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28 Maggio 2023

Di automi, congegni e golem magici

automi e golem magici

Articolo del podcast Storia della Magia, episodio 18: Di automi, congegni e golem magici

Fra le meraviglie partorite dalle menti più geniali del mondo greco antico vi sono, tra le altre cose, pure gli automi. Non bastava l’invenzione dei princìpi di filosofia, matematica, psicologia, drammaturgia, fotografia (già nel IV secolo a.C. Aristotele accennò i principi della camera oscura, e c’è mancato poco così dall’avere un suo selfie).

Sono moltissime le materie padroneggiate dagli antichi greci su cui ancora oggi basiamo le nostre conoscenze, tra le quali vi era persino il tentativo di riprodurre meccanicamente i movimenti animali e umani attraverso congegni autonomi. La parola stessa “automa” deriva dall’antico greco, e significa infatti “che agisce da sé”, autonomamente.

Nel IV secolo avanti Cristo, Archita di Taranto, di scuola pitagorica, considerato l’inventore della meccanica (nonché matematico, fisico, filosofo e persino teorico musicale), secondo la tradizione riuscì per primo a far funzionare degli automi meccanici. Aulo Gellio, autore romano del II secolo dopo Cristo, scrisse su di lui:

“Non soltanto parecchi autori greci di chiara fama ma persino il filosofo Favorino, puntiglioso studioso delle cose antiche, testimonia con assoluta certezza che Archita costruì secondo metodi meccanici un oggetto ligneo a forma di colomba, e che questa colomba volò. E’ evidente che essa era equilibrata perfettamente grazie a contrappesi e nascondeva al suo interno la ragione del fiotto d’aria che le consentiva il volo”.

Aulo Gellio, Notti Attiche, libro X-12

Gli storici credono che la colomba di Archita fosse una macchina riempita con una vescica gonfia d’aria, chiusa da una valvola, che schizzava via tramite la spinta propulsiva dell’aria e batteva pure le ali. Ingegnoso, divertente, ma gli automi antichi non erano solo giocattoli fine a sé stessi. Nel racconto mitologico, ad esempio, fa la comparsa un umanoide di tutt’altra fattura, creato per scopi guerreschi, di dimensioni colossali.

Talos era il gigante di bronzo forgiato da Efesto, posto a guardia di Creta, contro cui Giasone e i suoi argonauti si scontrarono una volta giunti sull’isola. Pattugliava la costa per attaccare gli invasori con il lancio di massi e l’utilizzo del proprio pesante corpo metallico, talvolta arroventato nel fuoco per bruciare e schiacciare chiunque vi entrasse in contatto.

Talos era invincibile, nessuna arma poteva ferirlo. O quasi. Perché come da perfetta tradizione mitologica possedeva un punto debole sulla caviglia dove affiorava l’unica vena visibile dell’intero corpo bronzeo. Ed è proprio lì che venne colpito dagli argonauti, e nello specifico da un incanto di Medea, la quale lo tramortì fino a fargli sbattere il malleolo contro le rocce, proprio sul punto debole. Il gigante metallico non poté più reggersi in piedi e, ferito a morte, precipitò “con gran fracasso”. Il mito chiarisce la sua natura magico-meccanica, quindi artificiale, lontana dal mondo naturale, poiché dalla vena ferita fuoriuscì sangue simile a “liquefatto piombo”.

Efesto nelle stesse Argonautiche costruisce un altro prodigio metallico, questa volta a forma di furioso toro sputafiamme. Siccome non lo considerava abbastanza pericoloso, ne fece due. I tori bronzei però son poca cosa per Giasone, che grazie a una pozione magica, preparata sempre da Medea, riesce a soggiogarli, legandoli a un aratro d’adamantio.

“Dunque nel palazzo di Eeta di Citea
l’abile Efesto ideò tali meravigliose opere;
e per lui elaborò tori dalle zampe di bronzo, e di bronzo
era la loro bocca, da cui una terribile fiamma di fuoco andavano spirando”

Argonautiche, Apollonio, Libro III, vv. 228

Un altro umanoide magico-meccanico comparso nella mitologia classica deve la sua creazione al leggendario Dedalo, costruttore del labirinto del minotauro, nella stessa isola di Creta dove camminava il gigante Talos. Dedalo era un inventore geniale, che dopo il labirinto creò una macchina per fuggire con suo figlio Icaro. Grazie alle celebri ali di piume e cera che simulavano il volo degli uccelli, i due attraversarono il mare regalandoci uno degli epiloghi più tragici della storia mitologica.

Le invenzioni di Dedalo però non finiscono qui. Platone, nel dialogo tra Socrate e Menone, gli attribuisce la creazione di statue così realistiche che sarebbero potute scappar via, se tenute slegate. Sebbene questo aneddoto serva a Platone come stratagemma letterario per una spiegazione filosofica, qualcuno ha immaginato si trattasse di statue realmente esistite, dalle membra semoventi, con braccia e occhi simili a quelli degli uomini, e gambe spinte da una forza propulsiva.

Di aneddoti simili ve ne sono molti, anche fuori dal mondo antico. In un poema del ciclo di Carlo Magno, ad esempio, si racconta di un’intera comunità composta da automi.

“Ciascuno tiene nella sua bocca un corno d’avorio bianco.
(…)Fondono, usano il tornio poco e tanto,
come la strada e il carro che discendono sulla terra.
Suonano il corno e sbattono e insieme rombano
come tamburi o grandi campane che pendono;
gli uni accigliati e gli altri sorridenti
così come fossero veri e tutti fossero vivi.“

traduzione di Christa Tuczay, Esoterismo e magia nel Medioevo

Pure nel ciclo di Artù compaiono vari automi meccanici, di metallo e non. In una versione in lingua francese del “Tristano e Isotta” del XII secolo, viene descritta una “sala delle statue” dove il cavaliere che soffre laceranti pene d’amore può rifugiarsi per ammirare l’effige artificiale dell’amata, ricreata appositamente per lui “così simile alla regina nella forma, nella bellezza e nella grandezza, che sembrava che fosse lì di persona, fresca come se fosse stata viva (…) niente di più bello in tutto l’universo”.

La statua di Isotta emanava dalle labbra e dai capelli un profumo ricavato da un sistema di tubicini collegati alla cavità del cuore, dove si nascondeva una scatola piena di aromi. Era vestita di porpora ed ermellino, indossava una corona d’oro puro con incastonate pietre preziose e sulla fronte brillava uno smeraldo. Con la mano destra reggeva uno scettro d’oro e di gemme, sulla cui sommità un automa-uccellino batteva le ali. Non mancavano altre riproduzioni semoventi di nani, giganti, e alcuni animali: un cagnolino e un leone ruggente.

Non esistevano solo automi meccanici sanguinari, dunque, ma anche pregiati attrezzi per il privato sollazzo di cavalieri ed eroi. Chissà cosa combinava il Tristano, da solo, con quella statua “fresca come fosse stata viva”…

Col trascorrere dei secoli moltissimi inventori di svariati paesi del mondo, da Al-Jazari (e i suoi straordinari automi meccanici) a Leonardo da Vinci (col suo automa cavaliere), si son cimentati nella difficile riproduzione del movimento tramite la meccanica.

In particolare, sul confine tra mondo antico e mondo medievale si muovevano quegli autori arabi che attingevano alle fonti greche per tradurre, trascrivere e produrre nuova conoscenza. Uno dei più celebri è Jabir ibn Hayyan (latinizzato in Geber), vissuto nel VIII secolo, cui sono state attribuite così tante opere nel corso del tempo da riempire un’intera libreria. Si tratta perlopiù di leggende appartenenti alla sottocultura esoterica, legate alla stregoneria moderna e, soprattutto, all’alchimia.

Jabir afferma nel suo “Libro delle pietre” che lo scopo dell’alchimista è “confondere e indurre in errore tutti tranne coloro che Dio ama e provvede!“ Infatti le conoscenze alchemiche e in particolare quelle di Jabir sono state scritte secondo un codice che solo gli iniziati possono comprendere (ma più probabilmente si tratta di una scusa per giustificare le molte lacune di tali conoscenze, e il motivo per cui non funzionano mai). Il lavoro di questo autore aveva come obiettivo ultimo il Takwin, termine arabo che sta a indicare la creazione di minerali, piante e animali in via artificiale, e la creazione della vita stessa, compresa quella umana.

L’idea alla base della generazione della vita artificiale deriva dalla classificazione naturale dei quattro elementi, che secondo le concezioni esoteriche servono come fondamenta per la creazione: se è possibile in natura, allora lo si può fare anche in laboratorio. Jabir racconta di uno stregone “che riuscì a creare un essere umano, che, però, non possedeva i poteri della ragione e della parola e non poteva mangiare. Menziona anche l’argilla di una certa montagna, che aveva il potenziale per produrre spontaneamente corpi senza vita e sarebbe stata usata per creare esseri viventi; questi, tuttavia, non vissero mai più di un giorno“.

Ed è proprio a questo punto che dall’automa antico, autonomo ma senza vita, si passa a creazioni ben più elaborate, più vicine a creature vere e proprie, per quanto artificiali. La menzione dell’argilla nelle fonti medievali fa subito venire in mente un noto personaggio dell’esoterismo ebraico, creato tramite le conoscenze più segrete della Cabala. Mi riferisco, naturalmente, al golem.

In una cronaca del XII secolo, scritta in Italia da un autore (Ahimaaz ben Paltiel) membro di un’importante comunità ebraica, si racconta di un fatto straordinario avvenuto a Benevento. 

“Quando giunse a Benevento tutta la comunità uscì come un solo uomo per accoglierlo. Di sabato, un giovane stimato si alzò per leggere le preghiere davanti a Colui che dimora nell’alto. Cantava con voce piacevole. Quando raggiunse le parole “Barechu et adonai hammevoroch”, la sua voce indugiò sul suono, ma non pronunciò il nome di Dio. Il maestro si rese subito conto che il lettore era in realtà un uomo morto, e (si sa che) i morti non lodano Dio. “Fermati”, ordinò subito ad alta voce, “non lodare, perché non ti è permesso recitare preghiere davanti a Dio”. Allora cominciò a interrogare il giovane, a supplicarlo in nome del suo Creatore, dicendo: “” Dimmi e non temere, non nascondermi ciò che hai fatto, confessa la verità davanti al Creatore dello Spirito , glorificate il Dio della gloria, rendetegli grazie in mezzo alla congregazione, e così acquisite una parte nel mondo a venire, e in questo (mondo) siate senza peccato. Allora sarai libero dalla trasgressione, guadagnando per te le benedizioni, il mondo ben ordinato (a venire) e il bene stabilito per i giusti tra il suo popolo, per coloro che temono Dio e onorano il suo nome “. Immediatamente egli rispose: «In verità ho peccato e ho commesso un peccato contro Dio; Mi sono ribellato, ho trasgredito e ho fatto il male. Se sei disposto a portare il peso del peccato che il tuo servo ha commesso, (lo confesserò). E tutti loro erano disposti a sopportare tutto ciò che imponeva loro. Allora confessò, rendendo grazie a Dio; e così raccontò ciò che aveva fatto e ciò che gli era accaduto.”

La leggenda vuole che un giovane ebreo, durante una cerimonia religiosa, si alzò per leggere le preghiere e iniziò a cantare con voce piacevole. Quando giunse a pronunciare il nome di Dio, però, indugiò. E il rabbino lo fermò subito, davanti a tutti, poiché si era accorto della vera natura di quel giovane: costui era, infatti, morto. Perché i morti, secondo certe tradizioni, non possono pronunciare il nome di Dio.

Il rabbino cominciò a interrogare il giovane, dicendo: “Parla senza temere, non nascondere ciò che hai fatto, confessa la verità davanti al Creatore. Allora sarai libero dalla trasgressione, guadagnando per te le benedizioni e il bene stabilito per i giusti tra il suo popolo, per coloro che temono Dio e onorano il suo nome.”

Il giovane, spronato da quelle parole, confessò d’aver commesso peccato contro Dio, d’aver trasgredito comportandosi da ribelle, e che se il rabbino era pronto a portare il peso del peccato semplicemente ascoltando la storia, allora lui gliel’avrebbe raccontata.

“Egli ha detto: Ascoltami, oh popolo di Dio, miei insegnanti e maestri, capi e anziani, saggi e studiosi, principi e nobili, vecchi e giovani, ti dirò chiaramente tutto ciò che è accaduto.

Ai miei tempi c’era un ebreo di nome R. Ahimaaz che andò tre volte a Gerusalemme, la città gloriosa, per adempiere il suo voto. In ogni pellegrinaggio portava con sé 100 monete d’oro, come aveva promesso alla Roccia della sua salvezza, per dare aiuto a coloro che erano impegnati nello studio della Sua legge e a coloro che piangevano la casa in rovina della Sua gloria. Quando partì per il suo terzo pellegrinaggio, chiese di me a mia madre, dicendo: “Lascialo venire con me, per farmi compagnia e aiutarmi nel cammino. lo ricondurrò a te; dalle mie mani potrai richiederlo; se non te lo ricondurrò, avrò peccato davanti a Dio, io e i miei figli». Mentre eravamo seduti alla mensa degli studiosi in studio con il rettore dell’accademia, i maestri della Legge esclamarono: ”Rendiamo lode, con canto soave e fervente, con amore e devozione a Colui che è adorato da miriadi di discepoli.” Guardarono i loro discepoli seduti davanti a loro; il preside della loro scuola si rivolse a loro e disse: ”Che il giovane in mezzo a noi, che è venuto con il nostro collega R. Ahimaaz, ci rallegri e delizi il nostro cuore con il flusso della sua conoscenza e l’espressione dei suoi pensieri.” Allora cominciai con riverenza a lodare con salmi e canti Colui che si veste di luce come una veste.
Lì sedeva uno degli anziani in meditazione, ascoltando attentamente il mio canto. Cominciò a piangere amaramente. R. Ahimaaz, guardandolo, notò le sue azioni, e alzandosi dalla compagnia andò da lui e lo pregò di dire perché piangeva. L’anziano gli disse semplicemente che Dio aveva decretato che, di lì a poco, il giovane sarebbe sicuramente morto. Quando il buon uomo udì ciò, i suoi occhi si riempirono di lacrime, si stracciò le vesti e si strappò i capelli, ed esclamò davanti a tutti: “Non ho posto tra i vivi; Ho giurato a sua madre che glielo avrei riportato da lei, senza disgrazie o danni; come posso tornare a casa mia, se il ragazzo non è con me? Il giuramento che ho fatto sarà il mezzo di rovinare la mia speranza e la mia ardente attesa. Hanno praticato un’incisione nella carne del mio braccio destro e hanno inserito il Nome! dove la carne era stata tagliata. Così me ne andai in pace e tornai a casa da mia madre. Mentre R. Ahimaaz era vivo, ho vagato di terra in terra. Vivendo da quel momento, posso vivere per sempre se lo desidero, poiché nessun uomo può conoscere il luogo del Nome a meno che io non lo riveli. Ma te lo mostrerò; sono nelle tue mani; trattare con me come sembra giusto ai tuoi occhi.
Così hanno portato le vesti funebri; si avvicinò e li indossò; poi mostrò dove il maestro aveva praticato l’incisione e ne tolse il nome. Il suo corpo divenne senza vita; il cadavere si sgretolò in decomposizione poiché dalla dissoluzione di molti anni, la carne tornò alla polvere.”

Il giovane disse d’aver conosciuto, molto tempo prima, un ebreo che era stato per 2 volte in pellegrinaggio a Gerusalemme, portando sempre con sé 100 monete d’oro da donare ai teologi che erano là e studiavano la Cabala. Giunto il momento di compiere il suo terzo pellegrinaggio, l’ebreo chiese al giovane di accompagnarlo. Si trattava di un viaggio pericoloso, quello da Brindisi alla Terra Santa, e per giunta in pieno periodo delle Crociate. Per questo l’ebreo volle rassicurare la madre del giovane, giurando che l’avrebbe riportato sano e salvo, altrimenti sarebbe incorso in peccato davanti a Dio. Un giuramento solenne, dunque, causa di sventura per quel che accadde dopo.

Una volta raggiunta Gerusalemme, i due si riunirono in preghiera con gli studiosi per lodare Dio, pregare e cantare. Quando fu il turno del giovane, però, un anziano scoppiò a piangere, spiegando d’aver scoperto il futuro del ragazzo in quella sua preghiera: egli sarebbe morto, di lì a poco. L’ebreo che l’aveva accompagnato, nell’udire tale profezia, si stracciò le vesti, disperato. Disse agli studiosi che aveva giurato di riportare quel giovane vivo da sua madre, un giuramento solenne che non poteva essere infranto…

Allora gli studiosi incisero il braccio del giovane e inserirono al suo interno il nome di Dio, presumibilmente scritto su carta o pergamena, in alcune versioni successive si parla persino di tavolette di legno. In ogni caso, dopo questo trattamento magico, il giovane scampò alla morte e tornò dalla madre. Da quel momento visse a lungo, vagando di terra in terra, finché non giunse a Benevento, in Italia.

Finito di raccontare la storia, il giovane non-morto si disse disposto a rivelare il luogo del suo corpo dove era stato nascosto il nome di Dio. Così gli portarono le vesti funebri, praticarono l’incisione e gli tolsero il nome. Il manoscritto descrive così quel che gli accadde:

“Il suo corpo divenne senza vita e il cadavere si sgretolò in decomposizione, poiché dalla dissoluzione di molti anni, la carne tornò alla polvere.”

Questa che apparentemente sembra una comune storia di morti redivivi come abbiamo imparato a conoscere in vari episodi di Storia della Magia, nasconde in sé il seme della leggenda del golem vero e proprio. Partendo dal dettaglio del nome inserito nella carne, molto simile alle stregonerie cucite sotto le ascelle degli eretici in ambito cristiano, le tradizioni popolari ebraiche (spesso filtrate da autori cristiani in età moderna) si arricchirono di costrutti animati dalla parola: una parola divina e magica allo stesso tempo, e anche materiale, da scrivere e inserire nel corpo inanimato, in grado di far vivere golem plasmati nell’argilla. La leggenda più celebre, che racchiude in sé tutto questo, è di certo quella del golem di Praga.

In una delle prime versioni della storia, si dice che nella seconda metà del Cinquecento, nella soffitta della Sinagoga Vecchia di Praga fossero conservate alcune reliquie di un illustre rabbino, tra cui un golem. Il rabbino “Rabbi Liwa”, che la gente chiamava “hohe Rabbi Löw” (l’alto Rabbi Löw) aveva creato quel Golem con l’argilla e la sua conoscenza cabalistica: animandolo grazie al nome di Dio inserito nella sua bocca, diverso per ogni giorno della settimana. Di notte, infatti, il rabbino toglieva il pezzetto di carta, legno o qualunque fosse il materiale dalla bocca del golem, per poi metterne uno nuovo, ogni giorno. Un venerdì sera, però, si dimenticò di rimuoverlo, e non appena fu cantato il 92° Salmo (quando inizia lo Shabbat), il golem andò fuori controllo. Scatenò un putiferio in quella soffitta, e l’intera sinagoga oscillò sotto il peso dei suoi colpi scatenati. Quindi la preghiera s’interruppe e il rabbino corse in soffitta a mettere il nome di Dio in bocca al golem, riuscendo a calmarlo. Dopodiché la preghiera poté essere ripresa dopo una pausa di 15 minuti: tradizione che credo venga commemorata ancora oggi a Praga, con una pausa dopo la recita del primo Salmo.

Le storie sui golem che conosciamo oggi si sono arricchite di dettagli soprattutto nell’Ottocento, e nel Novecento, prendendo spunto da questa singolare leggenda cinquecentesca. Ma nel corso del Cinquecento accaddero moltissimi strani eventi, alcuni ben più spettacolari di un golem che fa baccano in soffitta. Primo tra tutti, l’episodio che coinvolse un intrepido italiano in una suggestiva cornice romana, proprio all’interno del Colosseo, dove ebbe luogo un’invocazione infernale tra le più maestose della storia della magia.Di quell’incredibile accadimento ne parlerò nel prossimo episodio. Mi raccomando, seguimi se vuoi scoprire le vere origini della magia a partire dalle fonti storiche.

Lorenzo Manara
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