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30 Gennaio 2025

Re Artù VS Gigante di Mont-Saint-Michel

artù contro il gigante Ritho

Il sanguinoso duello tra re Artù e il gigante Ritho, narrato da Goffredo di Monmouth: la nascita di Mont-Saint-Michel

Stando a una cronaca medievale scritta nel XII secolo, re Artù non aveva mai combattuto contro un avversario così forte come Ritho, il gigante delle coste spagnole: un gigante “sterminatore di re”, che soleva indossare un mantello fatto con le barbe di tutti i re che aveva ucciso. Ed essendo “gigantesco”, doveva averne uccisi molti (di re) per farsi un intero mantello.

Questo Ritho, quindi, uccideva le teste coronate. E ci si addobbava per mostrarsi in pubblico. E giunto all’apice della sua “carriera” volle aggiungere un ultimo pezzetto a quel suo “outfit” un po’ raccapricciante ma di sicuro effetto: voleva la barba di re Artù. A tal proposito, inizialmente, Ritho si limitò a inviare una lettera al re delle leggende bretoni per chiedergli di tagliarsi accuratamente la barba e mandargliela. Una richiesta che suona strana per noi, ma che in realtà equivaleva a una provocazione, nonché ultimatum di sottomissione: “Dammi la barba che la cucio assieme a quelle dei miei nemici sconfitti. E quindi, di conseguenza, ho sconfitto pure te.” Conosciamo tutti il personaggio di Artù, ed è sottintesa la sua reazione, nonché risposta, a tale lettera: assolutamente no, io non ti do manco un pelo d’ascella (quest’ultimo dettaglio non è presente nella cronaca, l’ho aggiunto io). Ed ecco come i due giunsero a sfidarsi a duello. Re Artù contro il gigante Ritho.

Ho detto che si è trattato dell’avversario più forte tra tutti quelli contro cui si sia mai battuto Artù, nella letteratura medievale, ma in verità non è così. O meglio, in questo episodio sì, viene detto specificatamente questo, ma si tratta di un primato che viene continuamente superato di episodio in episodio, di cronaca in cronaca. Come un anime in stile Dragonball, dove a ogni stagione compare un nemico sempre più forte. La saga arturiana, il ciclo bretone, ovvero quell’insieme di storie e racconti basati su Artù e i cavalieri, e mago Merlino… è più o meno così, come Dragonball. Con la complicata aggravante di non possedere un singolo autore, ma innumerevoli. Perché di Artù e dei cavalieri hanno scritto innumerevoli autori nel corso dei secoli, dal Medioevo all’Età Contemporanea, e ancora oggi lo si fa. Per questo la saga è immensa, piena di storie diverse, personaggi diversi e, naturalmente, incoerenze. Non è neppure possibile stabilire quali siano le vicende “canoniche”, perché già nel corso del Medioevo ci mettevano le mani troppi autori, laddove ciascuno aggiungeva il suo pezzetto.

Tra l’altro ho già raccontato in passato una delle più difficili sfide raccolte da Re Artù, anzi, la più difficile, stando a quello specifico autore: ovvero di quando il sovrano di Camelot combatté a sangue contro il diabolico gatto nero. Potete trovare l’episodio nella playlist di “Leggende Affilate”. Stavolta, però, nella storia che sto per raccontare, non vi è alcun mostro da abbattere, piuttosto un abile guerriero da vincere. Un guerriero gigantesco.

Ritho è un gigante. Perché? Be’, secondo l’autore della cronaca medievale da cui è tratto questo episodio, ovvero Goffredo di Monmouth, i giganti abitavano la terra. E ve n’erano soprattutto ad Albion, ovvero nella Gran Bretagna prima dell’arrivo degli uomini, che poi li sterminarono tutti. Come i cowboy coi bufali nel West. I giganti sono molto presenti nel folklore nordico medievale, spesso rappresentati nelle leggende come abitanti primordiali del mondo, che popolavano le lande terrestri prima dell’arrivo degli umani. La vita stessa, secondo la mitologia norrena, ha origine dai giganti, primo tra tutti Ymir.

“Costui fu detto Ymir, ma i hrímþursar  lo chiamano Aurgelmir ed è da lui che discende la loro stirpe di giganti.”

Traduzione di Stefano Mazza dell’Edda in Prosa, GYLFAGINNING.

Nell’Edda di Snorri, un testo considerato spesso come una sorta di “bibbia vichinga” per quanto riguarda l’insieme di informazioni sulla mitologia norrena, Ymir è il primo dei giganti; gigante che con la propria morte dà origine a praticamente tutto il Creato, compresi gli dèi e gli uomini. Odino stesso, nella genealogia primordiale enunciata in questo testo, ha come madre una tale Bestla, la quale è figlia di un gigante.

“Il terzo giorno vi fu l’uomo intero. Il suo nome era Búri. Era di bell’aspetto, grande e possente. Generò un figlio chiamato Borr; questi prese in moglie quella donna che si chiamava Bestla, figlia del gigante Bǫlþorn ed ebbero tre figli. Il primo si chiamava Óðinn, il secondo Vili, il terzo Vé.”

Perciò, per come è scritto nell’Edda, si potrebbe considerare Odino stesso un gigante. Tuttavia si tratta di un testo particolarmente denso di incongruenze, che si contraddice più volte su svariate questioni, e quindi non è utile trarre questo tipo di conclusioni. Anzi, come ho ripetuto più volte parlando di leggende norrene, non è un testo da ritenersi al 100% aderente all’autentica mitologia norrena. Perché è stato scritto svariati secoli dopo la scomparsa di quelle credenze, in una fase in cui ormai il Cristianesimo aveva preso il sopravvento. Noi ci riempiamo la bocca coi vichinghi e Odino e Thor eccetera eccetera ma in realtà non sappiamo una ceppa di niente.

In ogni caso, i giganti erano spesso un problema. Come il nostro Ritho, ad esempio, che oltre a farsi il mantello patchwork con le barbe dei re morti faceva fuori interi eserciti, rapiva principesse, divorava le persone e scagliava grandi massi contro le navi affondandole dalla costa. Re Artù, venuto a sapere tutto questo assieme alla lettera di sfida del gigante (che voleva la sua barba) decise di intervenire. Una notte, assieme a pochi suoi seguaci, uscì dall’accampamento e si mise in cammino verso il monte dove si nascondeva il gigante, all’insaputa dell’intero esercito. Lo fece così, alla zitta, perché intendeva sbrigarsela da solo, ritenendo di poter distruggere la minaccia senza rischiare la vita di nessuno dei suoi sudditi. Il compito di un vero monarca, quello di occuparsi personalmente delle minacce, in maniera valorosa, e dando il giusto esempio ai suoi cittadini. Esattamente come i politici di oggi. E questa nota qualunquista dovevo metterla per forza perché ci sta.

Giunto sul monte, Artù vide due fuochi ardere sui pendii rocciosi, nel buio: uno più grande e uno più piccolo. Siccome non sapeva quale dei due fuochi stava a indicare il luogo dove albergava il gigante, mandò un suo sottoposto a controllare. Smentendo subito quel che s’è detto un istante prima, sui sudditi, sbrigarsela da soli. Ora, questa mossa parrebbe pure inutile, perché potremmo essere portati a credere che il fuoco acceso da un gigante sia necessariamente il più grande dei due. Ma questo non è vero. Magari il gigante si è acceso una candela. Una candela da giganti, ma pur sempre una candela.

Ad andare a vedere il fuoco fu mandato Bedivere, ovvero uno di quelli che nelle leggende della tradizione arturiana sarebbe poi diventato un effettivo cavaliere della tavola rotonda. In questa cronaca ancora non esiste niente di tutto questo, poiché si tratta di una delle prime versioni. Molti nomi che saranno usati poi, però, compaiono già qui. Bedivere è uno dei primi cavalieri a comparire nella letteratura, assieme a Sir Kay e Gawain.

Bedivere, da solo, s’avviò verso i fuochi. Per avvicinarsi, però, dovette prendere una barca. Già, perché la montagna dove albergava il gigante era circondata da un immenso mare. Bedivere, dunque, prese la barca, attraversò l’immenso mare e raggiunse la montagna, arrampicandosi fino in cima, verso uno dei fuochi. E quando raggiunse la fiamma sentì il lamento di una donna. Spaventato da quel rumore inaspettato, estrasse la spada dal fodero e si trovò di fronte a una vecchia. 

“O, uomo infelice, quale malvagio destino ti ha portato in questo luogo? O tu che devi sopportare le pene indicibili della morte, guai a me per te! Guai a me se un mostro così spietato deve consumare questa notte il fiore della tua giovinezza! Perché tra poco sarà qui quel gigante immondo ed empio, dal nome esecrabile, che portò su questo monte la nipote del nostro Duca, che ho appena seppellito in questa tomba, e me, la sua nutrice, insieme a lei.”

Con queste tragiche parole la vecchia annuncia al cavaliere Bedivere che il gigante si trova proprio lì e che, purtroppo, ha appena compiuto un’altra sua orrida impresa: uccidere una principessa. Perché la vecchia racconta d’essere la nutrice della stessa principessa, rapita assieme a lei, e ora morta, che giace in una fossa scavata dalla stessa nutrice che piange e si dispera.

“Con quale inaudita saggezza ti ucciderà e non si fermerà? Ahimè per il dolore e il destino! La mia principessa, che sveniva di terrore quando questo mostro avrebbe voluto abbracciarla, spirava la vita che ora non potrà mai conoscere!”

Insomma, la donna ammonì pesantemente il cavaliere, spiegandogli che di lì a poco il gigante sarebbe venuto a uccidere pure lui. “Fuggi! (…) che egli non ti trovi qui e non ti strappi da una morte pietosa!”.

Ma Bedivere, che già in queste prime storie del ciclo era un cavaliere senza macchia e senza paura, commosso per la fine che aveva fatto la principessa, giurò alla donna che tutto si sarebbe presto risolto. Perché Artù stesso ci avrebbe pensato (e non lui, che era lì solo in avanscoperta). Quindi tornò dal suo mitico sovrano e raccontò tutto quanto. Artù si addolorò molto, pure lui, e decise che era giunto il momento d’affrontare il gigante Ritho. Prima di partire, però, disse ai suoi pochi e più fedeli cavalieri che se non fosse riuscito a ucciderlo da solo, di intervenire, tutti assieme, in modo da sterminarlo. Insomma, va bene provare a far tutto da soli però, nel caso, facciamoci dare un aiutino.

Affidati i cavalli agli scudieri, i cavalieri accompagnarono Artù in nave attraverso l’immenso mare e poi dritti fino in cima alla montagna. Raggiunsero il fuoco e vi trovarono accanto proprio lui, Ritho. Il gigante stava arrostendo sul fuoco dei maiali che divorava a morsi, ficcati negli spiedi, dopo averli abbrustoliti sulle braci ardenti. Tipo arrosticini. Solo che erano maiali interi. Questo per farci capire quanto fosse grande. E non appena vide Artù coi suoi cavalieri, si lanciò a prendere la mazza: un randello gigantesco, tanto grande che due giovani sarebbero a malapena riusciti a sollevare da terra.

Re Artù sguainò la spada e si lanciò all’attacco, alzando lo scudo al petto. Intendeva caricare il gigante subito, prima ancora che potesse prendere la mazza. Ma il gigante era grosso e pure svelto, perciò riuscì a prendere la mazza e la schiantò addosso al mitico sovrano.

Il colpo poderoso tuonò contro lo scudo di Artù, riversando nell’aria un rumore così forte da assordare tutti quanti, nei paraggi. Artù, però, ricambiò subito con una spadata, andando a colpire il gigante dritto in fronte. Copioso sangue scolò dal testone enorme, spruzzando dappertutto. Ma non era una ferita mortale. Perché il gigante aveva alzato la mazza parando il colpo, appena in tempo per evitare che affondasse troppo in profondità. E nonostante fosse accecato dal suo stesso sangue, ora era più indiavolato che mai.

Il gigante si fiondò addosso ad Artù e lo abbrancò come un cinghiale inferocito col cacciatore. Lo costrinse in ginocchio, schiacciandolo con la forza di enormi muscoli e un peso soverchiante. Artù stava per soccombere, quasi inerme contro una simile minaccia. Ma era comunque Re Artù, e non si diede per vinto.

Con la spada ancora stretta nel pugno cominciò a squartare la pelle del gigante a gran colpi, dappertutto, tagliandolo e trafiggendolo. Infine, raccogliendo le forze, sferrò l’ultimo mortale colpo ficcando la spada per tutta la sua lunghezza nel cranio del nemico. “La bestia emise un forte ruggito e cadde con un potente schianto, come una quercia strappata dalle radici dalla furia dei venti.” Ritho il gigante era sconfitto. E Artù scoppiò a ridere.

Rideva il mitico sovrano, assordato dal tuonar di scudo e accecato dal sangue di gigante schizzatogli in faccia. Rideva non tanto per prendersi gioco dell’avversario sconfitto, ma per semplice felicità. Lo si capisce perché disse ai suoi cavalieri, che avevano visto la battaglia, di tenere a freno la lingua, ovvero di non schernire il nemico abbattuto, poiché si era trattato di un coraggioso e degno sfidante, come mai gli era capitato. L’onore, quindi, era importante anche con i nemici. Anche se poi Artù chiese a Bedivere di mozzar la testa a Ritho per ficcarla su un palo e farla vedere a tutti, all’accampamento. E gli prese pure il mantello, quello fatto con le barbe patchwork di una moltitudine di sovrani morti. Perché se l’era meritato.

L’esercito di Artù andò ad accogliere il sovrano di ritorno all’accampamento, con la gigantesca testa mozza e il gigantesco mantello di barbe. E tutti erano lieti di avere un sovrano così magnificente e valoroso. E che gioia, adesso che la minaccia era stata sgominata. A gioire un po’ meno fu il padre della principessa, quella rapita e finita sepolta nella fossa, sulla montagna. Vista la tragedia decisero di lasciarla sepolta lì e di trasformare la montagna in una sorta di santuario, dedicandolo proprio a quella buona principessa che quasi passò da martire per essere stata uccisa dal gigante.

Santuario che, secondo la leggenda, sarebbe poi diventato Mont Saint-Michel! Ecco spiegato il perché della montagna in mezzo all’immenso mare. Pazzesco, vero?

Che dire, stavolta i cavalieri di Camelot non l’hanno salvata la principessa. Sono arrivati tardi. Pazienza, di avventure (e principesse) è pieno il mondo, no? La prossima volta andrà meglio!

Se questo episodio ti è piaciuto metti subito un mi piace arturiano, condividi con gli amici e iscriviti, tornando indietro nella playlist per ascoltare gli episodi che ti mancano, e sono certo che te ne manchi qualcuno perché ne ho pubblicati più di 80. Come l’episodio di Artù contro il gatto nero, ad esempio, quello è fantastico merita davvero. Grazie e alla prossima.

CAPITOLO III
Artù combatte contro un gigante
Nel frattempo ci giunge notizia che Artù, un gigante di meravigliosa grandezza, è arrivato dalle parti della Spagna, e inoltre che ha strappato Elena, nipote del duca Hoel, dalle mani di coloro che l’avevano in custodia, ed è fuggito con lei fino alla cima del monte che ora si chiama di Michele, dove i cavalieri del paese lo avevano inseguito. Tuttavia, non riuscirono a prevalere contro di lui, né per mare né per terra, perché quando lo attaccavano, o affondava le loro navi con enormi scogli, o uccideva gli uomini con giavellotti o altre armi e, inoltre, divorava molti mezzi vivi. Così, la notte seguente, alla seconda ora, prese con sé Kay, il senestà, e Bedevere, il maggiordomo, e uscendo dalle tende, all’insaputa degli altri, si mise in cammino verso il monte. Infatti, il suo valore era tale che non si degnò di guidare un esercito contro quei mostri, ritenendo di poterli distruggere da solo e volendo spronare i suoi uomini a seguire il suo esempio. Giunti sul monte, videro un grande fuoco di legna che ardeva su di esso e un altro fuoco più piccolo su un monte più piccolo, non lontano dal primo. Allora, nel dubbio su quale fosse quello in cui il gigante aveva il suo fuoco, mandarono Bedevere a verificare la certezza della cosa.
Bedevere e la vecchia
Trovata quindi una piccola barca, si diresse prima verso il monte più piccolo, perché non poteva raggiungerlo in altro modo, visto che era immerso nel mare. Quando cominciò a salire verso la cima, sentì sopra di sé il lamento di una donna e dapprima rabbrividì, perché dubitava che il mostro potesse essere lì. Ma, riprendendo subito coraggio, estrasse la spada dal fodero e salì fino in cima, dove non trovò altro che il fuoco di legna che avevano avvistato. Ma vicino vide un tumulo appena costruito e, accanto ad esso, una vecchia che piangeva e si lamentava e che, appena lo vide, versò subito le sue lacrime e gli parlò così: “O, uomo infelice, quale malvagio destino ti ha portato in questo luogo? O tu che devi sopportare le pene indicibili della morte, guai a me per te! Guai a me se un mostro così spietato deve consumare questa notte il fiore della tua giovinezza! Perché tra poco sarà qui quel gigante immondo ed empio, dal nome esecrabile, che portò su questo monte la nipote del nostro Duca, che ho appena seppellito in questa tomba, e me, la sua nutrice, insieme a lei. Con quale inaudita saggezza ti ucciderà e non si fermerà? Ahimè per il dolore e il destino!  la mia reginissima figlia adottiva, che sveniva di terrore quando questo mostro aborrito avrebbe voluto abbracciarla, spirava la vita che ora non potrà mai conoscere il giorno più lungo che meritava! Ochone per l’altra mia anima, l’altra mia vita, l’altra mia dolcezza di gioia! Fuggi, mia amata, fuggi, che egli non ti trovi qui e non ti strappi da una morte pietosa!”. 
Artù e il gigante
Ma Bedavero, commosso fino al midollo, come può esserlo il cuore di un uomo, la tranquillizzò con parole di conforto e, promettendole di rallegrarsi con un rapido soccorso, tornò da Artù e gli raccontò la storia di ciò che aveva trovato. Tuttavia Artù, addolorato per la sorte sfortunata della fanciulla, disse loro di permettergli di attaccare il mostro da solo, ma in caso di necessità di venire in suo soccorso e di abbattersi sul gigante come uomini. Da lì si diressero verso il monte maggiore e, affidati i cavalli ai loro scudieri, iniziarono a salire sul monte, Artù per primo. Proprio in quel momento quel mostro innaturale era vicino al fuoco, con le costolette tutte imbrattate del sangue coagulato di maiali mangiati a metà, i cui residui stava arrostendo sugli spiedi sopra le braci vive. Nel momento in cui li vide, quando non aveva più nulla in mente, si affrettò a prendere la sua mazza, che due giovani avrebbero potuto a malapena sollevare da terra. Il re sguainò subito la spada e, coprendolo con lo scudo, si affrettò il più possibile per precederlo e impedirgli di impadronirsi della mazza. Ma il gigante, non ignaro delle sue intenzioni, l’aveva già impugnata e colpì il re sulla copertura dello scudo con un colpo tale che il rumore del colpo riempì tutta la riva e assordò completamente le sue orecchie. Artù, allora, in preda a un’aspra collera, sollevò la spada e gli inferì una ferita sulla fronte, da cui il sangue sgorgò sul viso e sugli occhi in modo tale da accecare la vista.
Sul gigante Ritho
Tuttavia il colpo non fu mortale, poiché egli si era protetto la fronte con la mazza in modo tale da evitare di essere ucciso sul colpo. Tuttavia, accecato come era dal sangue che sgorgava a fiotti, si avventò di nuovo più ferocemente che mai e, come un cinghiale si avventa su un cacciatore, così si infilò nel raggio della spada di Artù, lo afferrò per i lombi e lo costrinse a inginocchiarsi a terra. Artù, tuttavia, per nulla scoraggiato, si liberò ben presto dalle sue grinfie e, armato di spada, colpì il mostro maledetto prima in un punto e poi in un altro, senza dargli tregua, finché alla fine gli sferrò un colpo mortale alla testa e gli conficcò l’intera lunghezza della spada nella scatola cranica. L’aborrita bestia emise un forte ruggito e cadde con un potente schianto come una quercia strappata dalle radici dalla furia dei venti. A quel punto il re scoppiò a ridere, ordinando a Bedavero di staccargli la testa e di darla a uno degli scudieri perché la portasse all’accampamento come spettacolo di rabbia per i visitatori. Tuttavia, ordinò a coloro che erano venuti a vederla di tenere la lingua a posto, perché non aveva mai avuto a che fare con un altro di così grande coraggio da quando aveva ucciso il gigante Ritho sul monte Eryri, che lo aveva sfidato a combattere con lui. Per questo Ritho gli aveva confezionato un mantello di pelliccia con le barbe dei re che aveva ucciso, e aveva chiesto ad Artù di scorticarsi la barba e di mandargliela con la pelle, nel qual caso, visto che Artù aveva ucciso altri re, l’avrebbe cucita in suo onore sopra le altre barbe sul mantello.
Artù ad Autun
Tuttavia, in caso di rifiuto, lo sfidò a combattere con un patto: chi si fosse dimostrato migliore dei due avrebbe avuto la barba e il mantello di pelliccia dell’altro. Così, quando si giunse alla resa dei conti, Artù ebbe la meglio e si portò via la barba di Rito e il suo mantello, e quindi non aveva mai avuto a che fare con nessuno così forte fino a quando non si era avventato su di lui, come si è detto sopra. Dopo che ebbe ottenuto questa vittoria, come ho detto, tornarono subito dopo l’alba alle loro tende con la testa; la folla accorse a guardarla e a lodare il valore dell’uomo che aveva liberato il paese da un uomo così insaziabile. Ma Hoel, addolorato per la perdita della nipote, fece costruire una chiesa sopra il suo corpo sul monte dove giaceva, che prese il nome dalla tomba della fanciulla e che ancora oggi è chiamata Tomba di Elena. 

Historia Regum Britanniae
Lorenzo Manara
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