Megiddo: la Prima Battaglia del MONDO

La battaglia di Megiddo, la prima della storia del mondo: la guerra del Faraone Thutmose III
Correva il 15° secolo a.C. in un’epoca in cui i Faraoni erano considerati divinità in terra e l’Egitto era una superpotenza del mondo antico. Al comando di questo regno si trovava Thutmose III, un faraone destinato a fare la storia, tra i più ricordati. Un grande capo, soprattutto un capo militare, nonché abile guerriero e stratega. E infatti viene soprannominato il Napoleone dell’Antico Egitto. Spesso ritenuto tra i più grandi faraoni dell’Antichità. Durante il suo regno l’Egitto vide un periodo di crescita, anche a livello di conquiste. Ma una minaccia si levava all’orizzonte.
La sfida arrivava da una regione a nord-est dell’impero egizio, lungo la costa del Mediterraneo, che i testi antichi chiamano Canaan. Non era un regno unificato, ma un mosaico di città-stato situate nell’attuale Libano, Israele, Palestina. Quella che poi successivamente sarebbe stata la sede della Terra Promessa degli ebrei. Ma bisogna attendere un bel po’ di tempo per quello. Per quanto riguarda l’episodio di oggi, ripeto, siamo nel 15° secolo a.C. Tanto per comprendere dove ci troviamo sulla linea della storia umana, teniamo presente che dopo il regno di Thutmose III bisogna attendere più o meno altri 6-7 secoli per avere i primi testi della Bibbia. O l’Iliade.
La posizione geografica della terra di Canaan fungeva da crocevia tra le grandi civiltà dell’Egitto e della Mesopotamia: una posizione importantissima, ambita. E infatti l’Egitto aveva allungato la sua sfera d’influenza fino ai confini di quella terra, per esercitare un controllo. Un controllo che non piaceva affatto ai cananei. E quindi, ad un certo punto della storia, da quelle terre scaturì una rivolta, un’onda di ribellione che minacciava la stabilità dell’impero egizio. I ribelli organizzarono un esercito poderoso, con l’aiuto di svariate potenze che mal sopportavano il faraone, dando forma a una specie di coalizione anti-egizia.
Tale esercito ribelle fu radunato a Megiddo, città fortezza a nord dell’attuale Israele. E il faraone Thutmose III decise di muovere guerra proprio lì, per cancellare l’esercito ribelle con una battaglia campale. Quella che viene definita, spesso, la prima battaglia della storia.
Intendiamoci subito, però. Voglio dirlo ora, all’inizio: chiaramente no. Non è stata la prima battaglia del mondo.
La storia dei conflitti umani è molto più antica. Le prime armi si pensa che risalgano addirittura a 30.000 anni fa. Per non parlare dei ritrovamenti di teschi spaccati, insediamenti distrutti intenzionalmente (non per cataclismi, quindi.). Le prove archeologiche le abbiamo. Peccato che manchi tutto il resto. Ci mancano dettagli sui numeri, sulle tattiche o sulle motivazioni e sulle vicende stesse. Cosa che, invece, abbiamo con il resoconto della battaglia di Megiddo.
Ecco cosa rende speciale questo scontro armato. Le sue fasi, le strategie, persino la lista del bottino conquistato (che vedremo in fondo all’episodio, nel dettaglio), ci sono giunti attraverso le parole (o meglio, i geroglifici) di un uomo che molto probabilmente era lì presente, di cui conosciamo pure il nome: lo scriba militare Tjaneni, che si occupò di scrivere gli annali del faraone Thutmose III1. Per la prima volta nella storia, un conflitto non è solo una memoria archeologica: un mucchio di rovine, e qualche vaso rotto. È un racconto vivido e dettagliato.
E allora, buttiamoci tra i geroglifici dello scriba del faraone per scoprire come i guerrieri egizi abbiano affrontato un nemico temibile.
“Toro possente, splendente a Tebe; Re dell’Alto e Basso Egitto, Signore delle Due Terre; Eterna manifestazione di Re (Menkheperre) e Figlio di Ra.” Comincia così il resoconto di cronaca, gli annali riportati dallo scriba. I nomi di Thutmose III, il quale ordinò di mettere per iscritto le sue vittorie militari, le quali furono volute da suo padre Amon: il re degli dei, il signore dei cieli e della terra, che col passare dei secoli e il mutare della mitologia egizia, che si evolveva sempre, Amon si fuse con Ra, il dio Sole, per creare Amon-Ra, la divinità più potente e venerata di tutto l’Egitto.
Gli annali cominciano col 22° anno di regno di Thutmose III, quando il faraone partì per la sua epica campagna militare, la prima, tra le altre cose: l’impresa ambiziosa per espandere i confini dell’Egitto e, soprattutto, sedare la ribellione in corso tra le tribù sottomesse.
Una volta saputa la posizione del nemico, radunati nella città fortezza di Megiddo, il faraone convocò subito i suoi valorosi soldati. “Quel maledetto capo di Kadesh è entrato a Megiddo. E ha radunato i capi di tutti i paesi. Sono una marea di guerrieri, con i loro cavalli e le loro truppe. E vogliono guerra.”
Ora sappiamo anche quale fosse il personaggio dietro la rivolta. Il comandante nemico viene definito come il principe di Kadesh, nell’attuale Siria, ovvero una delle realtà che componevano la coalizione anti-egizia. Una coalizione ben numerosa, come vedremo fra poco. Il problema, a quel punto, era un altro: arrivare a Megiddo. Perché vi erano 3 strade principali: due larghe e sicure, che necessitavano di parecchio tempo per essere percorse. E una che andava dritta alla meta, la più veloce. Peccato che passasse in mezzo a una pericolosa gola, così stretta che a malapena poteva passarci il carro d’oro del faraone.
I generali di Thutmose III, che erano esperti strateghi, si fecero avanti e, con il massimo rispetto, espressero le loro perplessità. “Maestà, la strada che intendi percorrere è così stretta! Si dice che il nemico ci aspetti proprio lì, bloccando il passaggio. Non rischiamo di finire in una trappola? Ci sono altre due strade, più sicure. Scegliete la via che preferite tra queste due, ma non costringeteci a percorrere un sentiero così pericoloso”.
Il faraone ascoltò le loro parole, ma in realtà aveva già deciso. Giurò su Ra e su suo padre, il potente Amon, che nulla l’avrebbe fermato. Perché naturalmente voleva percorrere la via più rapida, quella pericolosa e stretta che passava in mezzo alla gola. In modo da piombare addosso al nemico il più in fretta possibile. Col rischio di cadere in trappola, nel caso in cui lo stesso nemico avesse preparato un’imboscata.
Il faraone, consapevole del fatto che forse stava chiedendo ai suoi di andare al suicidio, disse apertamente: “Chi vuole tra voi, vada per le strade che avete suggerito. Ma io andrò per quella più rapida. Se dovessi scegliere un’altra strada, che cosa penserebbero i nostri nemici? Che il faraone ha paura. E questo non accadrà!”.
A quelle parole, il cuore dei generali fu colmo di nuova ammirazione e lealtà. Si inchinarono profondamente e decisero che l’avrebbero seguito ovunque, anche sulla strada rapida. Perché suo padre Amon era con lui. A questo punto si potrebbe pensare che in verità fossero stati comunque costretti a seguirlo, perché la proposta del faraone magari celava un velo di retorica: sì, aveva concesso ai generali di percorrere le altre strade, se avessero voluto, ma cosa sarebbe successo se lo avessero fatto? Se un generale avesse deciso di lasciare il suo faraone per fare il giro largo e arrivare in ritardo alla battaglia, che gli sarebbe capitato? Come minimo avrebbe perso lo stipendio. MINIMO.
E così, il faraone diede l’ordine a tutto il suo esercito di marciare lungo quella strada che si preannunciava così pericolosa. E fece pure un nuovo giuramento, ovvero che nessuno l’avrebbe preceduto. Con una mossa da vero semidio andò avanti per primo, alla testa dell’esercito.
Nel diciannovesimo giorno del primo mese del ventitreesimo anno del regno, il faraone Thutmose III raggiunse la valle della città fortezza di Megiddo. Avvolto da armatura scintillante e dalla protezione del dio Amon, guidava i suoi guerrieri in testa all’intero esercito, tenendo le redini del cavallo con braccia possenti, che si dice fossero forgiate da un potere antico.
Ma la terra non tremava solo per le sue schiere. Il nemico si palesò dalle ombre, un’orda disordinata ma terribile, già schierata in ampiezza per dare inizio alla battaglia. L’esercito del faraone, invece, era appena arrivato, disposto in una lunghissima colonna la cui retroguardia stava ancora marciando.
Allora, i generali si rivolsero di nuovo al loro sovrano: “Nostro signore, il tuo esercito sta entrando nella valle. Attendi che tutti siano giunti, e poi potremo gettarci nella mischia con tutto il nostro coraggio”.
Il faraone, un dio che univa la saggezza dei re alla forza di un guerriero, stavolta ascoltò le loro parole. Fermò la sua marcia, aspettò, e vigilò, assicurandosi che l’intera retroguardia fosse al sicuro.
Perché persino gli eserciti più grandiosi sono vulnerabili in momenti del genere, quando si trovano in marcia, necessariamente in colonna. Si marcia sempre in colonna. Provate a immaginare mille uomini che percorrono un viaggio in riga, gomito a gomito. Non è possibile, giusto? Al minimo ostacolo va tutto in malora. Devono per forza mettersi uno dietro l’altro, o comunque in file di due, tre, quattro o quel che è. E più è grande un esercito, più sarà lunga la colonna. La testa e la coda di questo immenso serpentone diverranno parecchio distanti. E lo saranno anche perché non ci sono soltanto soldati a marciare, ma carri pierni di strumenti, equipaggiamenti, viveri, e poi cavalli, bestie: insomma, tutto il necessario per sopravvivere giorni, settimane, mesi. Nel corso dei vari episodi di questa playlist “Leggende Affilate” abbiamo ormai trovato moltissime volte momenti di panico e terrore durante la marcia, laddove anche l’esercito più straordinario diventa fragile.
Thutmose III, dunque, attese. E il nemico non osò ingaggiare battaglia.
Solo quando l’ultimo soldato ebbe attraversato la gola e il sole iniziava a calare, l’intero esercito riuscì a riunirsi. Dunque, tra la testa e la coda dell’esercito ci correva un’intera giornata di marcia, tanto per intendersi. A quel punto era calata la sera, e quindi venne allestito l’accampamento. Gli egizi lo fecero in fretta, a sud di Megiddo, sulle rive di un torrente. Quella notte, mentre le sentinelle vegliavano, intorno alla tenda del re, il sonno non era profondo. Perché l’alba successiva avrebbe portato con sé una battaglia leggendaria, che sarebbe stata narrata per millenni.
Giunse l’alba dell’anno ventitré, nel giorno in cui si celebrava la luna nuova, e con lei la corona del Faraone. Un ordine si diffuse tra le schiere: era ora di marciare. Il Faraone indossò le sue armi, salì sul grandioso carro di electrum sfolgorante.
Ora soffermiamoci un attimo sul carro, che qui dobbiamo respirare l’atmosfera epica leggendaria da cui attinge tutto il nostro immaginario fantastico.
Il carro del faraone era un capolavoro di ingegneria e arte. Era costruito con un telaio fatto di legno flessibile, spesso di betulla o olmo, materiali non comuni in Egitto e quindi ancora più preziosi, che lo rendevano resistente e flessibile. Il pianale era fatto di cinghie di cuoio intrecciate, per assorbire meglio le buche nel terreno. Solitamente era trainato da due cavalli, che lo rendevano davvero veloce.
Ma il vero spettacolo, ciò che rendeva glorioso il faraone sul suo carro, era la decorazione. Il carro era interamente ricoperto di gesso e poi laminato con metalli preziosi. Probabilmente in oro (come sono ad esempio i carri scoperti nella tomba di TUTANKHAMON). Oppure, oltre all’oro veniva usato anche l’argento, e l’unione dei due: l’electrum, che lo faceva brillare in maniera accecante sotto il sole.
L’electrum è una lega metallica naturale di oro e argento. Il suo nome in latino, che deriva a sua volta dal greco, significa ambra, per via del colore simile a quello dell’ambra gialla. Tutto questo discorso sull’electrum, personalmente lo trovo estremamente affascinante, e lo dico proprio al livello personale, perché mia figlia si chiama Ambra, ma il secondo nome che per un bel po’ di tempo fu in lista tra i papabili, quando dovevamo scegliere, era proprio, indovinate un po’, Elettra. Che deriva da Electrum che a sua volta richiama il colore dell’ambra. E io, tutto questo, non lo sapevo, e nemmeno mia moglie. L’ho scoperto durante la stesura di questo episodio. Wow.
Tornando al glorioso carro del faraone, che sembra uscito da un romanzo fantasy, o ancora meglio dell’ambientazione di Warhammer, l’elemento che lo rende davvero incredibile era quindi la sua superficie laminata scintillante, su cui erano presenti bassorilievi che raccontavano le imprese eroiche del Faraone stesso. Il carro era strettamente individuale. Ciascun faraone aveva il suo, spesso associato a specifiche divinità.
Nel caso di Thutmose III, gli annali dello scriba ci spiegano che tale carro fosse legato a Horus e a Montu. Horus era il dio del cielo. Spesso raffigurato come un falco o un uomo con la testa di falco. Montu, invece, era un antico dio della guerra, anch’egli raffigurato con la testa di falco. La sua figura esprimeva la forza bruta e la ferocia in battaglia.
E così, montato sul suo carro, il faraone schierò l’esercito per la prima battaglia documentata della storia. Dispose un’ala a sud, l’altra a nord e lui si pose nel centro, dove il sangue sarebbe colato in maggiori quantità. Gli strumenti di guerra suonarono l’avanzata, e Thutmose III lanciò il carro divino alla carica. A guidare il carro era solitamente l’auriga, un guerriero scelto e fidato che accompagnava il dio faraone in battaglia. Permettendo così al faraone di dedicarsi allo scontro vero e proprio, cui partecipava con il lancio di giavellotti, o tirando con l’arco.
Nell’impeto dell’attacco, Thutmose III travolse così il nemico schierato nella valle. Gli avversari terrorizzati fuggirono verso la città fortezza di Megiddo. E nel farlo, abbandonarono tutto: cavalli, carri dorati e d’argento, armi. Lo scriba racconta che gli abitanti della città, dalla cima delle mura, calarono delle funi improvvisate, fatte di vestiti, per far arrampicare i fuggiaschi oltre le porte, che si chiusero dietro di loro. Questo dettaglio è meraviglioso, perché mentre la battaglia infuriava e volgeva al peggio per i ribelli, in città diedero ordine di chiudere le porte. E così, i ribelli in fuga se le trovarono sbarrate davanti. Immaginate che massacro avrebbe potuto prendere piede, proprio lì, sull’uscio chiuso. Ma così non avvenne.
Perché l’esercito egizio si mise allegramente a saccheggiare. E grandioso fu il bottino. Un bottino così grande solo grazie al fatto che il faraone con il suo diadema di cobra, aveva piantato il seme della sconfitta nei loro cuori. Gli annali qui fanno riferimento all’Ureo, l’ornamento a forma di cobra egiziano sul copricapo del faraone, rappresentato in posizione di attacco. Un simbolo di potere che in questo caso è un’ulteriore equipaggiamento dalla grande forza spirituale di cui era dotato Thutmose III. Un vero eroe guerriero, insomma, strapieno di armi e oggetti straordinari.
Immaginate il campo di battaglia. I nemici, fieri guerrieri cananei, erano stati travolti. I loro carri d’oro e d’argento giacevano abbandonati, bottino di guerra che scintillava sotto il sole. L’esercito vittorioso del faraone contava i morti e i prigionieri. Fuori da una tenda dell’accampamento nemico, anch’esso fuori dalle mura della città di Megiddo, trovarono il figlio del sovrano di Kadesh. Un prigioniero che avrebbe permesso un grande vantaggio diplomatico al termine del conflitto. L’intera armata intonò inni di lode ad Amon, il grande dio, per la vittoria concessa al suo figlio prediletto, Thutmose III.
Ma il faraone non era ancora soddisfatto. Mentre si faceva avanti per ispezionare il bottino, parlò al suo esercito: “Se aveste conquistato la città di Megiddo, vi avrei donato il Re (il dio sole) in persona! Perché in essa sono nascosti tutti i capi ribelli, e la sua conquista vale mille città!”
Disse questo anche per rimproverarli. Perché si erano tutti fermati a saccheggiare, invece di proseguire i combattimenti verso la città.
Le sue parole, quindi, infiammarono i soldati. In fondo, aveva promesso loro altro bottino. Thutmose III diede l’ordine di stringere l’assedio. Il faraone, in prima persona, si posizionò su una fortificazione per dirigere i lavori: poiché intorno alla città ribelle venne eretta una barriera di tronchi, per impedire agli abitanti di uscire.
Cominciò, dunque, l’assedio. Un assedio lungo e logorante, in cui gli egizi presero i difensori per fame. E arrivò il momento in cui i ribelli non poterono più resistere. Fu allora che i capi di quelle terre uscirono dalla città, portando i loro doni, pronti a inchinarsi davanti alla gloria del faraone, a implorare d’essere risparmiati. La grandezza del suo potere era tale che l’intera regione si era piegata alla sua gloria.
Arrivarono con carichi di argento, oro, lapislazzuli e malachite. Offrivano il grano più puro, vino, bestiame, tutto per l’esercito del re. Il re, in cambio, stabilì nuovi capi per quelle terre, un nuovo inizio sotto il suo dominio.
E per concludere l’episodio, ecco la lista del bottino. L’intero bottino sottratto alla città ribelle di Megiddo, in una delle più celebri e clamorose battaglie della storia.
340 prigionieri ancora vivi. E interi. Perché interi? Be’, perché furono annotate anche le mani tagliate, anch’esse parte del bottino: 83. Sì, 83 mani tagliate. Poi 2.041 cavalle, 191 puledri e 6 stalloni. E poi, i veicoli da guerra: ben 924 carri, di cui uno, quello del sovrano nemico, era d’oro massiccio.
E poi le armature. Due straordinari corredi in bronzo, uno del sovrano di Kadesh e l’altro del capo di Megiddo, più altre 200 armature. E poi 502 archi da guerra, e 7 pali di legno di mirra con intarsi d’argento: pali che reggevano la tenda del nemico.
Non è finita qui. Il grande Thutmose portò a casa 1.929 capi di bestiame di grandi dimensioni e 22.500 capi di bestiame minuto. E poi ci sono i prigionieri importanti: 38 signori, 87 bambini degli stessi signori, 1.796 schiavi (di quelli costosi, che valevano ancor più di un soldato) e, infine, 103 civili affamati che si erano arresi.
In fondo, ma non per importanza, oro, argento e pietre preziose a non finire sotto forma di piatti, vasi e gioielli. C’era addirittura una statua d’argento con la testa d’oro e uno scettro scolpito. Thutmose trovò anche 6 sedie d’avorio e di ebano, 6 sgabelli, 6 grandi tavoli e uno scettro intarsiato con ogni genere di pietra preziosa. E poi, ancora, vasellame di bronzo e tonnellate di abiti, anch’essi preziosi.
Per il gran finale, si menziona una statua in ebano con finiture d’oro e la testa di lapislazzuli.
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- An account of the battle of Megiddo, translated by James Henry Breasted: https://en.wikisource.org/wiki/An_Account_of_the_Battle_of_Megiddo ↩
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