Giovanni Battista Belzoni: l’Italiano che Ispirò Indiana Jones

La vita straordinaria di Giovanni Battista Belzoni, l’italiano che ispirò Indiana Jones. Avventure nel deserto, scontri armati ed esplorazioni di tombe dell’Antico Egitto.
Dimenticate fruste e cappelli. L’avventuriero più audace, l’archeologo più straordinario che sia mai esistito, non era un professore americano… era un italiano. Il suo nome: Giovanni Battista Belzoni.
L’Epoca dei Cacciatori di Tesori e l’Egittomania
Il periodo in cui visse Giovanni viene definito l’epoca dei Cacciatori di Tesori, nei primi anni dell’Ottocento. Un momento caotico prima della nascita dell’archeologia scientifica moderna. C’era una feroce competizione tra le grandi potenze, principalmente Francia e Gran Bretagna, per accaparrarsi i reperti più spettacolari e imponenti da piazzare nei musei nazionali (il Louvre e il British Museum). E le attenzioni di tutti, in quel momento, erano concentrate su un unico punto del globo: l’Egitto. La storia dell’Antico Egitto divenne una mania per gli europei. Tutti volevano conoscerla, tutti sognavano di riscoprire chissà quali meraviglie celate sotto la sabbia.
Il motivo di questa Egittomania fu principalmente l’invasione francese dell’Egitto guidata da Napoleone Bonaparte, tra il 1798 e il 1801. Napoleone portò con sé i soldati, naturalmente, ma anche centinaia di studiosi, disegnatori e scienziati. Il loro lavoro era di mappatura, documentazione e anche studio approfondito delle antichità egizie. Il risultato di questa spedizione fu una monumentale opera enciclopedica che risvegliò nell’Europa il desiderio di saperne di più.
La situazione politica dell’Egitto al termine della campagna napoleonica poi favorì l’arrivo degli europei, perché il paese necessitava di modernizzarsi, di introdurre tecnologie, conoscenze, soldi. E cosa aveva da offrire l’Egitto, in cambio di tutto questo? Quel che desideravano gli europei in quel momento: il patrimonio storico. Diciamo che spesso, la moneta di scambio, lo strumento per consentire all’Egitto di aprirsi al mondo moderno, furono i frammenti di pietra del suo passato. Quindi il saccheggio operato dagli avventurieri europei, spesso era incentivato e supportato dalle stesse autorità d’Egitto.
Tutti questi elementi di contesto storico-politico, uniti a molti altri, diedero vita a quel che potremmo definire il Selvaggio West dell’Egittologia nei primi anni dell’Ottocento, un’epoca in cui si vivevano avventure da film, tra esplorazioni di tombe sepolte alla luce delle fiaccole, scontri di spada e pistola con i predoni del deserto e, ovviamente, grandiose scoperte archeologiche, celate per millenni sotto la sabbia. La storia di Giovanni Battista Belzoni è tutto questo e pure di più, e io sono qui per raccontarvela. La storia dell’Italiano che ispirò (e direi che ha vissuto) come il vero Indiana Jones.
Dal Monaco all’Uomo Forzuto: La Formazione del Gigante Italiano
Giovanni Battista Belzoni nasce a Padova, che allora faceva parte della Repubblica di Venezia, nel 1778. Inizia come un semplice apprendista barbiere nella bottega del padre (il cognome all’epoca era Bolzon), ma la sua mente e le sue ambizioni erano troppo grandi per restare in un luogo solo. E pure lui si dice che fosse grande, ma grande davvero. Le fonti riportano che fosse alto quasi due metri. E che fosse incredibilmente forte. Un omone imponente, insomma.
Trasferitosi a Roma da giovane inizia la sua doppia vita. Ingegnere e Appassionato di Storia: Studia ingegneria idraulica e rimane affascinato dalle rovine e dai segreti dell’antica Roma. Qui si fondano le conoscenze che gli torneranno utili durante la carriera di archeologo esploratore. Ma ormai lo abbiamo capito, lui non sapeva star fermo un attimo, quindi in un certo momento della sua vita, decide di farsi monaco. Di prendere i voti in monastero. Ma, fortunatamente direi, scoppia la guerra, arrivano le truppe napoleoniche e Giovanni è costretto a fuggire. Lascia perdere i voti e da lì in poi comincia a girare per tutta Europa, da un paese all’altro.
Prima a Parigi, poi nei Paesi Bassi dove continua a studiare ingegneria idraulica. Poi in Inghilterra, che diventa la sua seconda patria, dopo l’Italia (prese anche la cittadinanza inglese). Si sposa con Sarah, una compagna di vita che di lì a qualche anno lo seguirà in capo al mondo, accompagnandolo ovunque tra le acque del Nilo e negli accampamenti nel deserto. E infine diventa circense. Ma come, non era la storia dell’italiano archeologo, questa? Eh, sì, però in questa fase della sua vita, quel Giovanni alto due metri, fortissimo e prestante, forse per sbarcare il lunario, si dette alla vita da circo. Sembra pazzesco, ma è vero. Lui era il cosiddetto “uomo forzuto”, quello coi baffi e il costume a righe dell’immaginario collettivo legato al circo ottocentesco.
Mentre girava il Paese con i suoi spettacoli, Belzoni non dimenticava la sua passione per l’idraulica: per aumentare l’appeal delle sue esibizioni, inventò un sistema di fontane mosse da una sua macchina idraulica. Questo periodo nel circo e nei teatri di Londra fu la palestra che forgiò il Belzoni esploratore: un uomo abituato a risolvere problemi con la forza bruta e l’ingegno, un uomo di spettacolo capace di attirare l’attenzione, e, non meno importante, un uomo che aveva imparato a muovere cose estremamente pesanti con mezzi limitati, ricordiamoci questo elemento della sua formazione, che lo ritroveremo molto presto. Anche perché l’Egitto aveva bisogno esattamente di quell’uomo. Che tra l’altro divenne pure cavaliere templare. Perché si dice che in Inghilterra fu accolto da una loggia massonica. Tanto per aggiungere altri elementi straordinari a una vita che ne è piena. E ormai non ci stupiamo più di niente.
La Prima Impresa: Rimuovere il Colosso di Ramses II per il British Museum
L’aggancio che gli permise di approdare in Egitto nel 1816, fu un emissario del pascià Mehmet Alì d’Egitto. Giovanni fu invitato come esperto di idraulica, perché come abbiamo detto l’Egitto aveva bisogno di innovare. Ed era in atto anche una evoluzione agricola che richiedeva per l’appunto conoscenze idrauliche. Giovanni partì con la moglie, ma quel che l’aspettava non riguardava campi agricoli e canali d’irrigazione. MA era qualcosa di ben più colossale.
Con la sua abilità di fare conoscenze, intrecciare rapporti, fu introdotto allo stesso pascià e a una serie di europei che avevano le mani in pasta nella mania del momento: la riscoperta del patrimonio storico dell’Antico Egitto. Giovanni aveva la fama d’essere un uomo d’azione, ma anche ingegnoso, che conosceva i principi dell’ingegneria e sapeva applicarli in svariate situazioni. Ed ecco che per un’intricata rete di amicizie e incontri più o meno casuali, nell’estate del 1816 s’imbarcò per risalire il Nilo, con la moglie. Lo scopo era di svolgere una missione segreta e rischiosa, ufficiale. Giovanni era stato incaricato dal Console britannico per sollevare una gigantesca testa di pietra a Tebe e trasportarla lungo il Nilo, fino al Cairo, come dono per il British Museum. Un’impresa titanica, considerato il peso e le dimensioni del reperto. Questa testa di pietra, con parte del busto, era alta 2,67 metri, larga poco più di 2 metri, dal peso di 7,25 tonnellate. Stava ancora lì a Tebe per un motivo: nessuno era ancora riuscito a portarla via.
Ed ecco che Giovanni navigava il Nilo nella sua prima missione, accompagnato persino da un giannizzero: un soldato ottomano che gli era stato affidato per sua protezione. Perché, come anticipato, quell’epoca di cacciatori di tesori era parecchio turbolenta, e gli scontri di spada e pistola erano all’ordine del giorno. Il Giannizzero era tipicamente armato per il combattimento ravvicinato con l’iconica sciabola curva, una spada corta. A queste armi bianche si aggiungeva l’archibugio o un moschetto per l’ingaggio a distanza. E di sicuro una o più pistole, le stesse che impugnerà pure Giovanni. Ma non voglio anticipare questi dettagli spettacolari, li vedremo fra poco. La presenza del giannizzero, ovvero un soldato dell’impero ottomano cui era soggiogato l’Egitto, serviva come protezione e anche come figura autoritaria. Perché quella era un’operazione congiunta tra i due paesi, l’Egitto e l’Inghilterra. E per rappresentare ciò sul campo, c’era bisogno dell’intervento militare. Altrimenti, banalmente, la popolazione locale avrebbe riso in faccia a Giovanni. O, peggio, l’avrebbero fatto fuori.
A descrivere questa, e le altre imprese di Giovanni, fu lui stesso. Gran parte di quel che vi racconterò deriva dal libro pubblicato per la prima volta in inglese nel 1820 e scritto proprio dal nostro archeologo-avventuriero italiano, ovvero il resoconto delle sue avventure e delle sue scoperte archeologiche. E di cose interessanti da raccontare, ne aveva eccome, come vedremo fra poco.
Lo Spostamento del Colosso di Ramses II (il cosiddetto Memnone)
La testa, dice Giovanni, si trovava tra le rovine dei templi di Tebe. Approdando a Luxor, l’esploratore si trovò di fronte a una città di giganti, un panorama di rovine così vasto e sublime da rendere ogni descrizione inadeguata. Lì, in quel cimitero di grandezza, attendeva la testa colossale del Memnone. L’impresa aveva appena avuto inizio.
Il colosso giaceva sulla schiena, il viso perfetto e bellissimo, di un misto granito nerastro e rossastro, un frammento della spalla ancora attaccato, e un foro sospetto, forse praticato dai Francesi di Napoleone, che ne complicava la rimozione. Le istruzioni che aveva ricevuto Giovanni erano chiare: nessun rischio di danneggiare il colosso, di seppellire il volto nella sabbia o di perderlo nel fiume. Se i mezzi si fossero rivelati inadeguati, l’impresa andava subito abbandonata.
La testa di pietra, che in realtà aveva anche parte del busto con una spalla intatta, era ipotizzata come raffigurazione del giovane Memnone, l’eroico semidio della stirpe reale troiana, figlio della dea Aurora. Giovanni ipotizza anche che si tratti di Sesostri oppure Ozymandias. Ma erano tutte interpretazioni sbagliati: la statua in verità era forse ancora più importante, perché poi si scoprì che raffigurava nientemeno che il faraone Ramses II. Ma questo loro non lo sapevano. Giunto lì davanti, Giovanni si emozionò. E descrive il volto di questa statua che pare sorridergli, perché finalmente era giunto colui che l’avrebbe tirato su dalla sabbia. Già, tirarlo su… ma come?
Il compito di rimuovere questa titanica reliquia sembrava a tutti una follia. L’attrezzatura a disposizione era pure ridicola: solo quattordici pali, quattro corde di foglie di palma e quattro rulli per farla scorrere, senza nemmeno un paranco per sollevarla. Insomma, forse arnesi ancora più miseri di quelli che usarono gli antichi egizi, migliaia di anni prima. Senza contare che il tempo non giocava a favore di Giovanni: l’inondazione annuale del Nilo era infatti imminente. Se il busto non fosse stato spostato prima dell’inondazione, l’acqua avrebbe ricoperto il terreno, bloccandolo lì per un anno intero. E ora cominciamo a capire l’insieme di motivi che avevano impedito a tutti di spostarlo. Mettici pure il Nilo che ogni anno esonda e ricopre tutto, e siamo a posto. Senza contare gli intoppi burocratici e politici.
La Disputa con il Funzionario: Giovanni usa la Forza Bruta
Già, perché ho menzionato in principio il consenso del pascià e delle autorità al trasporto di opere del patrimonio storico egizio. Ma se questa era la linea teorica, di mezzo c’erano innumerevoli ostacoli. Perché certi funzionari locali non avevano intenzione di mollare l’osso facilmente. Tutte cose che Giovanni descrive nel dettaglio. Infatti, sembrava che le autorità locali trovassero ogni genere di scusa per ritardare il prelievo del colosso: ad esempio il fatto che fosse la stagione della mietitura e che gli operai disponibili erano pochi, e poi il digiuno del Ramadan. Ostacoli che andavano ammorbiditi con dovuti regali, nello specifico barili di polvere da sparo e caffè, che Giovanni doveva procurarsi e portare in dono. E poi, come se non bastassero le difficoltà, ci si mettevano di mezzo pure gli avversari europei. Perché in quel momento Giovanni rappresentava gli interessi inglesi, nello specifico del British Museum. Ma vi erano molti altri cacciatori di tesori che bramavano quel colosso. Ad esempio i francesi del Louvre. E, come una battaglia tra gang, i contrasti sfociarono nella violenza.
Giovanni Belzoni andò per l’ennesima volta dall’autorità locale per dirgli di sbrigarsi a fornirgli l’aiuto necessario, perché a breve il Nilo avrebbe esondato e l’intera missione sarebbe fallita. E questo funzionario, che aveva accordi coi rivali di Giovanni (e probabilmente era pure corrotto), per l’ennesima volta gli disse di no. Un no che a questo punto portò all’accendersi di una disputa. Perché Giovanni si fece insistente, non poteva tornare di nuovo a mani vuote. E il funzionario si arrabbiò. Insultò la nazione dell’avventuriero, l’Italia, e dei suoi committenti, l’Inghilterra. Poi estrasse la sua sciabola turca e la puntò contro Giovanni. Ed è a questo punto che la formazione fisica, la sua forza bruta e la sua stazza di gigante fecero molto comodo. Perché Giovanni reagì come sapeva far meglio.
Con uno scatto balzò addosso al funzionario, lo agguantò e lo spinse all’angolo, gli tolse la spada di mano e fu lui a minacciarlo: se non gli avesse dato quel che cercava, gliel’avrebbe fatta pagare. E il funzionario abbassò la cresta. Scrisse tutte le lettere necessarie a far partire manovali e attrezzature, firmò, timbrò e la missione poté proseguire.
Questo episodio rappresenta alla perfezione tutto quel che vi ho spiegato finora e quanto fosse stata determinante la figura di Giovanni, la sua astuzia, e la sua forza: entrambe caratteristiche che in quel contesto così difficile erano necessarie per portare a termine la missione. Un semplice archeologo magrolino avrebbe chinato il capo, il Nilo avrebbe esondato, e la testa sarebbe rimasta lì. Con Giovanni, no, lui poteva farsi valere anche a manate. E voi, a questo punto penserete, “beh, sarebbe stato meglio se l’avesse lasciata lì”. Il fatto, come ho già spiegato più volte, è che se non l’avesse presa lui, l’avrebbe presa qualcun altro l’anno successivo. Perché quella testa serviva a pagare l’evoluzione tecnologica e sociale di un paese. Molte famiglie del luogo quel giorno poterono portare il pane in tavola e sfamare i propri bambini grazie ai soldi del British Museum. Quando si ha fame tutto passa in secondo piano. La storia umana è così, e lo è ancora oggi. C’è poco da fare.
Il Trionfo del Colosso di Ramses II
Ho introdotto questo dettaglio di famiglie che portano il pane in tavola, perché Giovanni necessitava di questi lavoratori locali, i quali ricevettero una paga proprio grazie a quelle lettere firmate sotto minaccia di spada. Un gran numero di lavoratori, dell’ordine di centinaia. E l’impresa poté finalmente iniziare.
Usando un sistema antico quanto l’antico Egitto, Giovanni fece scivolare il colosso su tronchi di legno e lo fece arrivare fino alla sponda del Nilo. Scrive nel suo resoconto, che nel vedere la statua gigantesca spostarsi gli Arabi lanciano un grido. E molti sbirciavano verso Giovanni, che dirigeva i lavori col suo blocco di appunti. E molti credevano che lì sopra ci fossero scritti degli incantesimi. Dettagli pittoreschi inseriti dall’avventuriero. Un’impresa che durò giorni. Siamo ad agosto, sotto il sole torrido della stagione più calda, con un’aria così infuocata dice Giovanni che era difficile toccare le pietre. Inoltre, gli arabi erano a digiuno per via del Ramadan. Eppure lavoravano fino al tramonto. E poi, mettici pure febbri e malori, ovvero colpi di calore, che misero a dura prova lo stesso Giovanni. Ma nonostante tutto, il 12 agosto 1816, il colosso di Ramses II raggiunse la sponda del Nilo, pronto per essere imbarcato. Un vero trionfo.
Oggi il busto è ancora al British Museum ed è uno dei pezzi più importanti. Ma Giovanni non lo seguì. Lui rimase in Egitto, perché di cose da fare ne aveva ancora molte. A cominciare dall’esplorazione delle tombe sepolte e di un episodio in particolare, che voglio raccontarvi perché sembra proprio un film.
L’Avventura nelle Tombe di Gurna e il Grido dell’Interprete
L’avventuriero italiano raggiunge una delle misteriose caverne di Gurna (o Qurna), sito che fa parte della vasta necropoli tebana, sulla riva occidentale del Nilo a Luxor. Non sono grotte naturali, ma piuttosto le Tombe dei Nobili, scavate nella roccia. Questa necropoli ospita un gran numero di tombe di alti funzionari e dignitari dell’antico Egitto, in particolare del Nuovo Regno. La missione di Giovanni era di recuperare uno specifico sarcofago.
Accompagnato da 2 guide arabe locali e dal suo interprete, si addentra in una caverna. Erano in 4 in totale. Giovanni si spoglia degli abiti più pesanti e, con una torcia in mano, inizia il cammino. La caverna si rivela un inferno di cunicoli irregolari, a tratti angusti, obbligandolo a strisciare come un “coccodrillo” in certi passaggi. Il senso di smarrimento cresce: è lontano, e la via è talmente contorta che la sua unica speranza di uscita risiede nei due arabi. Raggiungono uno spiazzo dal quale si diramano altre aperture. Dopo una breve discussione, gli arabi scelgono un passaggio in discesa, stretto e accidentato, che conduce ad altre due fessure orizzontali. È qui, indicano le guide, che si trova il misterioso sarcofago, l’obiettivo della missione. L’esploratore si interroga su come un manufatto così grande possa passare per un’apertura così minuscola; il cunicolo è talmente stretto che lui non riesce a penetrarvi. Decidono di dividersi in coppie: l’interprete e uno degli arabi vanno un po’ avanti a vedere. Giovanni, invece, sarebbe rimasto lì con la guida rimasta.
La luce dell’interprete e della guida araba andati in avanscoperta si affievolisce e scompare tra i cunicoli. Giovanni può sentire solo il flebile mormorio di voci che giunge dalle profondità. Poi, d’un tratto, si leva un fragore assordante, seguito dal grido disperato dell’interprete: “O mon Dieu! mon Dieu! je suis perdu!” Infine dopo tutto questo fracasso, cala un silenzio di tomba. Espressione più che azzeccata, visto che siamo in una necropoli.
Giovanni chiede al suo compagno arabo, rimasto lì con lui. Ma quello là lascia intendere di non sapere cosa fare, perché non si era mai addentrato così tanto. E adesso? Quel rumore sembrava un crollo. L’unica scelta era di fuggire per cercare aiuto. Giovanni quindi chiede alla guida di portarlo fuori, ma la guida, indovinate un po’, gli confessa che non sa uscire di lì. Aveva mentito, insomma, sul curriculum. Giovanni, con l’arabo stagista inutile, era intrappolato nel sepolcro, con le torce che si consumavano. Allora, si mise d’impegno per ripercorrere la strada a ritroso, e cercare una via d’uscita. E il percorso era davvero difficile da riconoscere. Sbagliò più volte strada, e fu costretto a fare avanti e indietro tra i cunicoli, finché a un certo punto, da una piccola fessura, l’esploratore avverte un suono che ricorda il fragore del mare in lontananza. Avanzano, e il rumore si tramuta in un coro di voci. Finalmente, camminano verso la luce e ne emergono, con sua immensa sorpresa, proprio dove si trova l’interprete, lo stesso che aveva gridato dal terrore neanche fosse stato colpito dalla maledizione di Imothep del film “la Mummia”.
Interprete che, fondamentalmente, stava bene. Cos’era successo, allora? Il fatto è che procedendo nell’oscurità, l’interprete era caduto in una voragine. E quindi aveva gridato, facendo un gran baccano mentre rotolava giù. Pensava d’essere intrappolato, ma in realtà, guardato in alto, scorgeva la luce diurna. Una fenditura nella roccia. Si fece quindi strada raschiando con le mani e liberò un varco sufficiente a chiedere aiuto. Di fuori, degli arabi accorsero e lo liberarono. Poi, su quello stesso luogo nei pressi della voragine, giunsero anche Giovanni e l’inutile guida, che pensavano d’essere tornati indietro fino all’ingresso, ma in realtà avevano raggiunto quel nuovo varco aperto nella roccia.
Questa è una vera e propria avventura tra le tombe. Una di quelle vicende storiche che mi fanno impazzire, e che mi danno una grande ispirazione per scrivere le mie storie, i miei romanzi. Come La Stirpe delle Ossa e La Canzone dei Morti, due libri di genere storico-fantasy che ho scritto e sono ambientati in un medioevo italiano dove l’Aldilà ha un’importanza fondamentale. Perché nell’Antico Egitto come nel Cristianesimo, il culto dei morti è sempre al centro delle vite degli uomini. E quindi, i cavalieri protagonisti dei miei romanzi, spada in pugno, si trovano ad avventurarsi tra le croci di pietra dei cimiteri, per sgominare minacce giunte dall’Oltretomba. Tra l’altro questi due romanzi, La Stirpe delle Ossa e La Canzone dei Morti, sono appena stati ripubblicati in una nuova edizione illustrata. Li trovate in tutte le librerie e gli store online, vi consiglio assolutamente di comprarli.
Scontri Armati e il Coraggio della Signora Belzoni
Di avventure, il nostro Giovanni ne ebbe moltissime altre. Alcune delle quali lo videro protagonista di scontri armati, dove la sua forza e il suo coraggio gli permisero di avere la meglio. Come quando stava attraversando il Nilo in barca. Mentre erano ormeggiati vicino a un villaggio per rifornimenti, e il suo giannizzero e i marinai erano a terra, Giovanni e la signora Belzoni (la moglie che ricordiamolo, era quasi sempre con lui, tranne che nelle tombe) rimasero soli sulla barca. E in quel frangente un gruppo di guerrieri locali si avvicinò alla barca, armati di lance e scudi di pelle di coccodrillo. Temendo un assalto, Giovanni si armò di pistole, e ne diede una pure alla moglie. Giovanni, con la pistola in pugno, si parò davanti al primo guerriero che tentava di salire a bordo, presumibilmente il capo. E il capo guerriero indietreggiò.
A spiegare cosa stava per accadere fu l’interprete di ritorno alla barca. Lui disse che questi indigeni erano in guerra con gli abitanti di un’isola, e volevano prendere la barca per andare a dare battaglia ai loro nemici. Ma Giovanni aveva dimostrato abbastanza coraggio da dissuadere quei guerrieri con gli scudi in pelle di coccodrillo. Anche perché era alto 2 metri, ricordiamo. Questo dettaglio inoltre ci racconta qualcosa delle tribù locali che agli albori del XIX secolo conservavano tradizioni antiche, e pure le armi, come lance e addirittura caratteristici scudi in pelle di coccodrillo.
Un’altra dimostrazione di forza si ebbe nei pressi del Tempio di Kalabsha. Dopo aver visitato le rovine, Giovanni e i suoi compagni furono raggiunti da un gran numero di indigeni armati di lance. Si piazzarono davanti a loro, per esigere un pedaggio. E Giovanni si rifiutò: con grande calma e audacia, si fece avanti, fissando negli occhi i guerrieri, e attraversò il loro gruppo armato. Lui voleva passare senza pagare. E lo fece: nessuno osò toccarlo. Ancora una volta, il gigante italiano non si piegò alle angherie, vincendo la disputa col proprio coraggio.
La Grande Sfida: Riscoprire l’Ingresso del Tempio di Abu Simbel
E poi, arriviamo alle cose grosse. Più grosse del colosso di Memnone. Giovanni Battista Belzoni si occupò di altre imprese grandiose, prima fra tutte la missione presso uno dei simboli assoluti dell’Antico Egitto, una meraviglia che molti ancora oggi sognano di vedere coi propri occhi. Nelle sabbie infuocate della Nubia, nell’Egitto del sud, lungo le rive del Nilo erano incastonati nella viva roccia dei templi mastodontici. Un sito archeologico che tutti conoscono col nome di Abu Simbel.
Giovanni racconta che mentre attraversava il Nilo, la vista dei monumenti gli tolse il respiro. Il tempio minore sfoggiava sei statue gigantesche, alte trenta piedi, scolpite direttamente nella parete rocciosa. Ma fu il Tempio Maggiore a catturare ogni sguardo: il vento aveva riversato un’enorme duna di sabbia sul tempio, soffocandone l’ingresso e occultandone i due terzi. Tutto era bloccato, nessuno entrava lì dentro da chissà quanti millenni. Avvicinandosi, Giovanni comprese la titanica sfida: l’accumulo di sabbia era così immenso da far svanire ogni speranza di raggiungere la porta. Immaginate una montagna di sabbia (letteralmente una montagna) riversata contro l’ingresso. Quel che noi oggi vediamo in fotografia e nei documentari, quando di lì passò Giovanni Belzoni era completamente sepolto. Sulla sommità della duna si intravedeva solo la testa di una delle quattro gigantesche statue, che spuntava. Ed ecco la sua nuova missione: trovare il modo di entrare lì dentro.
Belzoni e la Tecnica di Scavo nella Sabbia di Abu Simbel
Giovanni calcolò che la porta del tempio doveva trovarsi non meno di dieci metri sotto il livello della sabbia. Il problema vero, però, era la sabbia. Perché scavare così tanto nella sabbia era un’operazione difficilissima e pure potenzialmente letale: appena provi a toglierne un po’, la sabbia che sta ai lati e in alto ricade subito a riempire lo spazio che hai appena liberato. A rendere le cose più pericolose per Belzoni ad Abu Simbel era la profondità a cui dovevano scavare e la quantità enorme di sabbia che copriva il tempio. Più scavi in profondità, più il peso della sabbia che ti circonda è grande. C’è il rischio costante che le pareti della buca crollino all’improvviso, seppellendo chi sta lavorando, ecco perché era un’operazione potenzialmente letale. La sabbia, essendo così fluida e non compatta, non permette di creare tunnel o buche con pareti stabili come si farebbe nella roccia o nella terra più solida.
Nonostante l’impresa sembrasse impossibile, stimolato dalla perseveranza e dalla speranza, Giovanni però non voleva mollare. Aveva però bisogno di uomini. Moltissimi uomini. Dove andarli a prendere? Dalle genti del posto, ovviamente.
Raggiunse un villaggio, nella tenda del capo, dove lo accolse il figlio del capo, a sedere per terra, con una spada ricurva e un fucile al suo fianco, circondato da uomini armati di lance e scudi. Un’accoglienza ben precisa che voleva significare una cosa sola: noi non vogliamo saperne della vostra mania per le pietre antiche. E il figlio del capo glielo disse in faccia, a Giovanni: noi con quelle pietre non ci facciamo niente. E nemmeno i vostri soldi ci interessano.
E qui veniamo al punto cruciale della faccenda: Giovanni, come molti altri avventurieri e archeologi, vagavano per l’Egitto pagando la manovalanza locale per gli scavi. E tutti erano più che contenti di farlo, in virtù proprio del denaro degli europei. Ma in questo frangente, no. Quaggiù, nell’Egitto più remoto e povero, lontano dal mondo civilizzato, il denaro non veniva usato. Si faceva ricorso al baratto, si scambiavano merci. E il concetto stesso di lavorare per denaro era ignoto.
Giovanni, però, non si diede per vinto e provò a spiegare al figlio del capo e ai suoi signori della guerra che il denaro serviva ovunque, pure nel deserto più sperduto della Nubia. Tirò fuori una piastra d’argento, ovvero una moneta in uso all’epoca in Egitto, e disse loro che con quella un uomo avrebbe potuto mangiare sorgo per 3 giorni (ovvero un cereale fondamentale per l’alimentazione in quei luoghi). Diede la moneta a uno di quei signori e lo mandò sulla riva del Nilo, a comprare il sorgo direttamente ai marinai della barca. Quando l’uomo tornò con una gran quantità di cereali avvolti in uno straccio, provò a tutti che Giovanni aveva ragione: i soldi servivano eccome.
Con questa piccola dimostrazione, naturalmente, non ottenne ancora l’aiuto sperato. Fu solo un modo per rompere il ghiaccio. Perché il figlio del capo voleva riso, caffè, zucchero e, soprattutto, un tipo esotico di tabacco siriano molto apprezzato in quelle zone. E, a quel punto, voleva pure i soldi. Giovanni gli diede tutto quanto e finalmente ottenne gli uomini di cui aveva bisogno, circa una quarantina. Nell’agosto del 1817 iniziarono i lavori di rimozione della sabbia che bloccava l’entrata del grande tempio, un’impresa che era sembrata irrealizzabile anche per via delle temperature che superavano i 50 gradi. Più o meno come a Catania, questa estate. E poi si presentarono come al solito altri problemi con le genti del luogo, i nubiani, soprattutto con i loro capi, che cambiavano umore dal mattino alla sera.
C’è un altro episodio divertente avvenuto con uno dei capi delle genti del posto. Una sera, dopo cena, questo nubiano si avvicinò a Giovanni in cerca di un incontro segreto. Il grande mistero si svelò subito: il capo aveva visto lo straniero bere un liquore rosso da una bottiglia e, avendo saputo che si trattava di vino, ne desiderava un po’. Aveva sentito dire che il vino inglese era superiore a quello locale di datteri, ma voleva berlo di nascosto, forse per timore di violare le norme musulmane sull’alcol. Giovanni aveva con sé poche bottiglie risparmiate dal viaggio. Quando il vino fu versato, il capo nubiano, cauto, impose all’interprete di Giovanni di berne un sorso per primo. Perché non si fidava. L’interprete, un copto (un cristiano egiziano) con un passato nell’esercito francese, non si fece pregare, e la sua evidente gioia nel bere convinse il capo della bontà del vino, che non esitò a bere il secondo bicchiere. In tre giorni, la piccola scorta di vino era quasi finita, con grande rammarico di Giovanni, che aveva sperperato le sue riserve per soddisfare la sete del capo. Altri bellissimi dettagli, questi, che testimoniano un incontro tra mondi diversi.
Dopo un’immane fatica e un lavoro di scavo protrattosi per molti giorni, la squadra riuscì a liberare un varco sufficiente tra la sabbia per poter accedere all’interno del tempio. Giovanni Battista Belzoni divenne il primo europeo dei tempi moderni a entrare nel tempio di Abu Simbel.
La Scoperta della Tomba di Seti I e l’Ultima Missione dell’Avventuriero
I capi nubiani, a questo punto, non persero tempo. Arrivarono coi loro uomini, pretendendo che tutto ciò che si trovasse all’interno del tempio sepolto fosse di loro proprietà. Si aspettavano un tesoro strepitoso, ma siccome non vi era alcun tesoro visibile, e gli europei ci tenevano tanto a quelle pietre antiche, i nubiani cominciarono a credere che il tesoro fosse nascosto all’interno delle pietre stesse: statue, obelischi, eccetera. Non comprendevano il valore del patrimonio storico, per loro erano solo sassi scolpiti. Alcuni nubiani suggerirono perfino di rompere qualsiasi statua scoperta, per controllare che non contenesse nulla.
La tensione crebbe. Mentre gli uomini lavoravano, due di loro lasciarono lo scavo e si diressero verso la barca per saccheggiarla. Ma a bordo trovarono la signora Belzoni, che aveva sposato quel matto di Padova alto due metri e figuriamoci se era una donna senza pelo sullo stomaco. I due tentarono di salire a bordo, ma la signora Belzoni li bloccò puntandogli contro una pistola. E l’ammutinamento terminò così.
Potrei continuare ancora per ore. La vita di Giovanni Battista Belzoni, narrata da lui stesso nel suo libro, è davvero straordinaria, ricca di vicende avventurose ed episodi incredibili. E pure le scoperte non finirono con Abu Simbel. Belzoni ne fece molte altre e pure più celebri, come la tomba di Seti I nella valle dei Re, padre di Ramesse II, una delle scoperte più grandiose dell’intero Egitto.
Tornò pure a Padova, dopo le sue avventure. E fu accolto come un eroe. In ogni corte europea lo accolsero come un trionfatore. Persino lo zar Alessandro I lo invitò a San Pietroburgo, omaggiandolo di un anello intarsiato con un topazio prezioso. Ma lui, come ben sappiamo, non riusciva proprio a star fermo. E come sempre accade in queste belle storie, prima o poi la corda dopo che viene tirata a lungo, si strappa.
La sua ultima missione riguardava un’altra grande e leggendaria meta: Timbuctù. Giovanni Battista Belzoni voleva trovare le sorgenti del fiume Niger, laddove molti altri avventurieri avevano fallito. A pochi chilometri dall’obiettivo, però, il 3 dicembre 1823, fu stroncato da una dissenteria e morì in un porto fluviale della Nigeria. Il suo compagno di viaggio lo fece seppellire ai piedi di un albero, da qualche parte. E la sua avventura finì così.
Ma voglio lasciarvi con un’immagine più poetica, per concludere questo nostro viaggio. Voglio raccontarvi di quando calava la notte tra i siti archeologici di Luxor. Giovanni amava alloggiare con le genti locali, le quali abitavano letteralmente nelle tombe degli antichi egizi.
Queste famiglie, ci racconta l’archeologo nel suo libro, vivevano nei passaggi delle antiche sepolture, sottoterra. Per questi uomini delle caverne, sedersi accanto a teschi e mani mummificate era normale quanto sedersi sulla pelle di un vitello. E, in fondo, anche a Giovanni piaceva stare là sotto. Illuminato da una lampada a olio, sedeva su una stuoia a parlare degli ultimi ritrovamenti di antichità, magari con sua moglie, chi lo sa.
Perché si può trovar pace in un sepolcro come in qualsiasi altro luogo. E forse anche di più.
Io vi ringrazio di avermi fatto compagnia tra le tombe degli antichi faraoni, all’ombra del gigante Giovanni Battista Belzoni, che pistola alla mano ci ha regalato una storia davvero appassionante. Se vi è piaciuta, mi raccomando iscrivetevi alla newsletter per restare aggiornati sui nuovi articoli, perché ci sono moltissime altre storie che meritano di essere conosciute.
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