era stata annientata. Una semplice ricognizione si era tramutata in vittoria.

Pavlov era stato inviato in avanscoperta solo per raccogliere informazioni, ma adesso che aveva conquistato l’intero palazzo non poteva certo abbandonarlo. Ordine 227: non un passo indietro. Non poteva permettere che i nazisti prendessero di nuovo possesso di un luogo così importante. Dunque si rimboccò le maniche e assieme ai suoi tre compagni organizzò la guardia. Rinforzarono le trincee attorno all’edificio, si piazzarono alle finestre e attesero.

Giunse la notte e assieme alle tenebre comparvero anche le ombre dei nazisti. Il reggimento della Wehrmacht che avrebbe dovuto attraversare il Volga era venuto a conoscenza di uno sparuto gruppo di russi in possesso del palazzo, per questo lanciò quella che sarebbe dovuta essere una facile controffensiva. I tedeschi si avvicinarono alle mura, supportati dai colpi di mortaio e dalle raffiche di mitragliatrice, ma non riuscirono neppure a sfiorarlo quel vecchio cemento sgretolato dai proiettili. A difenderlo c’era il sergente Pavlov ed egli non era di certo il tipo d’uomo che molla facilmente. Lui e i suoi compagni riuscirono a resistere contro decine di nemici, combattendo strenuamente fino al sorgere del sole. I tedeschi si resero conto di aver sottovalutato la situazione e si ritirarono: il primo scontro di quel che sarebbe passato alla storia come il lungo assedio di casa Pavlov si era concluso.

Un episodio della Seconda guerra Mondiale, questo, avvenuto nel terrificante contesto della battaglia di Stalingrado, e trasmesso proprio grazie alle testimonianze di quegli stessi soldati, tra cui Pavlov: un resoconto dettagliato, pieno di particolari romanzati che sembrano usciti da un film. Forse troppo romanzati. Insomma, lo spettro della propaganda russa è dietro l’angolo per ricordarci che in certi frangenti la cronaca potrebbe esser stata un po’ infiocchettata, ma in fin dei conti quale fonte storica non lo è. Antichità, Medioevo, Età Moderna: il cento per cento di attendibilità non è mai esistito. E ormai lo ripeto sempre, da che mondo è mondo, gli umani mentono o sbagliano, e continueranno a farlo per sempre.

Al termine della prima notte d’assedio, l’alba portò con sé una buona notizia: l’Armata Rossa aveva saputo della conquista di quella che ormai tutti chiamavano “casa Pavlov” e aveva inviato dei rinforzi: 18 soldati giunsero con armi, munizioni, 3 fucili anticarro PTR e una mitragliatrice Maxim. Forte dei rinforzi e del morale risollevato, il sergente diede inizio all’organizzazione delle difese per trasformare quell’edificio martoriato dai bombardamenti in un bastione inespugnabile.

Nel giro di qualche ora ogni accesso all’edificio fu coperto con i detriti, circondato dal filo spinato e riempito di mine. Tutte le finestre furono rinforzate con sacchi di sabbia e ognuno dei quattro piani fu rifornito di abbondanti armi e munizioni. Il sergente Pavlov fece sfondare tratti di pavimento per poter comunicare fra un piano e l’altro senza dover usare le rampe di scale. Fu liberato inoltre un lungo passaggio che dal retro del palazzo arrivava fino alla riva del Volga, verso il comando del reggimento russo da cui potevano giungere acqua, cibo e, soprattutto, una nuova linea di comunicazione.

Le difese furono ultimate al calar del sole, quando le tenebre tornarono ad ammantare Stalingrado, e i nazisti diedero inizio a un nuovo attacco; questa volta però in grande stile. Bombardarono il palazzo con lunghe sessioni di mortaio e ordinarono un assalto di fanteria. Ma gli uomini del sergente Pavlov erano pronti ad accoglierli. Durante i bombardamenti si erano ritirati nei sotterranei adibiti a rifugio e subito dopo che il vento aveva disperso il fumo erano tornati ai loro posti, pronti a scaricare sui nemici tutte le munizioni di cui disponevano. Pavlov stesso li incitava a resistere, camminando fra le postazioni per ricordar loro di non cedere. Non un passo indietro.

L’edificio resse al secondo assalto, al terzo e poi al quarto. I giorni passavano e ogni plotone della Wehrmacht si scontrava inutilmente contro i bastioni difesi da quel pugno di russi. I tedeschi erano così infuriati che all’ennesimo fallimento richiesero l’intervento di un’intera divisione Panzer.

Il rumore dei cingoli che calpestavano le macerie quella fredda mattina di ottobre furono come un presagio di morte: i carri armati tedeschi si stavano dirigendo verso il palazzo, le lunghe bocche di fuoco puntate dritte contro le finestre.

Le micidiali cannonate dei Panzer fecero a pezzi le mura, parete dopo parete, stanza dopo stanza. Il fuoco di sbarramento fu così intenso che gli stessi russi si meravigliarono che l’edificio rimanesse in piedi. Dopo qualche ora di fuoco ininterrotto venne giù l’intera parete che dava verso nord, scoperchiando tutta la facciata. Le testimonianze dei sopravvissuti ci riportano pure un dialogo avvenuto tra gli uomini di Pavlov, in quel frangente:

“E’ crollato un muro portante!” gridò uno dei difensori mentre la tempesta di bombe infuriava sopra le loro teste. “Tanto meglio” gli rispose qualcuno, “Le stanze saranno più ventilate”.

Pavlov aveva avvistato i carri armati in tempo e aveva ordinato agli uomini di rifugiarsi sottoterra, portando con sé i 3 fucili anticarro. Mentre i panzer erano impegnati a cannoneggiare, immersi nel fumo e nel frastuono, i russi strisciarono fuori dal seminterrato e fecero fuoco. Gli speciali proiettili dei fucili anticarro perforavano i punti più sottili dei mezzi corazzati, come i fianchi o il retro, raggiungendo l’equipaggio che si trovava all’interno.

Presto quel palazzo divenne leggendario. I nazisti cominciarono a credere che fosse impossibile conquistarlo e che quel tale, il sergente Pavlov, fosse un eroe immortale. Per due lunghi mesi, dal 28 settembre al 25 novembre 1942, un plotone di semplici fucilieri dell’Armata Rossa tenne testa a un intero reggimento della Wehrmacht. La fine dell’assedio giunse con il contrattacco delle forze sovietiche, la grande operazione che diede inizio alla fase conclusiva della battaglia di Stalingrado e alla sconfitta nazista.

Pavlov sopravvisse all’assedio. Continuò a combattere per il resto della guerra fino alla caduta di Berlino e venne insignito del titolo di Eroe dell’Unione Sovietica, il più alto riconoscimento militare dell’Armata Rossa. L’edificio che difese strenuamente per 59 giorni venne ricostruito dopo la guerra e decorato con un monumento. Ancora oggi viene ricordato il sacrificio di quel pugno di uomini che, nonostante il soverchiante numero di nemici, non indietreggiò di un solo passo dinnanzi alla morte.

Molti anni più tardi il sergente Pavlov tornò a Stalingrado in quella stessa piazza, davanti a quello stesso palazzo. Queste furono le sue parole:

“Guardo la nostra casa e non la riconosco. Questa non è la stessa casa mezza crollata, ferita e strappata come la ricordo da tutta una vita. È di nuovo una bella casa luminosa, con vetri, porte, un tetto e tutto il resto.” 

Sembrerebbe che gli archivi tedeschi non citino massicce offensive pianificate contro questo singolo palazzo, o menzioni particolari riguardo la sua importanza strategica. E nemmeno gli archivi russi. Tuttavia, la battaglia di Stalingrado del 1942 fu uno scontro così gigantesco, combattuto su un territorio così denso, che molti storici lo ritengono tra i più importanti della Seconda Guerra Mondiale: uno scontro cruciale, che ci ha lasciato moltissimi episodi di questo genere che, magari, presi singolarmente non sono da considerarsi decisivi, ma messi assieme sì.

Ecco perché l’assedio di casa Pavlov e la strenua difesa di quel pugno di russi contro un intero reggimento tedesco rappresenta uno spaccato di eroismo moderno, come lo erano le antiche battaglie che, in qualche modo, trovano motivo di paragone. Basti pensare alle Termopili e ai 300 spartani. La battuta sulla ventilazione delle stanze, pronunciata dagli uomini di Pavlov dopo il crollo della facciata, sembrerebbe proprio una colta citazione di Erodoto, quando lo spartano di nome Dienece, indicato dallo storico greco come il migliore delle Termopili, sentendo dire che i Persiani avrebbero oscurato il sole, tante erano le loro frecce, rispose: «Allora combatteremo all’ombra!»

In fin dei conti, è proprio così che nasce una leggenda.

Se la storia dell’assedio di casa Pavlov ti ha appassionato, mi raccomando seguimi, così non perderai l’occasione di vivere le prossime Leggende Affilate.

Lorenzo Manara
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