Costretta a Bere dal Teschio: Rosmunda contro Alboino

Rosmunda, costretta a bere dal teschio di suo padre dal re Alboino, giura vendetta.
Immaginate la scena: il re longobardo siede sul trono durante il banchetto, nel salone. I suoi guerrieri sono tutti lì con lui a mangiare e pure la moglie, la regina. Il sovrano prende una strana coppa piena di vino, che sgronda liquido color rubino, e la porge alla moglie. Non è una coppa di metallo, ma d’osso. Si tratta di un teschio umano. La regina inorridisce. La sola vista di quell’oggetto orribile la fa star male. Ma il crudele re le ordina di bere, e lei è costretta a farlo. Il disgusto, però, lascia subito il posto alla rabbia. La regina è furiosa, dentro di sé giura vendetta. Perché quello non è un teschio qualunque: quello è il teschio di suo padre.
Questa, signore e signori masnadieri, è la storia di Alboino e di Rosmunda. Una storia longobarda di orrore e vendetta. E io un incipit così potente sono strafelice di poterlo raccontare in Leggende Affilate, di sicuro nella top 10 degli incipit più potenti della storia medievale.
L’autore di questa meraviglia è Paolo Diacono, vissuto nell’VIII secolo, che ci ha regalato la “Storia dei Longobardi”1, l’opera principale per scoprire le origini tra verità e leggenda di questo popolo che a un certo punto dell’alto medioevo ha deciso di passare da noi, in Italia, e pigliarsi tutto quanto. Una storia che lui, l’autore, giura “in nome di Cristo” esser vera, perché lui stesso ha visto la coppa ricavata da un teschio, secoli dopo, mostratagli come cimelio dei “bei tempi andati”, quando si beveva dai teschi dei nemici uccisi in battaglia e c’erano ancora le mezze stagioni.
Insomma, di carne al fuoco ce n’è tanta, direi di incominciare questa storia dall’inizio, ovvero dalla discesa di questo re longobardo in Italia. Un’Italia che non aveva modo di difendersi, perché stremata. Siamo nel VI secolo, l’Impero Romano d’Occidente è caduto ormai da circa cento anni, ma ora dirò una cosa che a molti suonerà strana: dopo il crollo dell’impero romano i romani c’erano ancora. Quando studiamo la storia siamo abituati a mettere un punto fermo sull’anno 476, ovvero il crollo dell’Impero Romano d’Occidente. E immaginiamo che l’impero scomparve in quella data. Ovviamente non fu così. Dopo il 476, nonostante fosse stato deposto formalmente l’ultimo imperatore, e al suo posto si era seduto un barbaro, ecco l’eredità romana continuò a esistere in parte anche al livello amministrativo in svariate città, e pure istituzionale. In molte aree d’Italia si applicavano tasse, leggi, c’erano i magistrati e il diritto romano. Per la popolazione, per la vita quotidiana, tra l’anno 476 e il 477 non cambiò un bel niente. E la cosa andò avanti per decenni, fin quando i romani d’oriente non riconquistarono l’Italia tutta insieme per ricostruire l’antico impero romano. Ma tale campagna militare diede il colpo di grazia, una guerra devastante che si unì alle carestie, alle pestilenze, ed era tutto un disastro.
Ed ecco che in quel preciso momento arrivarono i longobardi. Cominciarono a calare in Italia marciando lungo le antiche vie romane, a quel punto non c’era nessuno che potesse fermarli. Anche perché il loro sovrano, il capo-guerra dei longobardi, era perfettamente in grado di capire e sfruttare il momento storico. Una figura leggendaria: Alboino.
Lui era già celebre per le sue imprese di guerra, la sua forza e anche la sua intelligenza. L’uomo perfetto per la difficile impresa: conquistare l’Italia. Ma, come ci racconta Diacono, quelli erano tempi duri, e i nemici si nascondevano dietro ogni angolo, anche tra i cosiddetti barbari, che non mancavano di farsi la guerra tra loro. Nello specifico, una delle infinite popolazioni che si erano fatte avanti per banchettare sulla carcassa di Roma, adesso si frapponeva tra Alboino e il suo obiettivo. Si trattava di Cunimondo, re dei Gepidi.
I Gepidi erano un popolo germanico, parte del grande gruppo dei Goti. La loro impresa principale fu quella di aver sconfitto definitivamente gli Unni. Si dice che dopo la morte di Attila furono i Gepidi a cacciare via gli unni, per sempre. Il loro regno si trovava in Pannonia, una regione tra l’odierna Ungheria, i Balcani e l’Austria, e con i longobardi ebbero modo di incrociare le lame, più volte. Vecchia tradizione che Cunimondo voleva riportare in vita.
Tra i Gepidi e i Longobardi, quindi, scoppiò la guerra. Alboino, che non era un semplice guerriero ma un grande capo che comprendeva perfettamente i principi di politica estera, prima di scendere in battaglia si assicurò l’alleanza di un altro popolo guerriero che bazzicava i dintorni: gli Avari. Erano cavalieri nomadi, temibili e rapidissimi, giunti dall’Oriente con una violenza inaudita. A volte venivano confusi e chiamati persino Unni, a causa della loro origine e delle loro tattiche. E la cosa suona ancora più affascinante, perché sembra fatta apposta: Alboino si schierò in battaglia con alleati simili a quegli unni che i Gepidi erano riusciti a sconfiggere in passato, ma chissà se ci sarebbero riusciti di nuovo.
Giunse il giorno della grande battaglia. Alboino mosse provocò gli avversari in campo aperto, e mentre l’esercito dei Gepidi avanzava compatto, guidato da Cunimondo e ignaro del tradimento imminente, la notizia giunse come un fulmine a ciel sereno. Un messaggero, col volto scavato dalla fatica e dal terrore, raggiunse il re per annunciargli che gli Avari, avevano invaso la Pannonia.
Cunimondo capì la mossa di Alboino. Ma era troppo tardi. Ormai era prigioniero di una scelta angosciosa e tremenda, con il suo esercito stretto tra due fuochi. Tornare indietro a proteggere il regno, o affrontare subito i longobardi? Re Cunimondo fece la sua scelta.
Esortò i suoi guerrieri con voce ferma: «Prima sconfiggiamo i Longobardi! Se riusciremo in questa impresa, se la vittoria sarà nostra, allora e solo allora potremo scacciare dalla nostra terra l’esercito dei cavalieri nomadi!».
La battaglia incominciò. Si combatté con una violenza mai vista. I Longobardi, spinti da una furia quasi mitologica, attaccarono con ogni uomo. Il re Longobardo, Alboino, cercò e trovò il suo rivale, Cunimondo, re dei Gepidi. I due sovrani combatterono un duello come gli eroi dell’antichità epica, soli, di fronte agli interi eserciti. Nello titanico scontro, a trionfare fu proprio Alboino. Un trionfo che si trasformò in massacro. Cunimondo fu ucciso. I guerrieri Longobardi non ebbero pietà sui Gepidi e li sterminarono. Di un popolo intero, appena pochi uomini riuscirono a salvarsi. Lasciati in vita per portare in giro la notizia di quella distruzione. Per dire a tutti che i longobardi avevano vinto e guai a far girare loro i coglioni.
Ma l’orrore non finì qui. Per celebrare la sua vittoria, Alboino staccò la testa a Cunimondo. Poi trasformò il cranio in un calice, un macabro bicchiere per bere il vino. Un gesto che testimonia la dominazione completa, perché il re dei Longobardi avrebbe potuto bere dal cranio del sovrano nemico assorbendone il potere in maniera simbolica e, chi lo sa, anche magico-rituale. Perché questa orrida usanza la ritroviamo in certe fonti antiche, presso certe popolazioni. E vi è pure qualche reperto archeologico che farebbe pensare che questa tradizione fosse esistita davvero.
Torneremo a brevissimo sulla coppa ricavata dal teschio umano. Adesso bisogna parlare del personaggio che forse è il vero protagonista di questa storia: Rosmunda.
Tra i prigionieri di guerra, alla sconfitta dei Gepidi, c’era Rosmunda, la principessa, figlia di Cunimondo. Una donna di alto lignaggio divenuta schiava e bottino di guerra. Alboino la prese in moglie, dato che la sua prima sposa, Clotsuinda, era morta. Sposare la principessa nemica era un ulteriore modo per consolidare il suo potere. Tuttavia, questa unione si rivelò l’inizio della rovina di Alboino, sotto forma di una vendetta che si sarebbe compiuta in modo terribile.
Quella battaglia portò ai Longobardi un bottino immenso. Le ricchezze accumulate furono vastissime. La stirpe dei Gepidi, invece, fu spezzata per sempre. Da quel giorno, non ebbero più un re. I sopravvissuti subirono un destino crudele. Molti furono assoggettati dai Longobardi. Altri finirono assorbiti da altre popolazioni.
Insomma, Alboino sedeva vittorioso sul suo trono, nella grande sala del banchetto, con tutti i guerrieri che bevevano e festeggiavano, di fianco alla sua nuova moglie strappata al nemico. Ed ecco che torniamo alla scena macabra dell’inizio. La scena si svolge a Verona, una Verona splendida, tra le città che più di tutte avevano conservato la loro identità romana. Anche con la magnifica arena.
Quella notte i longobardi erano allegri, probabilmente avvinazzati, e pure il loro sovrano lo era. Una notte sfrenata, forse anche troppo. Ad un tratto, Alboino volle compiere un gesto che ricalcava le antiche e orride tradizioni. Ordinò che alla Regina Rosmunda fosse servito da bere. Ma non in un calice qualsiasi. Il vino le fu versato nella coppa ricavata dal cranio di suo padre, Re Cunimondo, un gesto che esprimeva il trionfo più brutale e una pubblica umiliazione.
La regina bevve. Ma in cuor suo non era spaventata. Lei era furente. Rosmunda non poteva accettare tale offesa e giurò a sé stessa di vendicare il padre. Per compiere un regicidio aveva bisogno di complici. Trovò subito un alleato in Elmichi, l’uomo più vicino al Re. Elmichi era lo scudiero personale di Alboino, ed era anche suo fratello di latte, cresciuto con lui. Allattato dalla stessa balia. Vi era un legame profondo, tra i due, simbolico. Rosmunda ed Elmichi divennero amanti. Ma da soli non potevano fare granché, avevano bisogno di alleati.
Decisero di coinvolgere Peredeo, un guerriero noto per la sua forza. Avevano bisogno di lui per abbattere il potente Alboino. Ma Peredeo si oppose, rifiutando di macchiarsi di un crimine così sacrilego. La Regina, disperata, ricorse all’inganno. Una notte, Rosmunda prese segretamente il posto nel letto di una sua ancella, la schiava di cui Peredeo era innamorato e con cui aveva una relazione. Peredeo, ignaro, fece all’amore con la Regina nell’oscurità credendo di essere con l’ancella.
Quando l’atto fu compiuto, Rosmunda rivelò la sua identità. “Non sono chi credevi,” disse. Peredeo si rese conto della gravità della sua azione. La Regina non gli lasciava via d’uscita. “Hai commesso un’azione tale che ti condanna: ora, o uccidi tu Re Alboino, o lui ucciderà te con la sua spada.” Trovandosi intrappolato nel ricatto, e costretto a scegliere tra la sua vita e quella del Re, Peredeo non poté fare altro che acconsentire al piano per assassinare Alboino. L’omicidio era ormai inevitabile.
Dunque, Rosmunda aveva un piano terribile contro suo marito, il re. Diede un ordine specifico a palazzo: nessuno doveva fare rumore. Il silenzio doveva essere assoluto. Così il re avrebbe potuto addormentarsi in maniera più rapida. E anche perché è nel silenzio che si compiono gli atti più efferati, l’atmosfera migliore per questa vendetta dal sapore rituale. Poi, per assicurarsi che il re fosse indifeso, Rosmunda prese la spada di Alboino e la legò in modo strettissimo nel fodero. E la rimise al suo posto, dove la teneva di solito, vicino al letto.
A quel punto, non appena il re si ritirò nella sua stanza per dormire, Rosmunda mise in atto la sua vendetta: mandò avanti Peredeo, l’uomo scelto per compiere l’omicidio. Peredeo era pronto, feroce come un animale.
Alboino, però, si svegliò. Capì subito il pericolo mortale che incombeva su di lui e allungò la mano verso la spada. Ma non riuscì a tirarla fuori: Rosmunda l’aveva legata troppo bene.
Disarmato, afferrò uno sgabello e tentò di difendersi. Ma Peredeo era armato col ferro, e non c’era modo di difendersi da un tale guerriero. Il destino era segnato. Il sovrano, un guerriero di immenso valore e coraggio estremo, fu ucciso brutalmente quando era inerme, per vendetta di una donna, sua moglie, la regina Rosmnuda.
Dopo aver eliminato il re Alboino, Rosmunda voleva fare di più: prendersi il trono dei Longobardi. Così la vendetta sarebbe stata totale, riportando di nuovo la casata dei Gepidi a regnare. Sposò Elmichi, il traditore, e tentò di arrivare alla corona. Ma la cosa non andò come sperava. I Longobardi erano furiosi per la morte del loro re e non vedevano l’ora di fargliela pagare. Capendo che la situazione si stava mettendo male, Elmichi e Rosmunda uniti in matrimonio e nel regicidio decisero di scappare.
Rosmunda, la cui mente era sempre al lavoro, si mise subito in contatto con il governatore bizantino di Ravenna. Perché come ho detto prima, l’Italia di quel tempo era divisa da diverse potenze, tra cui vi erano ancora “tecnicamente” i romani.
Il governatore, che si chiamava Longino, fu subito felice di accogliere la coppia di assassini, perché avevano gettato gli avversari longobardi nel caos, facendo un favore ai bizantini. Inoltre, dice l’autore che Elmichi e Rosmunda nella fuga portarono via la giovanissima figlia del re assassinato, e, cosa fondamentale, l’intero tesoro dei Longobardi. Arrivarono di corsa a Ravenna, mettendosi sotto la protezione bizantina. Ma la tragedia non finisce qui. Longino, il prefetto, iniziò a tramare per convincere Rosmunda a eliminare anche Elmichi, in modo da poterla sposare lui stesso. E Rosmunda, che a quel punto ormai aveva come abbracciato il lato oscuro e non si faceva problemi con nessun tipo di infamia, accettò. Lei voleva salvare la sua stirpe reale, la stirpe del padre, di quei Gepidi sterminati in battaglia da Alboino, e voleva farlo a qualsiasi costo. Diventare regina dei longobardi o signora di Ravenna era uguale per lei. Così, pianificò il suo ultimo, tremendo inganno.
Un giorno, mentre Elmichi era in bagno – un momento di vulnerabilità – Rosmunda gli porse una coppa, dicendogli che conteneva una medicina. Di nuovo il simbolo della coppa, dell’invito a bere, l’ennesimo rito simbolico, quasi magico. In realtà, come possiamo immaginare, la coppa era piena di veleno.
Appena bevve, Elmichi capì che era spacciato. Rosmunda l’aveva tradito. In un ultimo, disperato gesto, Elmichi sguainò la spada e la puntò verso sua moglie. Ma invece di ucciderla, la costrinse a bere ciò che restava del veleno nella coppa.
E fu così che, in un epilogo degno di una tragedia shakespeariana, i due assassini morirono nello stesso istante, vittime della loro ambizione e del loro veleno.
Questa narrazione, come al solito, presenta delle chiare inesattezze. Accade sempre con le fonti originali, voi che seguite gli episodi di Leggende Affilate lo sapete bene. Perché nei documenti storici l’accuratezza passa in secondo piano rispetto all’esaltazione dell’eroismo e del dramma.
E infatti, è proprio grazie a questo racconto avvincente, che Rosmunda e Alboino diventano personaggi indimenticabili della storia. E io sono più che contento di averli portati.
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- Historia Langobardorum ↩
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