Re Artù: La VERA Sanguinosa Fine

La vera fine di Re Artù e di Camelot, dal tradimento di Mordred allo scontro in battaglia.
Siamo in Inghilterra, nell’anno 542, e questa non è la leggenda di Camelot. Questa è la sua vera sanguinosa fine.
Re Artù, il condottiero di Britannia, sta guidando l’assalto nella battaglia decisiva. È accecato dalla rabbia a causa del tradimento peggiore della storia medievale. Artù sta per affrontare l’uomo che ha distrutto il suo regno, l’uomo che ha sedotto sua moglie, l’uomo nelle cui vene scorre il suo stesso sangue: Mordred.
Questo scontro finale tra due grandiosi personaggi, però, causerà la fine di un mondo, di un’era. La fine di Camelot. E lo farà in grande stile, ovvero con un bel massacro.
Ma per capire come il leggendario regno di Artù si sia concluso tragicamente, dobbiamo fare un passo indietro e cominciare dall’inizio. Ovvero dalla fonte primaria in cui la storia ha avuto origine: la Storia dei Re di Britannia, scritta nel XII secolo da Goffredo di Monmouth1, un vescovo. Già, perché voi siete qui pensando di ascoltare una leggenda della letteratura medievale, ma dobbiamo fare una doverosa premessa: le vicende di re Artù non sono nate come letteratura dell’intrattenimento. Sono nate come una vera opera di cronaca. La cronaca dei re di Britannia, appunto, che questo autorevolissimo vescovo scrisse minuziosamente per narrare la storia del suo paese, sovrano dopo sovrano. Non era considerata leggenda: questa era storia vera, e fu considerata tale per molti secoli a venire. E ancora oggi, gli studiosi cercano di capire chi sia stato per davvero re Artù, e cosa c’è di vero nella leggenda.
Perciò, buttiamoci a capofitto nella storia originale, quella del XII secolo, per scoprire la vera tragica fine di re Artù.
Voglio cominciare dal punto di svolta, ovvero dall’arrivo di un messaggero che recava pessime notizie per il sovrano. Un sovrano che in quel momento aveva tutt’altro per la testa, perché si trovava sulle Alpi. Ma che ci faceva re Artù sulle Alpi, perché aveva lasciato la Britannia?
Nell’ultima fase del suo regno, Artù si trovava alle porte d’Italia, per affrontare una minaccia molto più grande e antica di Camelot: l’Impero Romano. Artù non aveva lasciato il suo regno per una scampagnata, ma perché aveva ricevuto la richiesta di tributo da parte dell’Impero. Roma, in pratica, pretendeva che la Britannia, in quanto antica provincia, tornasse a pagare le tasse. Artù non solo rifiutò, ma sfidò apertamente Roma, sostenendo che era lui, in quanto discendente di antichi re britannici, ad avere diritto a regnare non solo sulla Britannia, ma addirittura sull’Impero intero!
Qual era l’impresa? Nientemeno che marciare su Roma! Artù aspettava solo l’estate, il momento ideale per muovere le sue armate attraverso le montagne. Il suo obiettivo non era solo conquistare la città, ma proclamarsi Imperatore di tutto l’Occidente.
Aveva appena iniziato la sua campagna di conquista, quando accadde l’impensabile. Un messaggero gli recò una notizia orribile. Mentre Artù era lontano, il suo fidato nipote, Mordred, colui il quale aveva lasciato le chiavi della Britannia, lo aveva tradito di brutto. Mordred aveva rubato la corona e si era proclamato Re. Non solo, il suo tradimento era doppiamente infame perché si era unito con la Regina Guenevere. S’era preso la moglie di Artù!
E Artù, come potete immaginare, divenne furente.
Artù era in preda a una furia devastante e fece rotta per la Britannia, la sua isola, portando con sé le truppe più fedeli.
Nel frattempo, l’infame Mordred, il traditore, aveva cominciato a raccogliere alleati. Aveva inviato un suo emissario ai Sassoni, direttamente in Germania, per reclutare il maggior numero possibile di guerrieri e riportarli in Britannia con la massima urgenza. E questo era doppiamente spregevole perché storicamente i sassoni erano i nemici giurati di Artù, coloro contro i quali aveva sempre combattuto.
Ma perché i sassoni avrebbero dovuto accettare la richiesta di Mordred? Semplice, il traditore aveva promesso loro un regno. Gli avrebbe concesso l’intera sezione dell’isola che si estende fino alla Scozia. Ed ecco che i sassoni accolsero la richiesta, più che felici di partecipare a questa nuova guerra. I sassoni sbarcarono in Britannia portando con loro una forza impressionante: ottocento navi cariche di feroci Pagani, un’orda pronta a battersi.
Il traditore poi chiese aiuto anche agli Scozzesi, ai Pitti (un antico popolo della Scozia) e persino agli Irlandesi, insomma, tutti coloro che erano stati i peggiori villain di Artù, e che nutrivano un profondo rancore verso di lui.
La loro forza era spaventosa: tra i Pagani (i non-Cristiani) e i Cristiani ribelli, la stima era di ottocentomila guerrieri. Cifre spropositate per l’epoca, un vero marchio di fabbrica del vescovo autore della cronaca. Lui spinge sempre molto forte sulle cifre, e lo vedremo anche più avanti.
Forte di questa terrificante alleanza, Mordred si preparò a scontrarsi con il leggendario Artù, che stava per sbarcare. Il piano era di raggiungerlo al porto dove sarebbe arrivato, di ritorno dalla sua campagna militare nel continente, e massacrarlo prima che mettesse piede sulla sabbia. La battaglia per il destino della Britannia era ormai inevitabile.
Gli uomini di Artù, l’esercito che tutti credevano invincibile, sbarcano sulla costa. Ma ad attenderli c’è un’imboscata micidiale. Quella battaglia si trasformò subito in una carneficina.
Quel giorno caddero molti eroi dell’epica arturiana, cavalieri e capitani di re Artù. Tra i quali nientemeno che Galvano, o Gawain, come lo chiamano le cronache, il nipote del Re in persona. Cavaliere leggendario che secondo alcuni sarebbe lo stesso Galgano che ha lasciato una spada conficcata nella roccia proprio da noi, in Toscana. La si può ancora andare a vedere, nell’eremo di Montesiepi. Naturalmente le due storie leggendarie non coincidono affatto, perché secondo Monmouth costui sarebbe morto durante lo sbarco di Artù in Inghilterra, e le incongruenze non finiscono qui.
In ogni caso, dopo sforzi immani per conquistare un pezzo di terra su quella maledetta spiaggia, finalmente gli uomini di Artù riuscirono a sbarcare e schierarsi per ribaltare le sorti dello scontro. Per loro, l’obiettivo non era solo vincere, ma dare a Mordred, il Traditore, quel che si meritava.
L’imboscata, inflisse loro gravi perdite, ma non li fermò affatto. L’esercito di Re Artù non era un manipolo di soldati qualsiasi: erano veterani, abituati alla guerra e alla strategia. Schierarono i loro uomini con una maestria incredibile, un vero capolavoro tattico. Dividevano l’esercito in gruppi ben distinti: la fanteria, composta dai fanti e da tutti i soldati a piedi, si occupava della mischia principale, attaccando o tenendo salda la posizione. Ma il vero colpo di grazia arrivava con la cavalleria, i cavalieri in armatura. Questi caricavano di lato, obliqui rispetto alla battaglia, lanciandosi alla massima velocità per sfondare le linee nemiche e costringerle alla ritirata, un colpo letale per l’avversario. E così fecero contro Mordred, costringendolo alla ritirata. Lo sbarco era riuscito, Artù aveva vinto la prima battaglia.
Ma Mordred non era un avversario facile da abbattere. Riuscì a radunare i superstiti e i mercenari da ogni dove, ricostruendo in fretta le sue file. E così, calata la notte puntò dritto verso Winchester.
Nel frattempo, Ginevra aveva saputo del ritorno di Artù, e fu colta dalla disperazione. Perché era stata coinvolta nel tradimento, e ora non le restava che una sola cosa da fare: fuggire in monastero e farsi suora. Non importa se fosse consenziente o meno, non aveva scelta: o il pentimento e la castità, o la morte.
Artù è sempre più furioso, una rabbia nera gli brucia dentro per aver perso centinaia dei suoi fedeli. Dopo aver dato loro una sepoltura cristiana, non aspetta oltre. Tre giorni dopo la battaglia, marcia con il suo esercito verso la città dove si è rifugiato il “malvagio”, Mordred, e la stringe d’assedio.
Ma Mordred non è tipo da arrendersi. Raduna i suoi sostenitori, rivolge loro un discorso motivazionale per caricarli a dovere e li guida fuori dalle mura, schierando le sue forze per affrontare in campo aperto proprio lo zio, Artù.
Il primo scontro è tremendo: un vero massacro da entrambe le parti. Il sangue scorre a fiumi, ma alla fine, le perdite di Mordred sono insostenibili. È costretto ad abbandonare il campo di battaglia, una ritirata vergognosa. Non ha tempo per i suoi morti: la fuga è più importante. Dimentica la sepoltura per i suoi soldati caduti – un affronto gravissimo, quasi un sacrilegio – e si lancia in una corsa disperata verso la Cornovaglia, la regione all’estremo sud-ovest della Gran Bretagna.
Artù adesso comincia a esaurire la pazienza (se già non l’avesse finita): il traditore gli è sfuggito troppe volte! Il re si lancia all’inseguimento fino a raggiungere le rive del fiume Camel, dove finalmente Mordred lo sta aspettando. Stavolta, sa bene che non potrà più fuggire, questa è la battaglia decisiva, l’ultima prima della fine.
Mordred schierò i suoi uomini, pronto a vincere o a morire sul posto. Aveva ancora un esercito incredibile: sessantamila uomini. Li divise in tre grandi battaglioni da 6666 uomini, e usò le truppe rimanenti per formarne un quarto, che guidò personalmente. Poi, si rivolse a tutti i suoi combattenti. La sua promessa erano le terre e i beni dei nemici, in caso di vittoria: un intero regno a disposizione. Regno che, attenzione, comunemente si definisce di Camelot, ma in questa fase della storia, quella scritta dal vescovo, del termine Camelot non si fa ancora menzione. Comparirà più tardi, in uno dei vari rimaneggiamenti della storia. Sul ciclo arturiano infatti ci hanno messo mano molti autori medievali, ciascuno aggiungendo un pezzetto. Tra chi ha inserito la storia della dama del lago, chi di Excalibur, chi della tavola rotonda, eccetera eccetera. Adesso, infatti, in questa prima versione, non esistono ancora nemmeno i cavalieri della tavola rotonda.
Tornando alla battaglia finale, anche Artù schierò la sua armata. Formò nove battaglioni di fanti disposti a quadrato, e fece il suo epico discorso, spronando i guerrieri a distruggere quei “traditori e ladri”. Spiegò che questi nemici erano stati portati sull’isola da un traditore con l’obiettivo di rubare loro onore e possedimenti. Li chiamò “barbari”, reclute inesperte provenienti da vari regni, che non potevano resistere alla loro forza, al valore di uomini esperti in mille battaglie. Dovevano solo attaccare con coraggio e la vittoria sarebbe stata loro.
Infine, il momento della mischia. I battaglioni si scontrarono l’uno contro l’altro. E fu subito un massacro tremendo. Ovunque c’erano gemiti di moribondi, grida di sofferenza, e per tutto il giorno non si fece altro che combattere. Quando ormai gran parte del giorno era volato via, Artù decise di chiudere la faccenda, personalmente. Guidò lui stesso un battaglione, un gruppo scelto di 6666 uomini, contro il battaglione guidato da Mordred. E qui, dobbiamo soffermarci un attimo sulla matematica di questa battaglia e sui 6666 uomini di Artù.
Precisiamo subito che questo numero non è un codice diabolico. Il 6666 non è il 666 della Bibbia, ma le ragioni potrebbero essere molte. Prima fra tutte la simmetria.
Ricordate che Mordred aveva 60.000 alleati e, con un’aritmetica militaresca un po’ bizzarra, li divise in tre formazioni da 6666 uomini ciascuna, tenendo per sé il blocco massiccio di oltre 40.000 uomini rimanenti? Ebbene, la mossa speculare di Artù (ovvero fare un battaglione di 6666 uomini pure lui) serve a due scopi. Primo, è una tecnica narrativa che si basa sulla ripetizione: ripetere le cose, semplicemente, le rende più evidenti per il cervello umano. Sono convinto, infatti, che molti di voi dopo aver ascoltato questo episodio, difficilmente scorderanno il battaglione di Artù da 6666 uomini.
Il secondo scopo riguarda la dimostrazione di Forza e Coraggio di Artù. Artù dimostra di essere un sovrano che non si nasconde dietro i numeri. Organizza un battaglione che corrisponde all’unità più piccola dell’esercito nemico e lo lancia dritto contro il battaglione soverchiante da 40.000 uomini guidato da Mordred. È l’atto di un eroe leggendario: lanciarsi contro una forza molto superiore alla sua.
Detto questo, mettendo da parte la matematica e i numeri assurdi dell’autore, la battaglia volgeva ormai alla sua tragica conclusione. I due condottieri si fecero strada a colpi di spada, attraversando il cuore della formazione nemica e lasciando dietro di loro una scia di sangue. E finalmente, dopo una guerra devastante, in quello scontro cadde il maledetto traditore, Mordred, insieme a migliaia dei suoi. Non ci viene spiegato come, né se sia stato lo stesso Artù a sferrare il colpo mortale, ma la vendetta era stata consumata.
Vendetta personale che però non pose fine alla battaglia. Perché nonostante Mordred cadde sul campo, i suoi alleati continuarono a combattere. Probabilmente ancora spinti dalla voglia di conquistarsi il proprio regno, carichi delle promesse che avevano ricevuto prima d’imbarcarsi in quella guerra. E quindi i guerrieri del fu traditore si radunarono e lottarono con un coraggio disperato per mantenere la posizione. La battaglia era ormai una mattanza.
Quasi tutti i capitani di entrambe le fazioni si gettarono nella mischia e vi trovarono la morte. Tra le file di Mordred caddero nomi leggendari dei Sassoni, ma anche Irlandesi e comandanti di Scozia e Pitti, quasi tutti annientati. Dalla parte di Artù, caddero re potenti come i sovrani di Norvegia e di Danimarca, oltre al duca di Cornovaglia, e migliaia di fedeli Britanni. Finché persino Re Artù, il condottiero di mille avventure, fu ferito a morte. Al termine della battaglia più sanguinosa delle leggende medievali, il mitico sovrano fu subito portato nella mistica isola di Avalon, il luogo dove si dice che le ferite possano guarire e dove i confini tra i mondi si fanno sottili. Luogo che era già presente in questa primissima versione della storia, agli inizi del XII secolo. Lì cedette la corona di Britannia al suo successore, il figlio del duca di Cornovaglia, e poi svanì per sempre dalla cronaca. Non si sa cosa successe, se morì e dove fu sepolto. Avalon se lo portò via, tra le sue nebbie.
Era l’anno 542 e l’era di Artù, tra mito ed epica, era giunta al suo drammatico, indimenticabile finale. Una storia bellissima, leggendaria sotto svariati punti di vista naturalmente, smentita in più punti dagli storici. L’autore, Goffredo di Monmouth, non è proprio attendibile, diciamo così. Ma se questa storia è sopravvissuta fino a oggi significa una cosa soltanto: che ha emozionato generazioni per secoli, millenni. E su questo non c’è da discutere.
Spero che questa “Leggenda Affilata” ti abbia appassionato! Seguimi per non perdere le prossime!
- Historia Regum Britanniae, Geoffrey of Monmouth ↩
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