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30 Dicembre 2024

Una imboscata medievale

imboscata medievale

La disfatta del Conte Lando e della Grande Compagnia contro un’armata di villani: una sanguinosa imboscata medievale

Siamo abituati, grazie a libri e film, al drammatico momento dell’imboscata: ovvero, la scena in cui un esercito attraversa un passaggio naturale difficoltoso, spesso proprio un bosco, per essere assalito all’improvviso dal nemico che si era piazzato lì, nascosto, ad aspettarlo, per farlo a pezzi. Un nemico che, il più delle volte, non è neppure granché, in quanto a capacità combattive, e che magari le prenderebbe di santa ragione se si scontrasse in campo aperto. Ma il significato di un’imboscata è proprio questo: azzerare il divario tra due schieramenti e permettere anche ai guerrieri più scarsi di riportare una grandiosa vittoria.

Naturalmente questo espediente narrativo molto utilizzato nelle storie, da Robin Hood a Game of Thrones, è un elemento appartenente alla guerra, quella vera; e sono innumerevoli gli episodi di imboscate, anche piuttosto famosi, occorsi nei secoli. Oggi voglio narrarvi, però, di un evento estremamente marginale della grande storia dell’umanità; evento che riguarda un’imboscata medievale italiana.

Il protagonista di questa imboscata è un famoso “capo di ladroni”, come lo definisce Matteo Villani, autore della cronaca trecentesca da cui è tratto questo episodio. Ovvero il conte Lando, condottiero di gran fama che, a dispetto del nome, non era affatto italiano, ma di origini sveve: Konrad Wirtinger von Landau. Questo era il suo vero nome, italianizzato nelle cronache in Conte Lando. Perché usava fare così, infatti non era l’unico condottiero straniero a vedersi tradotto pure di nome in lingua nostrana.

Il conte Lando era, quindi, un condottiero. Precisamente capitano di ventura della Grande Compagnia, armata mercenaria che percorreva l’Italia in lungo e in largo, assoldata da ogni genere di signoria cittadina, da sovrani e perfino papi. Una gran compagnia in tutti i sensi. Stando alle cronache, in certe battaglie che li riguardarono, come la battaglia del Campo delle Mosche, del 23 luglio 1359 (nome bellissimo che sembra uscito da uno dei miei romanzi, tipo “La Stirpe delle Ossa”), erano in grado di schierare migliaia di uomini, rivaleggiando da soli contro intere signorie e città. Migliaia di uomini strutturati secondo le migliori tattiche dell’epoca, divisi quindi in balestrieri, fanti, arcieri e cavalieri, ovvero mercenari a dorso di cavallo da guerra. Cavalieri che magari erano di nobili origini, votati alla guerra di mestiere perché secondi, terzi, quarti figli, eccetera, e non potevano aspirare ad alcuna eredità famigliare. Nobili senza futuro, ma che magari un gruzzoletto per un cavallo da guerra, con l’armatura e tutto il resto ce l’avevano. E con una simile base di partenza, se si fossero dimostrati validi masnadieri, potevano mantenersi comprandosi armi, arnesi e altri cavalli da guerra saccheggiando, facendo prigionieri e cose di questo genere. Il mestiere del mercenario, insomma. Si dice che si poteva divenire davvero molto ricchi, se si era capaci. Soprattutto in Italia, dove la ricchezza abbondava, nel tardo medioevo. E le città, le signorie, i sovrani (e pure i papi) pagavano oro per assoldare i migliori mercenari.

Insomma, il conte Lando nel giorno 24 luglio 1358 (un anno prima della famosissima battaglia del campo delle mosche), il conte Lando stava passando l’appennino tosco romagnolo con tutta la sua compagnia. Luoghi duri, impervi, pieni di pendii, declivi, boschi… e insediamenti. Già, perché l’Italia medievale, come oggi, era densissima a livello abitativo. Immaginate che sareste stati in grado di scorgere sempre, quasi ovunque, castelli, torri, borghi fortificati che sorgevano dappertutto, pure nei luoghi apparentemente più inaccessibili. Luoghi che facevano gola a quei masnadieri prezzolati. Come il ferro alla calamita, dice il cronista. E, infatti, i ragazzi del conte Lando passeggiando per quelle montagne finivano per saccheggiare a più non posso.

Intendiamoci, non si trattava di nemici di passaggio che sterminavano e uccidevano e derubavano, tipo come si vede nei film. Il mondo medievale, soprattutto quello italiano, era un mondo estremamente raffinato, al livello politico. E questa compagnia aveva propri diplomatici e ambasciatori al seguito, e accordi presi con innumerevoli individui e località. E quando attraversava un territorio, solitamente, era tutto preparato e organizzato: la popolazione lo sapeva, le autorità locali lo sapevano, e i mercenari sapevano di dover tenere un determinato codice di condotta, mentre passavano. Per questo si disponevano vettovaglie e si preparava il terreno per quei mercenari, che di luogo in luogo potevano fermarsi e rifornirsi, trovare riparo, e tutto quel che serve per vivere. Ma, e qui ritorniamo a quei maledetti mercenari e al loro temperamento, spesso gli accordi venivano infranti. Nel senso che i mercenari, forti del numero e della loro soverchiante potenza, forzavano la mano sentendosi in condizione di fare un po’ quel che volevano. E quindi non pagavano tutto quel che dovevano pagare, o non pagavano affatto. Derubavano, magari compivano anche qualche reato. Condizioni spiacevoli per chi si trovava ad avere a che fare con questi mercenari di passaggio che, ripeto, non erano considerati “nemici” veri e propri, ma sicuramente una fastidiosissima seccatura con cui fare i conti.

Sta di fatto che i ragazzi del conte Lando stavolta esagerarono. Perché ne combinarono di tutti i colori, tra furti, reati e tafferugli vari, e gli abitanti di quei luoghi si infuriarono così tanto da cominciare a rumoreggiare per esigere vendetta. Gli abitanti di Biforco con quelli di Castiglione e quelli della Valdilamone (nomi sempre bellissimi) si misero assieme formando un’armata di incazzatissimi villani, con soldataglia locale e guerrieri vari di contorno. Gente che di base, a condizioni normali, se si fosse messa contro la compagnia del Conte Lando, sarebbe finita molto male. Il conte era abituato a combattere battaglie campali al soldo di sovrani, di papi (l’ho già detto?), guidando cariche di centinaia di cavalieri incontro a solide formazioni composte dai sanguinari più temuti di tutto l’Occidente… Che gliene importava di quei villani scalcagnati?

Infatti, quella sera di luglio, gli giunse voce dell’armata di montanari che andava formandosi. Quelli che se l’erano presa a male per colpa delle ruberie dei ragazzi. Voci che presagivano di un assalto, proprio l’indomani, perché quelli erano davvero incazzati. Ma, come detto, di una simile notizia il conte Lando si fece una gran risata. Perché non aveva affatto paura di loro, dopo tutti quegli anni passati a combattere battaglie vere. A condizioni normali se li sarebbe mangiati in un solo boccone.

Ma quelle, però, non erano affatto condizioni normali. Si parla di gente determinata ed esperta di montagna. Si parla di un assalto improvviso. Si parla di un’imboscata.

Il conte Lando, nonostante la soffiata, ordinò la marcia e riprese il cammino. La compagnia si divise in gruppi per attraversare l’appennino: una numerosa avanguardia composta dalla maggioranza degli armati e dei disarmati, con tutta la salmeria, ovvero muli carichi di equipaggiamenti. Dico muli perché solitamente per le strade di campagna e, soprattutto, di montagna, è difficile che riuscissero a passare i carri. Grossi carri trainati per la maggior parte da bestie grandi e pesanti, tipo buoi. Ecco, ritengo sia molto più probabile che in quelle condizioni il mulo sia stata la bestia perfetta, nonché unica alternativa, per il trasporto delle merci. Anche perché lo è stato fino a gran parte del Novecento in tantissime zone rurali italiane. Molti di voi avranno sentito parlare i nonni che abitavano in montagna fino al secondo dopoguerra. Ecco, laggiù il mulo, l’asino, il somaro, il ciuccio, o qualsiasi fosse la variante terminologica, era decisamente il migliore amico dell’uomo. Animali comunemente derisi, ma che in verità possiedono una certa intelligenza e di sicuro una volontà incrollabile. “Lavorare come un mulo”, si dice. Perché è vero. Parentesi animalesca a parte, questo primo gruppo d’avanguardia comprendeva pure ambasciatori e ostaggi. Come dicevo poco fa, questa compagnia era organizzata anche a livello politico e si portava dietro personalità diplomatiche che servivano a sbrigare le questioni politiche, stipulare trattati e tutto il resto. Oltre a ostaggi che servivano allo stesso scopo. E poi vi erano anche dei “funzionari” veri e propri che si occupavano di svariati aspetti della vita quotidiana, specialmente quella economica: per amministrare le casse della compagnia, i crediti e i debiti. Dico tutto questo per farvi immaginare una realtà viva e variegata, e non la solita masnada di sudici soldati che marciano in armatura come si vede nei film. Immaginiamola come una vera compagnia nel senso economico del termine: perché di quello si trattava, di fare soldi.

Come retroguardia, invece, il conte Lando dispose i migliori, “gente d’arme avvantaggiata con loro arnese sottile e di valuta”, ovvero veterani coi soldi e armi buone, nella fattispecie 800 cavalieri e 500 fanti.

Con questa gran massa di soldati, attraversarono un passaggio che non era particolarmente lungo da attraversare, ma era stretto, difficoltoso, “aspro e malagevole”, che si diramava sul fondo di una valle irta di pareti rocciose, che il cronista chiama “passo alle scalelle”. Il classico luogo perfetto per un’imboscata per come ce la immaginiamo noi. Ed è proprio quello che accadde, quel giorno. Perché i villani li stavano aspettando, e non appena seppero che il conte stava passando di lì, cominciarono a radunarsi sulla cima di quello stretto passaggio. Ci misero un po’ a radunarsi, e infatti tutta l’avanguardia della compagnia passò senza problemi. Poi toccò alla retroguardia, il secondo gruppo, quello dei migliori, dove si trovava proprio lui, il condottiero, il Conte Lando.

Il Conte Lando stava attraversando lo stretto passaggio a dorso di cavallo, con l’armatura indosso ma con il capo scoperto, perché s’era tolto la barbuta di testa. La barbuta è un elmo all’italiana molto usato all’epoca, e pure oggi abbastanza conosciuto come design. Forse uno degli elmi che più rispondono all’ideale di guerra medievale, oggi giorno, che probabilmente molti bambini sanno disegnare quando fantasticano di draghi e cavalieri. Ed è così celebre perché lo era pure all’epoca, infatti veniva usato così ampiamente che il termine stesso, per figura retorica, finì per essere usato per indicare i soldati. I cronisti spesso scrivevano “tale compagnia schierava 1000 barbute, mentre il nemico schierava 2000 barbute”. Ecco, cose di questo genere. Laddove “barbuta” stava a significare “soldato”. Naturalmente un soldato degno di nota, come ad esempio un cavaliere. Col termine “barbuta” non si numeravano i villani, o i generici fanti. Perché la barbuta era un buon elmo e chi ce l’aveva era di conseguenza un soldato di un certo valore.

Insomma, il condottiero della Grande Compagnia se ne stava sul cavallo, senza la barbuta in capo, perché sgranocchiava qualcosa. Il cronista ce lo dipinge così, mentre cavalca e sgranocchia. Cosa? Non si sa. Forse un frutto, forse del pane. Però è bello avere questi dettagli di vita mercenaria, di gente che in verità, più che combattere, la maggior parte del tempo lo passava in marcia. E mangiavano, bevevano, si acquattavano tra i cespugli per far la cacca, e cose di questo genere.

Insomma, il condottiero mangiava a cavallo, tutto bello tranquillo, in pieno attraversamento del fondo valle, quando, a un certo punto, cominciarono a piovere sassate. Sassate lanciate a forza di braccia, ma anche pietroni fatti rotolare giù, in grado di travolgere cavalieri e cavalli con vere e proprie frane. Uno dei maliscalchi della compagnia, ovvero uno dei capitani che guidavano una brigata, cioè una divisione interna della compagnia, fu preso in pieno. Si scatenò una pioggia di sassate seguita da frane per opera di gente che non valeva granché, in battaglia, e di cui questi famosi mercenari non avevano affatto paura, a cose normali. Ma in questo contesto, in questa specifica situazione, le cose cambiavano eccome. Un’imboscata del genere diventava una questione pericolosa, direi mortale.

Il Conte Lando gettò via il pasto, si rimise la barbuta in testa e gridò l’allarme. Su di lui e i suoi ragazzi grandinavano pietre. E loro erano bloccati di sotto, come in prigione, dice il cronista. Nonostante la situazione, però, i mercenari si adoperarono subito per il contrattacco. Il condottiero fece smontare 100 ungari dai loro destrieri e li mandò alla caccia dei villani che stavano di sopra, arrampicandosi. E qui bisogna fare un’altra piccola parentesi. Perché questi mercenari, ch’erano per gran parte tedeschi, si avvalevano di ungari? Perché, come detto, l’Italia di quel tempo era un paese più che internazionale, dove si concentravano guerrieri d’ogni luogo. Inglesi, francesi, tedeschi, spagnoli e pure gli ungari. Gli ungari, nello specifico, erano dei mercenari molto conosciuti (nel bene e nel male) per via delle questioni politiche che univano il re d’Ungheria e gli affari di guerra delle più grandi casate europee, che in quel momento si contendevano territori italiani.

Gli ungari erano particolari, però. Perché l’Ungheria era la porta d’Europa al confine con l’Asia: incontro di culture tra loro diversissime. E i guerrieri di quel paese riflettevano questa ricchezza multiforme. Tra i mercenari ungari si radunavano i nativi ungheresi, che erano europei in tutto e per tutto: vestivano armature in maglia di ferro, farsetti e imbracciavano spade dritte, alla maniera occidentale; ma al loro fianco vi erano anche molti guerrieri di etnie differenti, provenienti dall’asia minore, tra i quali figuravano anche i tartari. Costoro indossavano kaftani lunghi fino alle caviglie, cappelli a punta e in alcuni casi spade ricurve. Quei cento ungari schierati dal Conte Lando erano, quindi, una forza multietnica dal sapor mediorientale, abilissimi cavalieri e, soprattutto, temibili arcieri. Perché la vera forza dei mercenari ungari, l’elemento che li caratterizzava e li rendeva altamente desiderabili, era la capacità di tirar frecce con grandi e potenti archi ricurvi, compositi, alla maniera dei turchi. Perché era da loro che avevano preso questa capacità, sapendola sfruttar bene anche a cavallo. Tiravano frecciate mortali, in grado di penetrare gli anelli delle maglie di ferro, e lo facevano in velocità, garantendo una grande mobilità sul campo di battaglia, veloci e letali. Sono presenti pure nei miei romanzi, col nome di Barbanicchi, perché è così che li chiamavano alcuni storici. Presumibilmente per via delle loro lunghe barbe, non si sa bene.

Ed ecco quei cento barbanicchi del Conte Lando scendere da cavallo sotto una terribile sassaiola per arrampicarsi sulle pareti rocciose, in direzione di quei villani che tirano di sotto. Per andare a prenderli e far assaggiare loro il ferro di guerrieri temprati da mille battaglie. Ma niente di tutto questo accadde. Perché la valle era stretta, impervia, e i villani stavano parecchio in alto, ed erano esperti di quei luoghi. I mercenari non potevano in alcun modo raggiungerli. E continuavano a piovere sassi. Moltissimi ungari morirono, colpiti da quelle sassate, finché i restanti non smisero di arrampicarsi e tornarono giù, per scappare. Una fuga che contagiò molti altri mercenari, soprattutto quando una micidiale sassata colpì in pieno un gran cavaliere della compagnia, il Broccardo, denominato Conte pure lui perché fratello di Lando. Il fratello del condottiero finisce col capo spaccato, cade da cavallo, e come se non bastasse, piomba giù di sotto in un burrone.

Dunque, vista la situazione, non restava che una cosa da fare: darsela a gambe. I mercenari tra i più temuti d’Italia scapparono per la gola, sotto la tempesta di sassi, lasciandosi dietro una marea di cadaveri. E i villani li rincorsero. Molti scesero dalle rupi con le armi manesche, ovvero con le lance, per trafiggere i feriti e coloro che erano stati lasciati indietro, in una carneficina senza pari, tra cavalli imbizzarriti rimasti senza cavaliere e sassi che continuavano a piovere giù. I villani, accorsi in gran numero, si piazzarono pure all’imboccatura della strettoia, incontrando coloro che volevano uscire dall’imbuto infernale, e i mercenari vennero così bloccati, in trappola. A quel punto non si poteva più manco scappare. I mercenari dovettero mettere mano alle armi nella peggior condizione mai occorsa loro. Inoltre, tra i villani si fecero avanti anche quei pochi soldati di quei luoghi che erano davvero valenti, fedeli ai signori locali, e soldati di mestiere. Dodici di loro andarono dritti verso il Conte Lando, appositamente schierati per catturarlo. E in quelle condizioni, il tedesco Lando, che aveva perso tutto, pure il fratello, s’arrese. Porse loro la spada e si tolse la barbuta dal capo. E nel far ciò, scoprendosi in volto, finì preda di un raptus di violenza e scarso valore cavalleresco, perché uno di quei villani ne approfittò per trafiggerlo in faccia.

Il Conte Lando fu ferito e catturato. Non morì, ma le conseguenze di quel colpo di lancia, e dell’imboscata, decisero le sorti dell’intera Compagnia. Perché moltissimi morirono, quel giorno, (almeno 300 cavalieri, dice il cronista) e nonostante la compagnia riuscì poi a riorganizzarsi per partecipare ancora a qualche battaglia, col Conte scappato dalla prigionia, non si riprese mai del tutto. Da quel giorno iniziò il declino di una delle armate mercenarie più temute dell’epoca, per colpa delle sassate di villani montanari durante una sanguinosa imboscata.

Finisce così questo episodio davvero molto marginale della storia medievale europea. Marginale ma comunque interessante. Perché ormai mi conoscete, preferisco lasciare i grandi eventi storici conosciutissimi agli pesudodivulgatori che si copiaincollano a vicenda, dicendo sempre le stesse cose. Sempre le solite battaglie, sempre le solite “curiosità”, le solite banalissime considerazioni per rigurgitare tanti “contenuti” in maniera veloce. Li chiamano “contenuti”. Eh. Io invece voglio scavare tra le fonti originali per provare a tirar fuori qualcosa di nuovo, di interessante. Che poi viene puntualmente copiato, eh, gli pseudodivulgatori, anche quelli più seguiti, quelli da centinaia di migliaia di iscritti, saccheggiano il mio lavoro di ricerca da un bel po’ di tempo, e molti di voi se ne sono accorti.

Perché la parte più difficile nel raccontare storie è proprio questa: trovare cosa dire. Bisogna cercare le storie con continuità, e bisogna saperlo fare. E l’unico modo per farlo, indovinate un po’, è studiare. Studiare i manoscritti trecenteschi da cinquecento pagine, come quello di Matteo Villani che ha fatto da fonte per questo articolo. Un mestiere lungo, difficile, che molti preferiscono bypassare con la ricerchina su Google, o su YouTube, per saccheggiare il lavoro di ricerca già fatto dagli altri. Cosa che, adesso che sto uscendo piano piano dall’anonimato, mi capita sempre più di frequente.

Detto questo, grazie per l’ascolto, scusate lo sfogo di cui non siete assolutamente abituati, non da parte mia. Perché dopo anni non credo d’avervene mai regalato uno, però, ecco, c’è sempre una prima volta. E se siete dalla mia parte, mi raccomando dimostratelo con un bel like, condividendo l’episodio coi vostri amici e iscrivendovi al canale YouTube, Spotify o quel che è (scegli la piattaforma che preferisci al seguente LINK). Voi siete la sola differenza tra una gloriosa vittoria e una rovinosa sconfitta, come subì il conte Lando per colpa di un’imboscata da villani. Grazie e alla prossima!

Capitolo LXXIV “Come la compagnia fu rotta nell’Alpe”
Fermata per lo nostro comune la concordia colla compagnia, come è di sopra narrato, la compagnia di presente si mosse con bello ordine de’ suoi capitani, e a dì ventiquattro del mese di luglio 1358 prese albergo nell’alpe tra Castiglione e Biforco: e come è d’uso di gente di sì fatta maniera che male si può temperare, che come il ferro alla calamita non corra alla preda, passando i patti e convegne si toglieano la vittuaglia loro apparecchiata senza pagare, e se trovavano cose non bene risposte né in luogo sicuro ne faceano danno, oltraggiando i paesani e di parole e di fatti. Perché dolendosi gli offesi di ciò, ed essendo male nditi e peggio intesi, ne presono cruccio; e raccogliendosi insieme, nel mormorio alquanti di loro cominciarono ragionamento e di vendetta e di ristori di loro dannaggio, e senza perdere tempo, s’intesono insieme quelli di Biforco fedeli de’conti da Battifolle, e quelli di Castiglione fedeli di quello d’Alberghettino, e con loro s’aggiunsono alquanti di quelli della Valdilamone, e disposonsi a loro vantaggio a luogo e tempo nel trapasso d’assalire la compagnia, o parte d’essa, e cercare loro ventura per rifarsi di loro danni, e vendicarsi degli oltraggi che aveano ricevuti. Quella sera medesima che questo per li villani si cercava ciò fu detto al Conte di Lando, e avvisato che la seguente mattina gli s’apparecchiava novità: poco mostrò averlo a calere, sapendo che poco numero essere potea, e di gente alpigiana, e male in arnese quella che il cercasse d’offendere; nondimanco avanti al fare del giorno avacciò sua cavalcata, e mise sua gente in cammino, e ne fece più parti: nella prima fe cavalcare messer Amerigo del Cavalletto, e con lui gli ambasciadori fiorentini, fuori d’uno che ne tenne con seco, colla maggior parte di sua gente armata e disarmata con tutta la salmeria. I conestabili con gente d’arme avvantaggiata con loro arnese sottile e di valuta, in numero d’ottocento a cavallo e cinquecento pedone, col conte Broccardo lasciò la retroguardia e riscossa. Il cammino ch’eglino aveano a fare, tutto che non fosse lungo, era aspro e malagevole, perrocché venendo da Biforco e Belforte presso alle due miglia della valle, quinci e quindi fasciata dalle ripe e stretta nel fondo, dov’era la via, la quale si leva dopo alquanto di piano repente ed erta a maraviglia, inviluppata di pietre e di torcimenti, e tale passo è detto alle Scalelle, che bene concorda il nome col fatto. Il detto luogo passò liberamente messer Amerigo con tutta sua brigata, perché ancora non erano giunti i villani, i quali poco appresso vi vennono in numero d’ottanta, o in quel torno, disponendosi partitamente nei luoghi dove pensarono a vantaggio e loro sicurtà potere meglio offendere i loro nemici: e volendo uno de’maliscalchi della compagnia con sua brigata il detto luogo passare, fu dai villani assalito, e con le pietre indietro ripinto. Il conte di Lando s’avea tratto la barbuta di testa, e mangiava a cavallo, e sentendo ciò ch’era cominciato, subito si rimise la barbuta, e fece gridare arme; onde i villani, che come detto è, s’erano riposti per le creste de’colli, e nelle ripe e balzi che sopravastavano le vie, sentendo il passo impedito, si cominciarono a mostrare per le ripe intorno, e a voltare gran sassi, e a gittare con mano sopra la gente del conte ch’erano nel basso del fossato, quasi come in prigione chiusi da altissime ripe. Il conte non spaventato né invilito per lo subito assalto, come uomo d’alto cuore e maestro di guerra, di subito fece smontare da cavallo circa a cento Ungheri, e li fece montare per le ripe per cacciare i villani dalle ripe ov’erano posti colle frecce e colle grida: ma poco li valse, perrocché i villani ch’erano ne’ luoghi avvantaggiati e sicuri, e soprastanti assai a quelli dove gli ungheresi in uosa, e gravi di loro armi e giubboni non poteano salire, colle pietre n’uccisono alquanti, e gli altri cacciarono a valle. E stando il conte e’suoi nel romore e travaglio, colle difese che le sue genti poteano fare nel luogo stretto e malagevole, dove poco poteano mostrare loro virtù, una gran pietra mossa nella sommità del monte da parecchi villani, scendendo rovinosamente percosse il conte Broccardo, e lui e’l cavallo ne portò nel fossato, e uccise; e per simile modo molti e morti e magagnati ne furono. Veggendo i villani che già erano scesi alle spalle de’ cavalieri in luogo che li poeano fedire colle lance manesche , che icavalieri per la morte di molti di loro erano inviliti, e per la strettezza di loro da non si potere ordinare a difesa, né per niuno modo abile atare, scesono con loro alle mani; e uno fedele del conte Guido con dodici compagni arditamente si dirizzò al conte di Lando e valentemente l’assalì. Il conte colla spada fe’ bella difesa: alla fine non potendo alle forze resistere, s’arrendé prigione, porgendo la spada per la punta; ed essendo ricevuto, come s’ebbe tratta la barbuta, uno villano di una lancia il fedì nella testa, della quale ferita lungo tempo dopo stette in pericolo di morte. Arrenduto il conte di Lando, tutti i cavalieri smontarono da cavallo, e come il più presto poterono, spogliate l’armi epr essere leggieri, si diederono alla fuga, e come ciascuno meglio potea saliano per le ripe, e per li boschi e burrati fuggendo. Allora non solo gli uomini ma le femmine ch’erano corse al romore, e stare i loro mariti almeno con voltare delle pietre, gli spogliavano, e loro toglievano le cinture d’argento, e’danari e gli altri arnesi: e avvegnaché assai ne fuggissono per questo modo, molti morti ne furono, e pure de’migliori, e assai presi, e così de fanti a pié. In questo baratto si trovarono morti più di trecento cavalieri e assai presi, e più di mille cavalli e bene trecento ronzini, e molto arnese sottile e robe e danari vi perderono; e benché fossono usciti del passo, errando molti presi ne furono nelle cirvustanse dagli altri paesani che non s’erano trovati alla zuffa.

Lorenzo Manara
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