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12 Luglio 2025

La Sconfitta di Attila: Battaglia dei Campi Catalaunici

la sconfitta di Attila

Battaglia dei Campi Catalaunici: lo scontro tra Attila, il “Flagello di Dio”, e il generale romano Ezio: come l’Occidente fermò gli Unni

Siamo nel lontano 451 dopo Cristo. L’Impero Romano d’Occidente sta barcollando, ma non è ancora caduto. In questo scenario di declino e fermento, due figure colossali si stagliano all’orizzonte, pronte a scontrarsi in una battaglia che deciderà le sorti di un’epoca.

Da una parte, abbiamo Attila, il “Flagello di Dio”, con la sua orda inarrestabile di guerrieri a cavallo, gli Unni. Egli era un uomo nato per scuotere le nazioni, il flagello di tutte le terre. 

Si racconta che abbia ucciso suo fratello Bleda, che regnava su gran parte degli Unni, per ottenere il potere. E dopo esser divenuto sovrano (con le mani già sporche di sangue), Attila unì tutte le tribù per la guerra: un’orda, nata per sottomettere tutti gli imperi del mondo. Si dice che il suo esercito contasse 500.000 uomini.

I romani erano terrorizzati dall’arrivo degli Unni guidati da Attila. “Sono animali selvaggi, bestie a due zampe, semi-uomini che mangiano i loro vecchi, bevono il sangue e si nutrono della carne scaldata sotto le selle dei loro cavalli”, così li descriveva Giordane, storico del V secolo1: Fonte primaria per questa e altre citazioni sugli unni, oltre che sulla battaglia vera e propria. 

Questa citazione ci restituisce la percezione che si aveva di loro: creature quasi mitologiche, feroci e inumane. Con le loro cavalcate le orde unne devastavano il territorio, sempre bisognose di gigantesche quantità di foraggio per i cavalli. “Dove passo io non cresce più l’erba” diceva Diego Abatantuono nell’Attila cinematografico nostrano. E in qualche modo era vero, nel senso che i cavalieri delle steppe distruggevano campi coltivati per trasformare tutto in pascolo. Non a caso quando nel 1242 le piogge e il freddo straordinario trasformarono le pianure ungheresi in un pantano, un’altra grande orda delle steppe, quella dei Mongoli di Gengis Khan, si ritirò verso est, trovatisi in serie difficoltà per reperire le risorse di cui avevano estremo bisogno.

Abbiamo anche una descrizione di Attila. Era “di bassa statura, con un petto ampio e una testa grande; i suoi occhi erano piccoli, la sua barba rada e cosparsa di grigio; aveva un naso piatto e una carnagione scura che mostrava le evidenze della sua origine.

Descrizione che contribuiva ad alimentare una figura estranea ai canoni di bellezza del mondo classico, e dunque spaventosa, persino nell’aspetto.

Dall’altra parte, contro l’orda di Attila, si ergeva un’alleanza tutt’altro che scontata. A guidarla c’era il generale romano Flavio Ezio, un uomo la cui astuzia e coraggio eguagliavano, se non superavano, quelli di Attila stesso. Ezio non era solo un brillante stratega, ma anche un diplomatico di rara abilità.

Inizialmente, però, la sua posizione era precaria. Ezio comandava poche e sparse truppe ausiliarie, senza alcun soldato regolare ai suoi ordini. Informato dell’invasione unna, si affrettò a rafforzare il suo esiguo esercito. La sua prima mossa fu tentare di convincere il potente re dei Visigoti, Teodorico I, ad unirsi a lui. Ma il successo fu scarso: Teodorico, consapevole delle truppe limitate di Ezio, riteneva più saggio attendere Attila nelle proprie terre.

Fu allora che Ezio chiese aiuto a Avito, un influente magister militum locale destinato a diventare imperatore negli anni successivi. Grazie all’abilità persuasiva di Avito, Ezio riuscì a formare l’alleanza necessaria. Avito convinse non solo Teodorico, ma anche un buon numero di altri popoli Germanici presenti in Gallia, come i Burgundi e i Franchi, ad unirsi alla coalizione. Questi popoli, che in tempi normali sarebbero stati nemici giurati di Roma, vedevano negli Unni una minaccia ben peggiore, nutrendo verso di loro un odio forse persino più intenso di quello dei Romani.

Sì, avete capito bene: i Barbari uniti ai Romani contro altri Barbari. La storia romana tardo antica, e pure precedente, si caratterizza da molteplici alleanze e frequenti cambi di schieramenti, rendendo questa trama degna di un romanzo storico. 

Questo esercito composito, frutto di un’eccezionale opera diplomatica, si diresse alla volta della città assediata di Aurelianum (l’odierna Orléans), dove giunse presumibilmente il 14 giugno. Attila e i suoi, dopo aver assediato e fallito a prendere Orléans, si erano trovati in una posizione critica. Ezio aveva saputo bloccarli e spingerli verso lo scontro decisivo. E così, il sipario si alza sulla loro grande, epica battaglia, nel 20 giugno del 451.

Il Campo di Battaglia

Il luogo dove questa titanica collisione ebbe luogo era un vasto teatro naturale, destinato a diventare un nome immortale nella storia: i Campi Catalaunici. Non sappiamo con precisione dove si trovassero questi campi. Si pensa che si tratti del nord-est francese, nei pressi di Châlons-en-Champagne. 

Giordane, nella sua cronaca, descrive il campo di battaglia come “una pianura che saliva con una forte pendenza verso un crinale che entrambi gli eserciti cercavano di guadagnare; poiché il vantaggio di posizione è di grande aiuto”. Questa collina non era un semplice elemento del paesaggio; era il cuore pulsante della battaglia, il trofeo per cui valeva la pena lottare con ogni goccia di sangue. Il motivo? Perché la posizione elevata offriva un vantaggio inestimabile. Chi controllava quella cima avrebbe avuto una visuale privilegiata, avrebbe potuto lanciare attacchi in discesa con maggiore impeto e difendersi con più efficacia. Era chiaro fin dall’inizio che la corsa per quella cresta avrebbe deciso le sorti dell’intera contesa.

Gli Unni, con le loro forze presero il lato destro, mentre i Romani, i Visigoti e i loro alleati il sinistro. E poi, prosegue Giordane, “cominciò una lotta per la cresta ancora non occupata”.

Mentre le due armate si fronteggiavano, una silenziosa tensione riempiva l’aria. Tutti sapevano che il primo obiettivo era la cima. Chi sarebbe stato più veloce? Chi avrebbe mostrato maggiore determinazione in quella corsa mortale?

Schieramenti e Condottieri

Osserviamo più da vicino come si disposero i protagonisti di questa battaglia.

Nello schieramento degli alleati, la linea romana-gotica era stata disposta con una precisione letale. Giordane ci informa che “Teodorico con i suoi Visigoti teneva l’ala destra, e Ezio con i Romani la sinistra”. Teodorico era un sovrano guerriero, il cui coraggio e la cui esperienza in battaglia erano leggendari. Accanto a lui, le sue truppe, uomini che combattevano con una ferocia e una lealtà che solo un re amato poteva ispirare. Sull’ala sinistra, il genio strategico di Ezio brillava alla testa delle legioni romane. Nonostante il declino dell’Impero, queste legioni erano ancora una forza temibile, addestrate alla disciplina e alla tattica.

Dall’altra parte, il “Flagello di Dio” aveva organizzato le sue forze con una astuzia che rivelava non solo il guerriero impavido, ma anche l’uomo preoccupato per la propria incolumità. Sappiamo che “la linea di battaglia degli Unni era disposta in modo tale che Attila e i suoi seguaci più coraggiosi fossero schierati al centro”. Questa scelta, come saggiamente annota lo storico, non era dettata solo dalla volontà di guidare l’attacco dal cuore della mischia, ma anche dalla sua preoccupazione per la propria sicurezza, poiché “dalla sua posizione in mezzo alla sua stirpe, sarebbe stato tenuto lontano dal pericolo”. Una mossa pragmatica per un condottiero che sapeva quanto la sua sopravvivenza fosse vitale per la sua orda. E pure una stoccata da parte dello storico di parte romana, che probabilmente voleva sminuire l’avversario.

Ai lati, a formare le ali dello schieramento unno, c’era un mosaico di “innumerevoli popoli di diverse tribù, che aveva sottomesso al suo dominio.” Erano popoli costretti a combattere sotto la sua bandiera, uniti non dalla lealtà, ma dalla paura. E qui viene fuori il vero potere di Attila. La “folla di re” – se così possiamo chiamarli – e i leader di queste varie nazioni “dipendevano dal cenno di Attila come schiavi, e quando egli dava un segno anche solo con uno sguardo, senza un mormorio ciascuno si faceva avanti in preda al timore e al tremore, o comunque faceva come gli veniva ordinato.” Attila era re di re: un potere assoluto, quasi divino, che esercitava su questi condottieri.

L’Inizio del Macello: La Corsa alla Cima

Il fischio del vento fu presto sovrastato dal clangore delle armi e dal grido di battaglia. La lotta per il vantaggio di posizione che abbiamo menzionato era iniziata. Attila mandò i suoi uomini a prendere la cima della montagna, ma fu superato da Torismondo [principe ereditario dei Visigoti] e Ezio, che nel loro sforzo di raggiungere la cima della collina arrivarono più in alto, e grazie a questo vantaggio sconfissero facilmente gli Unni mentre salivano. La sorpresa e lo svantaggio della posizione fecero il loro effetto: i guerrieri di Attila furono disorientati, la loro avanzata bloccata.

Quando Attila vide il suo esercito gettato nella confusione da questo inatteso rovescio, non si lasciò prendere dal panico. Al contrario, il suo spirito indomito brillò più che mai. Immaginatevelo: la sua voce risuonò potente sopra il frastuono, “li incitò con un’arringa infuocata”, dice lo storico, e “accesi dalle sue parole, si lanciarono tutti nella battaglia”. L’effetto fu immediato, un’ondata di furore travolgente: l’orda unna si lanciò nella battaglia, spinti da una rinnovata e selvaggia determinazione. La paura e l’esitazione furono spazzate via dalla sola presenza e dalle parole del loro re.

Un Massacro Senza Precedenti

E così, ebbe inizio la mischia. Un corpo a corpo brutale, un confronto in cui ogni uomo lottava per la propria vita e per quella dei suoi compagni. La lotta crebbe in intensità, diventando sempre più feroce, confusa, mostruosa e implacabile. Giordane sottolinea che “una battaglia simile nessun tempo antico ha mai veduto”. Non era un semplice scontro; era un vortice di violenza, una carneficina di proporzioni epiche.

Giordane, con la sua cronaca, non si risparmia nel dipingere un quadro vivido e terrificante di quella giornata. Descrive azioni di tale ferocia ed eroismo che, secondo lui, chi non avesse assistito a quel “meraviglioso spettacolo” non avrebbe mai più visto qualcosa di così straordinario in tutta la sua vita. Un’affermazione iperbolica, certo, ma che ci dà la misura dell’intensità e della portata di quello scontro.

E poi, c’è un dettaglio che gela il sangue nelle vene. Immaginate un piccolo ruscello che, prima della battaglia, scorreva tranquillo tra le sponde basse della pianura. Quel giorno, però, quel ruscello si trasformò in un’arteria pulsante di morte. Fu enormemente ingrossato non dall’acqua, ma dal sangue che sgorgava a fiotti dalle ferite degli uomini caduti. L’orrore non finiva qui: i soldati, stremati, feriti e con la gola riarsa dalla sete, erano costretti a bere. Ma quello che trovavano era acqua mischiata al sangue, un intruglio macabro che li obbligava a dissetarsi con quello che sembrava il loro stesso sangue versato in quel mattatoio. Un’immagine cruda e disperata, che ci restituisce l’inferno di fumo, urla e morte in cui si trovarono quei combattenti.

La Grande Sconfitta di Attila

In questo caos indescrivibile, il destino si abbatté su uno dei protagonisti più nobili. Giordane racconta che “Qui il re Teodorico [il Visigoto], mentre cavalcava per incoraggiare il suo esercito, fu sbalzato da cavallo e calpestato dai suoi stessi uomini, così terminando i suoi giorni in età avanzata.” Un finale tragico e inaspettato per un leader così rispettato, caduto non per mano nemica, ma nel caos della sua stessa vittoria. “Ma altri dicono”, aggiunge Giordane, “che fu ucciso dalla lancia di Andag della schiera degli Ostrogoti che allora erano sotto il dominio di Attila.” Uno dei capiguerra delle infinite tribù, insomma, aveva trafitto con la sua lancia il condottiero e sovrano visigoto. Indipendentemente da come avvenne, la sua morte fu un colpo devastante per i suoi uomini.

La perdita del loro re infiammò i Visigoti con una rabbia incontrollabile. Si gettarono sull’orda degli Unni con una furia scatenata, una vendetta cieca che li rese inarrestabili. La loro carica fu così violenta che quasi uccisero Attila stesso. Il “Flagello di Dio” si trovò in grave pericolo, tanto che a un certo punto della battaglia Attila credette di essere sul punto di venire sconfitto. Ma la sua astuzia, o forse la sua innata capacità di sopravvivenza, lo salvò. “Egli prudentemente si diede alla fuga e si rinchiuse subito con i suoi compagni entro le barriere del campo che aveva fortificato con i carri.” Queste fortificazioni mobili, fatte di carri disposti in cerchio, erano un classico espediente difensivo delle popolazioni nomadi, una specie di fortezza improvvisata che poteva resistere agli attacchi più feroci.

Questa fase cruciale della battaglia si concluse nel caos, al calar del sole. “La battaglia divenne ora confusa,” racconta lo storico, “i capi si separarono dalle loro forze: la notte calò con l’esercito romano-gotico che teneva il campo di battaglia.” Era un segnale inequivocabile: nonostante la ferocia e la disorganizzazione finale, le forze di Ezio avevano mantenuto il terreno. La terra era loro, ma il nemico, il temibile Attila, era ancora vivo, rinchiuso nel suo campo fortificato. Un dettaglio che avrebbe reso le ore successive cariche di tensione e attesa.

L’Alba Dopo il Massacro

Quando l’alba squarciò le tenebre del giorno successivo, uno spettacolo raccapricciante si presentò agli occhi dei Romani e dei Goti. Giordane scrive che “i Romani videro che i campi erano ammassati di cadaveri, e che gli Unni non osavano avventurarsi fuori.” La piana era un orribile tappeto di morte. Gli alleati, vedendo gli Unni barricati e immobili, “pensarono che la vittoria fosse loro.” Sembrava la fine.

Ma il generale Ezio e i suoi uomini conoscevano Attila fin troppo bene. Sapevano che il “Flagello di Dio” non era un uomo che fuggiva dalla battaglia “a meno che non fosse sopraffatto da un grande disastro.” Nonostante la sua ritirata, Attila non fece nulla che potesse essere considerato codardo. Al contrario, con un fragore di armi, fece suonare le trombe e minacciò un attacco. Fu un’audacia incredibile, un bluff maestoso studiato per mantenere la sua dignità e forse instillare un ultimo, terribile dubbio nei cuori dei suoi avversari. Sapeva che la sua sola reputazione bastava ancora a tenere in scacco un esercito vittorioso.

I Romani, però, non abboccarono al bluff di Attila. Consapevoli della sua astuzia e della sua disperazione, “decisero di logorarlo con un assedio.” Tuttavia, fu qui che la dinamica cambiò in modo inaspettato, visto che i visigoti e altri alleati “barbari” di Roma, se ne andarono dal campo di battaglia, all’improvviso. E Attila ebbe modo di fuggire, sopravvivendo. Colpo di scena.

Lo storico Giordane non spiega bene il perché. Però fa riferimento a certi dissidi tra i romani e i visigoti. Ed ecco che gli storici, incrociando fonti, e interpretando, sono giunti a una probabile spiegazione su come fosse andata davvero, quel giorno. 

Dunque, mentre Attila era intrappolato nel suo campo, i Visigoti si posero alla ricerca del loro re Teodorico. Che era morto da qualche parte e volevano ritrovarne il cadavere. Dopo una lunga e angosciosa ricerca, trovarono il corpo del re sotto una montagna di corpi. Il figlio, Torismondo, accecato dal dolore e dalla sete di vendetta, si accinse ad assaltare immediatamente il campo unno per annientare Attila. Ma fu dissuaso da Flavio Ezio.

Secondo le interpretazioni, Ezio nutriva un timore ben preciso: se gli Unni fossero stati annientati del tutto, quel giorno, i Visigoti, forti della loro schiacciante vittoria, avrebbero potuto rompere l’alleanza con l’Impero e diventare per Roma una minaccia persino più grave. Così, Ezio convinse Torismondo a rientrare rapidamente a Tolosa per far valere i suoi diritti di successione al trono prima che i suoi fratelli potessero contestarglieli. Torismondo si lasciò convincere, e se ne andò per farsi incoronare re. Insomma: Attila, agli occhi di Ezio, non era più una minaccia, ed era preferibile lasciarlo in vita, piuttosto che rischiare di creare una minaccia ancora più grande, e peggiore.

Quindi, assistendo alla partenza dei Visigoti e degli altri alleati, Attila, chiuso nel suo campo, sospettò che si trattasse di una finta ritirata, con lo scopo di attirarlo fuori dal campo ed annientare i resti del suo esercito. Perché fu una visione così strana, che non sospettava minimamente cosa fosse successo. Rimase quindi al riparo nel suo accampamento per qualche tempo. Per poi lasciare il campo e andarsene, pure lui, verso il Reno. 

Nonostante la ritirata e la battaglia avessero logorato il suo esercito, Attila non era completamente sconfitto. E si rivelò pure parecchio incattivito. Fece massacrare ostaggi e prigionieri con una crudeltà efferata. “Duecento giovani fanciulle furono torturate con disumana ferocia: i loro corpi vennero legati a cavalli selvaggi e squartati, le ossa frantumate sotto le ruote dei carri e le membra abbandonate sulle strade in pasto ai cani”.

Così si concluse questa battaglia, che lasciò dietro di sé una scia di morte impressionante. Giordane riporta che “in questa guerra famosissima delle tribù più coraggiose, si dice che siano stati uccisi 160.000 uomini da entrambe le parti.”

Conseguenze di una Battaglia Decisiva

La Battaglia dei Campi Catalaunici (o di Châlons) è stata oggetto di dibattito tra gli storici. Alcuni la definiscono una delle quindici battaglie più decisive della storia, sostenendo che una vittoria di Attila avrebbe impedito la nascita della civiltà europea come la conosciamo. Altri, invece, ne ridimensionano l’importanza, affermando che non colpì Attila al culmine della sua potenza né gli impedì di compiere nuove scorrerie.

Tuttavia, è innegabile che questa battaglia fu la grande sconfitta di Attila. Sebbene il “Flagello di Dio” abbia affrontato altre campagne e compiuto ulteriori scorrerie dopo Châlons (come la sua invasione dell’Italia nel 452 d.C.), non riuscì mai più a riprendersi completamente dalla portata di questo scontro. La sua aura di invincibilità fu spezzata, la sua marcia inesorabile verso l’Occidente interrotta. Fu il momento in cui l’avanzata degli Unni fu frenata in modo decisivo, un punto di svolta dal quale il loro dominio iniziò a declinare.

Questa è una di quelle storie che ci ricorda come il coraggio, la strategia, la ferocia e il destino si intreccino sul campo di battaglia. Un racconto di eroi, di re, di popoli interi che si scontrano per il dominio, lasciando dietro di sé una scia di sangue e leggenda.

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  1. Storia dei Goti, Giordane
Lorenzo Manara