5 Miti che hanno Sconvolto il Medioevo

Scopri 5 miti medievali assurdi: dal cavaliere Neri da Leccaterra che sfidò la Vergine, ai duelli tra Almogavari e demoni servitori
Se pensate che il Medioevo fosse solo cavalieri, cattedrali e crociate, preparatevi a cambiare idea! Le cronache dell’epoca sono piene di storie assurde e incredibili, tanto epiche da far sembrare i fumetti Marvel una lettura noiosa.
In questo articolo, ci addentreremo nelle pagine più oscure e affascinanti della storia per svelare 5 miti che hanno sconvolto il Medioevo.
- Il sanguinario cavaliere, Neri da Leccaterra, che osò sfidare la Vergine Maria in duello e ne pagò il prezzo con la lancia di San Mercurio.
- Vi immergerete nell’epica e romantica (ma sanguinosa) disputa per un misterioso stemma tra due grandi cavalieri della Guerra dei Cent’Anni, Chandos e Clermont.
- Rimarrete a bocca aperta davanti alla storia dell’Almogavaro “straccione” che umiliò un intero corpo di cavalieri francesi in un duello che valse dieci prigionieri.
- Capirete perché un demone fedele e proattivo sia stato il miglior servitore che un cavaliere potesse desiderare, grazie alle storie di Cesario di Heisterbach.
- Infine, salperemo con Alfhild, la leggendaria principessa guerriera vichinga, che preferì la carriera da pirata al matrimonio combinato.
Preparatevi per un viaggio nelle Cronache più Assurde del passato, le stesse che hanno fatto da base per il primo episodio dal vivo di Leggende Affilate, il Raduno degli Eroi di sabato 1 novembre 2025!
La lancia di Mercurio
Anno Domini 1285. Durante l’assalto a un castello, uno dei cavalieri che sta assediando la fortezza riesce a entrare. Sfonda la porta della chiesa e varca la soglia sacra, impugnando la lancia sporca di sangue che fino a quel momento aveva vibrato in battaglia. Il sangue sgocciola per terra, sul suolo consacrato che non dovrebbe mai vedere gli orrori della guerra. Si tratta di sacrilegio. Ma il cavaliere se ne frega. Accende la fiaccola, pronto a bruciare tutto, e lancia una sfida nientemeno che alla Vergine. “Difenditi, Santa Maria, se ne sei capace!”
La Vergine, cui era dedicata la chiesa, si manifestò sul suolo consacrato, e lo fece armata di lancia. Pronta a difendersi eccome.
Questa, signore e signori masnadieri è la storia di un cavaliere, Neri da Leccaterra, e del suo duello contro la Vergine. Sembra un film da supereroi Marvel e invece proviene dalla cronaca italiana scritta da Salimbene de Adam, nel XIII secolo1. Una cronaca, e dunque un evento ritenuto realmente accaduto, degno d’essere scritto in un resoconto medievale che sono lieto di portarvi oggi, al primo episodio dal vivo di Leggende Affilate. Per omaggiare la terra che ci ospita in questo Raduno degli Eroi, ovvero l’Emilia Romagna: ho deciso di raccontarvi di un personaggio che potremmo definire un emiliano, e nello specifico un modenese. Ovvero quel sanguinario di Neri da Leccaterra. Chi era Neri da Leccaterra? Vi avverto, non cercatelo su Google che vi appariranno solo risultati a sfondo sessuale. Costui era un modenese, presumibilmente un cavaliere, che nel corso delle faide politiche che dilaniavano l’Italia si trovò esiliato. Fuoriuscito o, meglio, bandito.
Il termine “bandito”, oggigiorno, è sinonimo di “criminale”: ovvero colui che compie reati in maniera organizzata ed è quindi membro di una banda. Per questo, quando pensiamo ai banditi medievali, ci ritornano in mente gli allegri compagni di Robin Hood nascosti nei boschi, che rubavano ai ricchi per dare ai poveri. Qualcuno potrebbe pensare invece ai banditi più cattivi, quelli che rubavano per sé stessi e magari ti tagliavano anche la gola (da lì, il termine tagliagole). La realtà storica, però, presentava una sfumatura concettuale diversa.
I banditi del medioevo italiano erano coloro che venivano espulsi dalla comunità per svariate ragioni, anche politiche: messi al bando, per l’appunto, esiliati. Infatti, era piuttosto comune che al cambio di governo gli sconfitti venissero cacciati dalle loro case (se non uccisi).
Insomma, non sappiamo granché su Neri da Leccaterra. Sappiamo che era stato cacciato da Modena per ragioni politiche, e si trovò a vagare con la propria armata composta da altri banditi (ovvero ex-cittadini) a spasso per il contado, ammazzando e depredando. Finché, nel corso di questa scorreria, il suo obiettivo divenne il castello di Magreta, una fortezza poco distante da Sassuolo, a sud-ovest di Modena. Il cronista dice che fosse una posizione debole e mal difesa, presidiata da pochi uomini, e per questo l’assedio fu breve. I banditi assaltarono le mura e le conquistarono subito.
Tra gli assalitori vi era lui, Neri, definito come un grande un guerriero. Un eroe già conosciuto negli annali modenesi soprattutto per la sua abilità di combattente. Si dice che fosse un maestro di lancia, bravissimo con quel tipo di arma. E anche celebre per la sua violenza, e forse malvagità. Infatti, non appena mise piede dentro il castello, subito si recò alla chiesa, l’edificio sacro dentro le mura dedicato alla Beata Vergine Maria.
Neri sfondò la porta e accese una torcia per dar fuoco a tutto quanto, partendo proprio dalla casa della Vergine. “Ora difenditi tu, Santa Maria, se ne sei capace!” gridò mentre cominciava a dar fuoco alla chiesa. E dietro di lui si facevano avanti gli altri assalitori, i banditi suoi compagni, che ascoltarono le sue parole e furono testimoni di quel che successe subito dopo il grido blasfemo.
Appena Neri pronunciò quelle parole, una lancia comparve nel nulla, in mezzo alla chiesa, e saettò nell’aria avvolta dal fumo delle fiamme, dritta verso Neri. Un colpo potentissimo, che lo colse in pieno petto, gli trapassò la corazza di ferro e si conficcò dritto nel cuore.
Il guerriero cadde a terra, morto. I suoi compagni rimasero esterrefatti. Tutti avevano visto che quella lancia era comparsa nel vuoto ed era stata scagliata da una potenza soprannaturale, divina. Ed era chiaro a tutti chi fosse stato: la stessa Vergine che il loro stupido e blasfemo compagno aveva sfidato, la quale aveva accettato la sfida. Possiamo definirlo tecnicamente un duello. Molto breve e intenso, ma più che valido. Vergine 1, Neri da Leccaterra 0.
Naturalmente la questione fu approfondita, successivamente. Fu chiesto a quei guerrieri di giurare che nessuno di loro avesse colpito Neri per una qualche disputa o litigio, come sarebbe potuto accadere. Ma tutti loro fecero solenne giuramento per testimoniare quel che avevano visto: la lancia era apparsa nel nulla, scagliata da una potenza divina.
Per il cronista, invece, l’entità che aveva scagliato la lancia non era la Vergine, perché non è proprio il massimo associare Maria a un atto di guerra, come quello di brandire un’arma. Per Salimbene, ad aver raccolto la sfida del modenese fu nientemeno che san Mercurio: un martire, ex-soldato romano. Un santo che era visto come protettore della Madonna.
Perché secondo le agiografie, si narra che nella Tarda Antichità, nel 363, la Vergine avesse ordinato a Mercurio di uccidere Giuliano l’Apostata, l’imperatore che aveva tentato di riportare il paganesimo nella Roma ormai cristianizzata. Solo che Mercurio era morto da un bel po’ di tempo, sepolto in una chiesa. Quindi, il santo riemerse dalla tomba, armato con una lancia, e si diresse all’accampamento dove alloggiava l’imperatore, per poi trafiggerlo e vendicare così le sue persecuzioni contro i cristiani.
Ecco perché, nel vedere il loro compagno, Neri, steso a terra sul pavimento della chiesa con una lancia ficcata in petto, i modenesi furono tutti d’accordo. Si era trattata di una punizione. Lui aveva agito in modo blasfemo e ne aveva pagato le conseguenze. Tra l’altro, compiuta con la tipologia di strumento che per lui era sempre stato un vanto: la lancia con cui aveva ucciso innumerevoli avversari. Chi di lancia ferisce…
Disputa stendardi
Siamo in Francia nel 1356. Due gran cavalieri coperti di ferro su destrieri imponenti si fronteggiano, uno di fronte all’altro: un inglese e un francese. Si guardano, stupefatti. Perché nonostante appartengano a due diverse schiere, abitanti di paesi da sempre in guerra tra loro, quei due cavalieri stanno uno di fronte all’altro con lo stesso simbolo araldico: una dama blu ricamata in un raggio di sole. Tutti e due, identici. Lo stesso stemma. E dallo stupore, si passa subito alla rabbia.
- Perché mi hai copiato il simbolo?
- Io? Sei tu che m’hai copiato!
Siamo nel corso della Guerra dei Cent’anni, un’epoca segnata da aspri conflitti tra Francia e Inghilterra. Nello specifico, la vicenda si svolge durante una tregua temporanea tra le due armate. Perché a dispetto del nome, quel periodo medievale non è stato una guerra continua e spietata per cento anni, ma ogni tanto ci si fermava per tirare il fiato.
Ci racconta il cronista francese Jean Froissart2, la principale fonte per gli eventi della Guerra dei Cent’Anni, che durante questa tregua alcuni cavalieri di entrambe le fazioni decisero di sfruttare l’occasione per uscire dai rispettivi accampamenti. Il loro scopo era cavalcare lungo i confini delle zone nemiche per osservare, spiare gli avversari.
Fu così che, per puro caso del destino, si ritrovarono faccia a faccia due cavalieri importanti: Sir John Chandos per gli inglesi e Jean de Clermont, uno dei marescialli di Francia. I marescialli di Francia erano gran signori d’alto lignaggio che comandavano porzioni importanti di armata. In sostanza, questi era due cavalieri importanti.
Non appena si ritrovarono, uno di fronte all’altro, i due si paralizzarono subito. Perché portavano lo stesso simbolo araldico. Ma non un simbolo comune, con colori comuni, come la croce ad esempio, presente in innumerevoli stendardi di diversi paesi e feudi. Il loro simbolo era molto specifico, e assolutamente identico: una dama blu ricamata in un raggio di sole, che entrambi portavano sul braccio sinistro.
Ora, tanto per chiarirci, tale emblema non era lo stemma individuale, né tantomeno quello delle loro famiglie. Si trattava di uno stemma che i due avevano adottato in quell’occasione, in quella guerra, sicuramente accompagnato allo stemma famigliare. Gli stemmi avevano un forte valore simbolico, e adottarne uno specifico, che arricchiva o accompagnava lo stemma famigliare, era un modo per crearsi un’identità, o comunicare qualcosa.
Per fare un esempio concreto, prendiamo proprio questa dama blu? Chi era? L’interpretazione più semplice, che si lega anche all’episodio del modenese che dissacrò la chiesa, vuole che tale dama sia, ovviamente, la Vergine Maria, illuminata da un raggio di sole, ovvero la benedizione divina.
Simboli del genere erano comuni, a cominciare dal più immediato, ovvero la croce, per finire a figure elaborate come la Madonna, o vari santi e sante. I cavalieri potevano portare in battaglia immagini sacre, anche abbastanza pacchiane, per devozione, protezione spirituale. Ma, attenzione, c’è un’altra interpretazione ancora più piccante dell’avvenimento.
Qualcuno dice che i due fossero innamorati di una dama, e da perfetto costume cavalleresco avevano deciso di andare in guerra portandone l’immagine, come una sorta di voto a comportarsi eroicamente, in virtù dell’amore che li spingeva a compiere grandi imprese. Il fatto, che entrambi avessero la stessa immagine, sottintende che quella potrebbe essere stata la stessa donna. Sebbene Froissart non lo specifichi chiaramente, che i due amassero la stessa donna, la situazione restava comunque spiacevole, imbarazzante e umiliante. Immaginate d’essere un cavaliere che scende in guerra con l’immagine della propria amata e poi, dall’altro lato, trova la stessa immagine portata da un cavaliere nemico. Il dubbio viene, eccome.
Questa interpretazione, sicuramente più divertente, si basa sulla rabbia con cui i due cavalieri affrontarono la discussione.
Cominciò per primo il signore di Clermont: «Chandos, da quanto tempo hai deciso di adottare il mio simbolo?»
Chandos non si tirò indietro: «No, sei tu che stai portando il mio! È tanto mio quanto tuo!»
«Non sono d’accordo,» ribatté Clermont. «Se non fosse per la tregua in vigore oggi, ti sfiderei seduta stante per dimostrarti che non hai alcun diritto di usare il mio blasone.»
La risposta di Chandos arrivò senza esitazione: «Ah, signore, mi troverai pronto domani a difendere il mio onore e a dimostrare, con un fatto d’arme, che il simbolo è tanto mio quanto tuo!»
«Chandos, queste sono proprio le parole di voi inglesi: non siete capaci di inventare nulla di nuovo, ma copiate solo ciò che vedete di bello e di buono!»
Dopo questo scambio infuocato, i due si separarono senza ulteriori scontri e tornarono ai loro rispettivi eserciti. La tregua era ormai agli sgoccioli, e di lì a poco si sarebbe combattuta una battaglia furiosa, tra le più celebri della Guerra dei Cent’anni: Poitiers.
La battaglia incominciò. In mezzo al caos, il cavaliere francese, Jean de Clermont combatteva con il coraggio di un leone. Guidava i suoi uomini sotto il simbolo della dama blu, e lottò con ogni fibra del suo corpo per riportare la vittoria. Ma il destino gli fu avverso. Nella mischia, Clermont venne disarcionato e atterrato. E, nonostante fosse un gran signore, di quelli che valevano una fortuna se presi prigionieri e poi rivenduti dietro riscatto, quel giorno, i soldi passarono in secondo piano. Jean de Clermont fu ucciso senza pietà sul campo.
Perché tanta brutalità per un nobile? E’ lo stesso cronista a suggerirci il motivo. Secondo Froissart, la morte di Clermont era collegata al litigio con Chandos, prima della battaglia. E la loro disputa per il simbolo della dama blu si era conclusa sul campo di battaglia, proprio come avevano promesso. Un epilogo sanguinoso, forse a causa di una rivalità romantica. Proprio come nei romanzi di Artù, Ginevra e Lancillotto.
Straccione VS Cavaliere
Torniamo in Italia, alla fine del Duecento. Una piccola compagnia di mercenari viene attaccata da cavalieri francesi, e dispersa. Un solo mercenario non riesce a scappare, e viene catturato. Costui è uno degli almogavari, che combattevano per gli aragonesi di Spagna. Mercenari all’apparenza umili, noti per la ferocia e la tattica della guerriglia. Venivano chiamati Diavoli, da quanto erano spietati. I cavalieri francesi, coperti di ferro scintillante, nobili e cavallereschi, lo ritenevano un disgraziato qualsiasi, a vederlo quasi uno straccione.
“Sarò pure uno straccione” disse l’almogavaro, “Ma se mi fate duellare col vostro migliore cavaliere sarò di certo io a vincere.”
E i francesi, deliziati all’idea, accolsero la sfida.
Quella che vi sto per raccontare è una storia epica, pescata direttamente da una cronaca medievale, la Crònica di Bernat Desclot3, e ci porta nel cuore del conflitto tra gli Aragonesi e i Francesi. L’ambientazione è Italia meridionale, tra Calabria e Sicilia, dove gli scontri sono all’ordine del giorno. Le due casate europee si affrontavano per il dominio del Sud Italia, utilizzando la Calabria come campo di battaglia principale tra le basi aragonesi in Sicilia e il cuore del potere angioino a Napoli.
Un giorno, una piccola compagnia di Almogavari si scontra con dei Francesi e, essendo in minoranza, fugge verso i monti. Uno solo non riesce a scappare e viene catturato. I Francesi sono troppo curiosi per ucciderlo sul posto e lo portano vivo davanti al loro comandante angioino.
Il comandante lo osserva e rimane allibito. L’uomo è un’immagine della guerra a cui non è abituato: una tunica semplice, barba incolta, capelli lunghi e scuri, un cappello di cuoio a pezzi. È magro, con la faccia bruciata dal sole e dalla fatica, protetto solo da semplici gambali di cuoio.
“Chi sei, tu?” chiede il comandante meravigliato dalla sua miseria.
“Un Almogavaro, al servizio del Re d’Aragona,” risponde il prigioniero con fierezza.
“In fede mia,” esclama il Principe, “non capisco quale coraggio possiate avere. Siete gente selvaggia, povera e miserabile!”
“Io sarò pure l’ultimo tra i miei, ma se c’è qui un vostro cavaliere, uno dei vostri migliori, io lo sfido a duello. Lui sarà a cavallo, tutto armato. A me dovete solo restituire la mia lancia, il mio giavellotto e la mia coltella. Se vinco io, me ne vado libero. Se vince lui, mi uccida pure!”
Con simili premesse, il comandante è costretto ad accettare. Perché in ballo c’era l’onore dei suoi cavalieri, della sua gente. Se l’avessero giustiziato, sarebbero passati come dei codardi che hanno rifiutato la sfida.
Un giovane cavaliere francese, forte e robusto, si fa avanti per accettare il duello. Si arma di tutto punto, con l’armatura completa, sella il suo destriero e si prepara allo scontro. All’almogavaro vengono riconsegnate le sue semplici armi.
La folla di soldati si accalca per assistere. Il cavaliere francese parte al galoppo, lancia in resta, puntando a travolgere il fante. Ma l’Almogavaro sa bene cosa fare. Aspetta il momento giusto e scaglia il suo giavellotto, un’arma leggera ma micidiale. Il dardo si conficca nel petto del cavallo, che crolla di colpo a terra. Nello stesso istante, l’Almogavaro fa un salto laterale, evitando la carica del cavaliere.
Questa era la tattica principale degli almogavari. Mercenari spietati, che usavano scagliare giavellotti contro i destrieri dei nemici poiché sapevano bene che, una volta gettato a terra, qualunque cavaliere diventava vulnerabile, per quanto corazzato.
Il cavaliere finisce a terra, intrappolato sotto l’animale. L’Almogavaro gli va addosso, con la sua coltella in pugno. Gli slaccia l’elmo, e carica il colpo, pronto a finirlo.
Ma il comandante interviene di corsa. “Basta! Hai vinto!” grida, fermando l’esecuzione.
Il comandante, ammirato da tanto valore, porta l’Almogavaro alla sua tenda, gli dona una veste nuova e lo lascia libero di tornare indietro, sano e salvo.
Tornato a Messina, l’Almogavaro racconta tutto al suo sovrano, il re Pietro d’Aragona. Il re è entusiasta, e decide di rispondere con una mossa geniale: prende dieci prigionieri francesi che aveva catturato, li veste con abiti sontuosi, e li rimanda al comandante angioino con un messaggio sfacciato: “Ogni volta che tu mi restituirai uno dei miei uomini, io te ne restituirò dieci.”
Perché tale era il giusto valore di un singolo stracciono almogavaro: ovvero dieci gran cavalieri.
Il Cavaliere servito da un demone
Si narra di un cavaliere che aveva bisogno di un rimedio per curare la moglie. Costui chiese al suo fedele servitore di occuparsene: un compagno di mille avventure che stava al suo fianco da sempre. Il servitore andò via e tornò poco dopo con un recipiente pieno di latte. “Cos’è questo?” chiese il cavaliere. “Latte di leonessa. L’ho preso sulle montagne dell’Arabia.” Il cavaliere era confuso. “E come avresti fatto ad andare in Arabia e tornare in così poco tempo?”
“Sono un demone, uno di quelli caduti con Lucifero.”
Con questo racconto andiamo nella Germania del XII secolo, grazie alle parole di una vecchia conoscenza di Leggende Affilate, l’eccellentissimo Cesario di Heisterbach4. Abate cistercense che ci ha regalato un’ampia serie di exempla dottrinali, ovvero di storie dalla morale cristiana, per indottrinarci tutti, per farci catechismo. E lo fa piuttosto bene perché queste storie sono tutte molto avventurose.
Il protagonista è un cavaliere, che aveva come servo un rispettabile giovane. Un ragazzo così diligente e rispettoso, così fedele e volenteroso, che il cavaliere ne era compiaciuto oltre ogni aspettativa. Non era mai accaduto che il cavaliere fosse salito o sceso dal cavallo, senza trovarlo sempre pronto a reggergli la staffa in ginocchio. E poi era anche sempre allegro, discreto, proattivo. Insomma, l’impiegato perfetto, quello che tutti cercano.
Un giorno, raggiungono la riva di un fiume maestoso. Sono in fuga. Il cavaliere, gettando uno sguardo indietro, vede la polvere sollevarsi: i suoi nemici sono vicinissimi. La situazione è disperata: davanti il fiume, un ostacolo insormontabile, e alle spalle la minaccia di essere ucciso o catturato.
È in questo momento che il servitore si fa avanti con una tranquillità glaciale. “Non temete, Signore, conosco un guado in questo fiume.” Il cavaliere è scettico, perché si sapeva che in quel punto il fiume era impraticabile. Eppure, riescono ad attraversare e a mettersi in salvo.
I nemici, quando arrivano sulla sponda, sono atterriti. Non c’era guado in quel punto, era una cosa risaputa. L’unico modo per attraversare, pensano, era avere un aiuto soprannaturale, “nessuno tranne il diavolo, ce l’avrebbe mai fatta.” E se ne tornano a casa pieni di paura.
Il tempo passa, e una terribile disgrazia colpisce il cavaliere. Sua moglie si ammala gravemente, una malattia mortale contro cui i medici non possono nulla. Ed ecco che il servitore si rifà vivo. L’unica cura possibile, spiega, è ungere la donna con il latte di una leonessa. Una cosa assurda, un rimedio mitico. “Dove trovarlo?” chiede il cavaliere, incredulo. “Lo procurerò io,” risponde l’altro, e sparisce.
Pochissimo tempo dopo, nella stessa giornata, è di ritorno con un recipiente pieno di quel latte. La donna viene unta e guarisce all’istante, riacquistando tutte le sue forze. Il cavaliere non può più trattenersi. Chiede al suo servitore come abbia fatto a compiere un’impresa simile in un tempo così breve. Viaggiando, raggiungendo l’Arabia, entrando nella grotta di una leonessa, scacciando i cuccioli, mungendo la fiera e tornando indietro.
Il mistero si fa insopportabile. “Chi sei, in realtà?” chiede il cavaliere, sconvolto. E il servitore confessa: “Sono un demone. Uno di quelli caduti con Lucifero.”
E qui, il demone vuota il sacco. Lui è uno degli angeli ribellati a Dio, della schiera di Lucifero, che dopo la battaglia nei cieli fu sconfitto e cacciato dal Paradiso. Il cavaliere è più sbalordito che mai. Se è un demone, un essere malvagio per sua stessa natura, perché serve un uomo con tanta fedeltà? Il demone risponde con una frase enigmatica: “La mia più grande consolazione è stare con i figli degli uomini.”
A quel punto, il cavaliere prende la sua decisione: non può più accettare l’aiuto di un essere infernale. Il demone cerca di rassicurarlo: non gli accadrà mai nulla di male per causa sua. Ma il cavaliere è irremovibile. Vuole interrompere quel legame pericoloso, ma non senza esprimere gratitudine. Si dice pronto a ricompensarlo generosamente, anche offrendogli metà dei suoi averi, riconoscendo che l’aiuto del demone lo ha salvato da morte certa al fiume e ha guarito sua moglie. Una fedeltà, quella del demone, che nessun uomo avrebbe potuto eguagliare.
Allora il demone disse: “Dato che non posso più stare con te, non chiedo nulla per il mio servizio tranne che cinque monete d’oro.”
Dopo aver afferrato le monete, il demone le fece scivolare di nuovo nelle mani del cavaliere. “Prendi questo denaro e usalo per comprare una campana. Dovrai appenderla sul tetto di quella vecchia chiesa abbandonata laggiù. Così, il suo suono tornerà a richiamare i fedeli alla messa ogni singola domenica”.
Poi, il demone sparì nel nulla, svanito come un’ombra. Il cavaliere non lo vide mai più. E quindi? Che vuol dire tutto questo?
L’exempla si conclude, come spesso accade, con un finto dialogo tra un novizio, che sta ascoltando la storia, e il monaco che la racconta. Il novizio è stupito del fatto che quel demone abbia agito con bontà. Com’è possibile che esistano demoni “Buoni”? E’ possibile, spiega il monaco, e c’è un motivo ben preciso.
Tutto risale alla prima battaglia tra angeli narrata nel libro dell’Apocalisse, quando alcuni di essi si ribellarono a Dio. Tra gli angeli ribelli vi erano alcuni che nutrivano un orgoglio e un’invidia ferocissimi contro il Creatore, ovvero Lucifero e la sua cerchia più stretta. Tuttavia, la Bibbia racconta che altri angeli si unirono alla ribellione, limitandosi a seguire il gruppo per debolezza o paura. Dopo la battaglia, e dopo che san Michele Arcangelo uccise il drago con la sua spada, tutti gli angeli ribelli caddero, ma tra di loro vi erano anche questi demoni “secondari”, uniti alla ribellione per debolezza, considerati meno malvagi.
Questa visione dottrinale non ci deve suonare strana, perché è affine a molti grandi pensatori e dotti cristiani. Come ad esempio Tommaso d’Aquino (XIII secolo). Tommaso sosteneva che i demoni non sono malvagi per natura (non possunt esse naturaliter mali) poiché, essendo angeli caduti, mantengono la loro natura, l’inclinazione verso il bene universale. La loro malvagità deriva unicamente dalla loro scelta malvagia di peccato e ribellione. Insomma, il Creato, per il solo fatto di esistere, è cosa buona di per sé, dopotutto è stato fatto da Dio.
Ed ecco che, tutto sommato, il cavaliere fece bene a farsi servire e dimostrarsi riconoscente, perché quel demone lì era proprio un bravo ragazzo (e salutava sempre).
Alfhild: la principessa guerriera
Si narra di una principessa, figlia del sovrano dei goti di Svezia, che un bel giorno mollò tutto e s’imbarcò su una nave per cominciare la carriera di pirata. Al suo comando, una ciurma di donne guerriere, che nella mitologia norrena vengono chiamate shield-maiden, ovvero le fanciulle di scudo. Questa è la storia di Alfhild, una vera principessa guerriera.
A narrarci tutto questo è Saxo Grammaticus5, uno storico danese vissuto a cavallo del XII e XIII secolo. Alfhild potrebbe essere definita una vichinga, anche se un po’ in anticipo, visto che la sua storia ha inizio nel V secolo, trecento anni prima della cosiddetta “epoca vichinga”. Però, da quel che scopriremo di questa storia, ci sono molti punti in comune con quei razziatori che navigavano le coste dell’intero Occidente (e pure oltre) per razziare e scannare.
Una storia che inizia nella sala del trono di Siward, re di una tribù gotica in Svezia. Un regno che si colloca in un’epoca storica confusa, ricca di leggende, a ridosso delle grandi migrazioni che sconvolsero l’Europa (i barbari che vennero da nord per dilaniare l’impero romano). Sebbene i dettagli storici siano scarsi e si mescolino alla leggenda, questo di re Siward era un potente nucleo tribale noto per le sue gesta guerriere, lo stesso popolo celebrato nell’epica di Beowulf.
Siward aveva una figlia bellissima, Alfhild. Questa ragazza era talmente ossessionata dalla modestia, il desiderio di non suscitare passioni indesiderate, che teneva il viso costantemente nascosto sotto la veste. Per proteggere la sua virtù, il padre la confinò in una stanza strettissima, e le mise accanto due serpenti, per proteggerla. Inoltre, chiunque avesse osato sbirciare nella stanza, avrebbe subito una fine orribile: decapitato e impalato. Un sistema brutale per tenere a bada i giovani pretendenti focosi.
Ma il pericolo, si sa, non fa che attirare gli eroi. Alf, figlio di un altro sovrano, volle tentare quella sfida così mortale per ottenere la mano di Alfhild. Raggiunse la stanza della principessa protetto da una pelle insanguinata, per provocare le serpi e renderle più frenetiche. Le trafisse con la sua lancia e con un ferro arroventato, colpendole dritte in bocca quando avevano le fauci spalancate.
Alf aveva vinto la sfida. Liberò Alfhild e si diresse da re Siward per reclamarla in sposa. Lei, tutto sommato, era contenta. Perché il giovane eroe le piaceva, e di stare rinchiusa non ne aveva più voglia. Ma re Alfhild, che aveva messo in piedi tutto ciò per non darla in sposa a nessuno, si rifiutò. E poi si mise in mezzo pure la regina, che rimproverò duramente la figlia, Alfhild, accusandola di aver perso la sua modestia, e adesso si sarebbe sposata col primo eroe che passava.
A quel punto, Alfhild si ribellò. Di stare in quella gabbia di matti, dove la rinchiudevano coi serpenti, non ne aveva più voglia. Mandò al Diavolo il padre, la madre e pure il giovane Alf. Scappò via, scambiò i suoi abiti con quelli da uomo e, da un giorno all’altro, divenne una predona guerriera. Radunò altre fanciulle ribelli, simili a lei per la voglia di spaccare tutto, e divenne condottiera di una banda di predoni.
L’autore, Saxo, ci racconta di queste donne, spesso chiamate Skjaldmø (o “donne con lo scudo”) nella mitologia norrena, che si vestivano e si comportavano come uomini. Il motivo? Volevano a tutti i costi evitare che la loro forza e il loro coraggio si “ammorbidissero” a causa del lusso o di una vita troppo comoda. Per loro, una vita facile era una vera e propria malattia che offuscava il valore.
Ecco il punto: aborrivano ogni tipo di vita “delicata”. Passavano il tempo a temprare corpo e spirito con fatiche e resistenza, proprio come i guerrieri più duri. Dicevano addio alla tradizionale “morbidezza” femminile e addestravano il loro animo a una spietatezza che di solito si associava solo agli uomini.
Erano ossessionate dal diventare esperte nell’arte della guerra. Erano talmente immerse in questa vita marziale che, a vederle combattere, si faticava a credere fossero donne. E non erano donne qualsiasi: erano soprattutto quelle che univano una grande forza interiore – un carattere di ferro – a un aspetto fisico imponente.
In pratica, avevano dimenticato il loro ruolo tradizionale. Preferivano la battaglia e l’austerità ai sussurri amorosi. Per queste guerriere, era più importante uno scontro che un bacio. Si occupavano di spade e lance, non di storie d’amore. Quelle mani che per tradizione dovevano usare il telaio per tessere, erano invece strette intorno a una lancia. Anziché sciogliere i cuori degli uomini con uno sguardo, li affrontavano direttamente con le armi. Il loro pensiero fisso era la battaglia e forse la morte onorevole in battaglia, non certo le effusioni affettuose. Erano combattenti fino al midollo. Gli storici dibattono ancora oggi sulla loro esistenza, ma le saghe presentano svariate di queste figure femminili.
Alfhild e le sue donne guerriere razziarono le coste del Mar Baltico e compirono imprese di ogni genere. Ma Alf, l’eroe respinto, non si arrese. Partì per un estenuante inseguimento, alla ricerca della principessa guerriera di cui ormai si era follemente innamorato.
Arrivò fino in Finlandia per trovare la principessa guerriera. Alf e i suoi si imbatterono in uno stretto golfo, ma scoprirono che l’insenatura era presidiata da alcune navi da guerra nemiche[. Navi che si mossero subito per attaccarli. Le navi si scontrarono per dar luogo alle battaglie navali dell’antichità, ovvero una bella mischia da ponte a ponte, per menarsi di spada.
Durante il combattimento, i guerrieri di Alf rimasero sorpresi dall’agilità dei loro sconosciuti e misteriosi nemici. Erano fortissimi, e pure affascinanti. Alf però era mosso dall’amore, non si sarebbe arreso per nulla al mondo. Da solo saltò sul ponte della nave nemica e si fece strada a colpi di spada, in mezzo a quei veloci e abili avversari. Nella mischia, a uno di quei nemici cadde l’elmo dal capo, rivelando lineamenti delicati, pelle senza barba. Non era un uomo, ma nientemeno che la principessa Alfhild!
Alf provò un’immensa gioia. Dopo averla cercata per i peggiori mari del nord, la donna era finalmente lì davanti a lui. Alf mollò la spada e tutti i suoi uomini fecero lo stesso. Invece di scambiare il ferro con quelle donne, avevano intenzione di scambiare dei baci. Alfhild guardò quell’eroe che aveva fatto tanta strada per lei e ne fu contenta. A questo punto, aveva dimostrato a tutti quanto valeva, e non aveva più bisogno di farlo. Liberamente scelse di accettare l’amore di Alf e i due si sposarono.
E con l’amore trionfante di Alf e Alfhild, raccontato da Saxo Grammaticus, si chiude questo primo, epico, episodio dal vivo di Leggende Affilate.”
In questo viaggio abbiamo attraversato quasi tutto l’Occidente medievale, scoprendo che la realtà supera spesso la fantasia. Dalla spietata giustizia divina di San Mercurio contro il sacrilego Neri da Leccaterra (come narrato da Salimbene de Adam), alla rivalità galante tra Chandos e Clermont immortalata da Jean Froissart.
La Crònica di Bernat Desclot che ci ha mostrato come un almogavaro straccione valesse dieci cavalieri francesi, e abbiamo messo alla prova la nostra saggezza con le Sfide del Condottiero, confrontando le nostre strategie con le cronache di Cesario di Heisterbach.
Spero che questi episodi vi abbiano appassionato e che vi abbiano lasciato voglia di riscoprire il lato più affilato della storia.
Da Lorenzo Manara per oggi è tutto, alla prossima leggenda.
- Salimbene de Adam, Chronica, citazione del racconto riguardante Neri da Leccaterra ↩
- Jean Froissart, Chroniques, riferimento agli eventi della Guerra dei Cent’Anni e l’episodio di Chandos e Clermont ↩
- Bernat Desclot, Crònica, descrizione del duello tra l’Almogavaro e il cavaliere francese ↩
- Cesario di Heisterbach, Dialogus Miraculorum (in particolare la Distinctio V: De Daemonibus), per la storia del cavaliere e del suo servitore demoniaco ↩
- Saxo Grammaticus, Gesta Danorum, Libro VII, per la leggenda di Alfhild, figlia del re Siward ↩
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